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di sopra, prende cominciamento confacente. Si finge cioè smarrito in un' aspra oscura selva, nella quale si figura il disordine civile e politico, a cui tiene poi sempre dietro il morale, succeduto al tempo bello antico, in che l'Impero era in fiore, od almeno non senza autorità, n'è affatto spento in Italia specialmente, a cui più che ad altro paese il Poeta ebbe volto il pensiero. Nel qual disordine, preso e considerato nelle alte cose, cioè nella politica e nel reggimento, era appunto entrato, come si è detto, alquanto prima del 1300. Nel qual anno, che è quello della visione, ed era il mezzo del cammino della sua vita, l' Alighieri vi si trovava ben addentro, toccando proprio allora la cima degli onori fiorentini, giacchè in quell' anno fu fatto dei Priori, suprema magistratura della sua patria. Qui però il Poeta non vuolsi considerare (e questo si noti bene) nel suo particolare, ma come rappresentante l'uomo buono in genere, e l'anima nobile, e collettivamente in sè gli uomini di buona volontà, che incautamente, e quasi senza avvedersene, e pieni di sonno avevano abbandonata la verace via della ragione, cioè l' ordine voluto, e si erano dati a novità. Per le quali poi di grado in grado rovinando, erano pervenuti a quel disordine, che è ben detto selva Oscura, aspra e forte; posciachè il regno o la città che a selva si contrappone, non consiste già nelle mura, negli edifizi e nelle torri, ma sibbene in un civile accordo o reggimento con buone leggi e magistrati, che vagliano a conservare l'ordine, la giustizia e la pace, senza le quali condizioni, non più città comunque ben materiata e costrutta, vuolsi appellare, ma selva. E così appunto lo stesso Alighieri chiama Fiorenza (parte di quel tutto che intende descrivere) dicendo nel XIV del Purgatorio di Folcieri da Calboli

Sanguinoso esce dalla trista selva

E l'Italia tutta, od almeno il regno italico, con non dissimile metafora è detto deserto nella lettera ai Principi e popoli per la venuta di Arrigo VII, e selva italica nella volgare eloquenza, e Roma pure fu detta selva, quando i Papi trasportata la loro sede di là dai monti, era caduta in quel misero stato che narrano gli storici. Questa è metafora usitatissima, tanto nella prosa, che nel verso, e non occorre recarne altri esempi. Solo osserveremo che le Allegorie figurative dell' Alighieri, per lo più si reggono sulle similitudini stesse delle metafore, ossia pel motivo, che una cosa metaforicamente si chiama, o si può chiamare in tal data maniera, per lo stesso il nostro Autore fingendo, ed inventando, nella maniera medesima la rappresenta. Detto della selva che il Poeta appella anche Valle, aggiungeremo, nel bel monte contermine null' altro significarsi che il contrario di lei. L'antitesi è manifesta. La selva è oscura, aspra, forte, amara sì che poco è più morte, il sole vi tace: il monte invece è vestito dei raggi del bel pianeta, dilettoso, principio e cagione di tutta gioia: diciamo dunque simboleggiarsi in esso un regno ben ordinato, secondo il concetto dell' Autore, co' suoi effetti, pace, gioia, felicità, locchè resterà più e più dimostrato, da quanto in seguito si andrà dicendo. Nel tentativo poi di salire, è significata la prova, a che il Poeta (considerato come sopra si diceva, non in sè particolarmente, ma come uom pubblico, rappresentante in genere l' uomo buono, in quanto è retto ed anche rettore, ne' confusi reggimenti però di allora, l' anima nobile insomma) si accinge, o finge di accingersi per togliersi al disordine ed infelicità, simboleggiata nella selva, e pervenire per via corta e pacifica, all' ordine e felicità, simboleggiata nel Monte. E nelle tre fiere, che gli contendono la salita, la Lonza, il Leone, la Lupa, le tre condizioni che si opponevano al conseguimento del bramato fine..

Su di che è ad avvertirsi, che in ogni reggimento disordinato, eravi allora come sempre fu e sarà, gente che guadagna nel pubblico disordine, trovandovi pascolo alla propria ambizione ed avarizia, due affetti assai tenaci, sicchè senza forza e violenza, è vano lo sperare di rimovere questa gente dal pro ed interesse loro, sia pur anco mal inteso. Ed avvi poi una classe assai numerosa di chi per scioperìo, per zelo, od utopìa, parteggia, quale per una parte, quale per l'altra, partiti tra loro, e tutti poi dalla verità e dall'ordine voluto, senza viste però d' interesse, ma per puro principio od affetto, e talora senza saperne il perchè, e il più delle volte tratti dall' esempio. Questi più illusi che rei, e che formano la base e la milizia, di cui poi i detti di sopra sono i moventi ed agitatori, vengono dal Poeta rappresentati nella prima e meno ria delle tre fiere, nella Lonza cioè; mentre gli altri due affetti rei superbia ambiziosa ed avarizia, velati maliziosamente sotto il nome di parte, ossia gli uomini, che ne erano presi, sono distintamente rappresentati nelle altre due fiere e cioè, i superbi ambiziosi nel Leone e gli avari nella Lupa. Questi due animali sono dunque posti a significare i due vizi detti dagli antichi espositori ; se non che quelli intendevano della superbia ed ambizione di Dante medesimo, il che certo è erroneo; e noi invece di coloro che in quel disordine erano intesi a saziare la cupidità loro di comando e di ricchezza, sicchè trovatone modo, avevano l'ordine e la pace per nemica, avversando ogni mezzo e tentativo per ricondurli, per tema di perdere con questi, quanto nel disordine e nella discordia civile guadagnavano. Le suddette due passioni, intese spesso dall' Alighieri sotto il nome generico di cupidità, furono sempre le molle ed il fondamento di ogni civile agitazione, onde Sallustio nella Congiura di Catilina, disse delle parti popolare e senatoria, e cioè de' primi e

