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le tre successioni suindicate del I e del II Carlo e di Roberto, furono riguardati Capi e sostegni della parte Guelfa, e furono fieramente avversi ai Ghibellini, a cui fecero sempre il maggior male che poterono, attestando lo stesso Denina «Che Carlo I non solamente sopportava di mal animo » che il partito Ghibellino per opera di un Re Tedesco > ripigliasse forza e vantaggio sopra de' Guelfi, di cui esso »`era capo, ma che ancora con fiere minacce disturbò e » ruppe la concordia che il Pontefice si era ingegnato di » mettere in alcuni luoghi tra l'uno e l'altro partito, per» chè stimava che una tale unione potesse rendere meno » sicura l'autorità sua nelle Città, dov' egli aveva acquistata » signoria (1) ». Ed in questa politica fu seguito dai successori e da Roberto specialmente, il quale non meno di lui, usò tutte le arti possibili, onde tener lontani i Re Tedeschi, ossia gl' Imperatori, la venuta in Italia de' quali non poteva essere senza di lui pericolo, od almeno senza perdita di quel dominio e potere, che colla propria autorità e col favore del Papa, che ebbe costantemente, aveva conseguito, vacante Imperio, nel Regno Italico. La qual cosa si renderà anche più manifesta per ciò che in seguito si anderà accennando. L'essere poi venuto Carlo il Vecchio ad occupare un Regno, ove ebbero sede gli ultimi Imperatori, l'essere egli stato nominato Vicario imperiale in Toscana; l'essere stato gridato Signore da tante Città del Regno Italico; l'essere stato chiamato dalla Santa Sede, di cui naturalmente veniva ad essere il Campione, poteva rendere immagine d'Impero o Monarchia così in lui, in Italia ristabilita (2).

(1) Denina Rivoluz. Lib. XIII Cap. II e segg.

(2) Il d.° Denina, Riv. lib. XI Cap. IX é Lib. XIII Cap. I, narra della offerta fatta da prima da Gregorio IX, vivente ancora Federico II, della Corona imperiale ai Francesi per la persona del Re S. Luigi IX

Poichè alla perfine fosse un Francese od un Tedesco che in quell' apice soprastasse, ciò era indifferente: bastava solo che la sua signoria avesse corrisposto all' aspettazione ed al bisogno del Paese; e dal cenno datone, pare che gl' Italiani, quelli almeno che non avessero particolari motivi contro il nuovo venuto, da prima ne avessero fiducia e si accostassero a lui con grande trasporto, che poi in seguito coll' esperienza raffreddò non solo, ma si volse in contrario per la mala signoria, che come disse l'Alighieri, accorava i popoli soggetti, e piuttostochè promovere la pace, la nimicava, favorendo il partito de' Guelfi esagerati, ed aspirando alla distruzione del contrario. Allora fuvvi chi gridò all' Italia, e noi crediamo essere stato Dante istesso

Leggi questo saltero

Dappoichè venne Carlo con affanno

Sempre ha cresciuto e crescerà tuo danno (1).

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§ IX. A queste condizioni politiche contrarie all'Impero si aggiungevano le dottrine. Quando altro non fossevi, abbiamo dall' Alighieri nel Trattato della Monarchia

o del di lui fratello Roberto e dei motivi per cui non ne seguì l'accordo. In principio quindi il pensiero era per la Corona imperiale, poi, morto Federico fu variato e volto al Regno di Sicilia, e recato ad atto col detto Carlo, al quale sebbene nella investitura, come narra il Sismondi fosse inibita la riunione di questa Corona con quella del Regno d'Italia, tuttavia col consenso della S. Sede, con cui camminava d'accordo, consegul in questo secondo Regno ancora tutto quel potere ed autorita che talora vi esercitarono anche i suoi successori, per cui tutta Italia, come si notò, potevasi dire dipendere interamente dall' arbitrio di Lui,

(1) È questo un frammento dato dal Witte come cosa di Dante e da lui tratto da un Codice di cui non diede al pubblico verun ragguaglio. Altri negano invece, che sia cosa di Dante, ma per pura ragione estetica, e cioè per non sentire, dicono essi, della maniera del divino Poeta. Vedi il Fraticelli Rime Apocrife del suddetto.

quanto basta per formarcene un' idea, mentre per tacere delle due prime questioni, che formano il soggetto del I e del II libro, e cioè se la Monarchia od Imperio fosse necessario al ben éssere dell' uomo, e se per ragione appartenesse al popolo romano; che è poi quanto a dire al di lui rappresentante Imperatore o Re de' Romani, (sui quali due argomenti appare essersi fin d' allora dubitato), è certo che l'ultima questione, trattata nel terzo libro, e cioè se l'Imperatore fosse o no, dipendente dal Papa, era nella condizione politica di quei tempi della massima importanza: sicchè l'Autore la trattò colla maggiore contesa, intendendo ad escludere la dipendenza, e già superiormente si accennò, che in una Dieta di principi aderenti a Lodovico il Bavaro, eletto Re de' Romani senza il consentimento pontificio, fu dichiarato che l'Impero era indipendente. Ma ciò era niente, perchè prevaleva la massima e la pratica contraria, che in Roma vedevasi anche ritratta sulle pareti, narrando il Sigonio, e con lui altri scrittori, che Federico I vide una pittura nel Palazzo Lateranense, la quale rappresentava l'Imperatore Lotario III a' piedi del Pontefice con una scritta sottoposta, che combinata colla pittura esprimeva in tal qual modo la dipendenza e soggezione suddetta, onde Federico riputandola contraria al'a dignità dell' Impero, richiese che fosse spenta. Ma nol fu; ed anzi in un messaggio spedito di poi a quell' Imperatore dalla Corte di Roma fu detto, tener esso l'Impero per beneficio della Santa Sede (beneficii loco), la qual parola nel linguaggio di quel tempo, indicando anche Feudo, fu interpretata, come così volesse dire, onde un nuovo sdegno, che noi non riferiremo, e di cui si può vedere nel Sigonio ed in altri storici, e ci limiteremo ad osservare che questa superiorità Pontificia sull' Impero, sebbene più antica, pure nel secolo di Dante ebbe più aperta pratica e professione, e lo stesso dicasi

dell' ascendente preso dai Papi sopra tutti i regni quasi rettori universali. Il quale per testimonianza del Denina fu maggiore nel XIII secolo, anzi pare che questo scrittore lo consideri come un accidente proprio del secolo medesimo ed in esso nato (1), mentre altri all' incontro in sulla fine di esso il dicono cessato. Ma se non vuolsi ammettere col Denina così tarda origine, molto meno cogli altri così precoce fine. Questo primato, che diremo civile dei Pontefici, nato a poco a poco dal credito che assai presto essi incominciarono a godere nell' eminente loro dignità, e superiorità in giustizia e sapienza, sicchè popoli e principi sottomettevano di buon grado le loro questioni al giudizio della S. Sede, e ne imploravano la protezione, dichiarando se stessi e le cose loro soggette alla medesima, fu forse da prima una volontà, un desiderio ed anche un bisogno dei popoli e principi medesimi. Ma quando si volle mostrarlo debito e legale colle dottrine ed imporlo, era ben naturale che nella esecuzione dovesse trovare delle opposizioni gagliarde dal lato de' Re più potenti, come ne trovò dai Francesi sulla fine del XIII secolo. Non pertanto però i Papi si ristettero, che anzi la loro potenza temporale, preso vigore dall' alto Pontificato d' Innocenzo III, dai trionfi ottenuti nelle ripetute lotte cogl' Imperatori Svevi, e dalle dottrine contenute ne' libri della ragion canonica, compilati in