principali loro membri « Bonum pubblicum simulantes pro » sua quisque potentia certabat ». Nè alcuno pensi, che ne' tempi di che si parla, peggiori assai e disordinatissimi, a differenza di quelli che erano pure in qualche modo ordinati, gli affetti fossero diversi. Il Muratori sia negli Annali, sia nelle Dissertazioni sulle antichità italiane, e precisamente in quella ove tratta de' Guelfi e de' Ghibellini, ferma apertamente, che sotto questi nomi gli uomini, e principalmente i Capi di queste Parti, avevano per fine di pascere le passioni loro, ed in particolare le suddette due, ambizione ed avarizia. E Dino Compagni nella sua Cronaca, in più e più luoghi fa conoscere che la gara degli Uffici, era la radice profonda della discordia fiorentina, e quella che maggiormente impediva e toglieva la pace. « Piangano » dunque i suoi cittadini (così dice egli) sopra loro e so» pra i loro figliuoli, i quali per loro superbia e per ma» lizia, e per gara d' Uffici hanno così nobile città disfatta ». E quello, che qui è detto di Fiorenza, s' intenda pure e si ripeta della maggior parte delle città italiche, che trovavansi nella stessa condizione, ed il Poeta intende anche, anzi più particolarmente dell' alta classe de' Principi e Magnati d'Italia, che ne avevano in mano il freno ed il dominio, i quali per conservarselo intero avversavano l'ordine politico da lui voluto, ossia l' Imperatore che mancava a ricondurlo, credendo essi tornar loro più in acconcio quel disordine. La discordia civile adunque, la superbia ambiziosa e l'avarizia, presa ciascuna nel senso dichiarato di sopra, e che meglio il sarà in progresso, sono le tre condizioni ostili, significate nelle tre fiere, ed è chiaro, che la Lonza prima fiera, assai meno ria delle altre, secondo il concetto velato sotto la figura di lei, doveva naturalmente lasciare al Poeta, nel modo che ei finge, qualche speranza di vincer lei, ossia il di lei ostacolo, come meno rubella

alla ragione, ed agli aiuti dell' uomo e del cielo, che guidano all' ordine ed al ravvedimento, in paragone delle altre due, e della Lupa specialmente, assai più ria, tenace, cieca, e veramente senza pace. In seguito si renderà anche ragione del come il Poeta potesse dirsi indotto a bene sperare di quella prima fiera (la Lonza), dall' esser tempo del mattino e di primavera, che è poi quanto dire da quella disposizione od atto di cielo, sotto cui finge che trovandosi egli smarrito nella selva, tentasse di salire il monte. Ora il proposito nostro esige che si soggiunga partitamente alcuna dichiarazione, sulle qualità delle tre fiere.

§ XX. La Lonza è detta gaia alla pelle, leggera e presta molto, epiteti che ben le convengono, posta a significare le parti politiche, come noi diciamo, mentre il parteggiare preso semplicemente, e scompagnato da mire d' interesse, è più proprio della gioventù, nella quale n'appare l'Autore porlo, e considerarlo quasi esclusivamente. E questa per natura ha il liscio e la pelle gaia, ha l'agilità e la prestezza rese poi anche maggiori dallo spirito di parte, e la storia appunto ci fa fede quanto le sette d'allora fossero sollecite e preste nel promuovere e difendere i loro interessi. La stessa, dicesi coverta di pelo maculato. Su di che al proposito nostro osserveremo coll' Autore, che la concordia è una certa unità, e la discordia il contrario, onde a rendere immagine di questa in qualche modo in un tutto, era appunto acconcia una bestia dipinta a vari colori, quale si è la Lonza, che per testimonianza di Brunetto Latini ha tacche bianche e nere, colori che si convengono coi nomi, se non altro delle Parti, che allora turbavano la Toscana. E noteremo che nel Lib. I Cap. XVI del Volgare Eloquio, la lingua italiana, la quale ne' varii dialetti, come l'Alighieri si esprime << in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla » è da lui perciò detta Pantera, facendo di

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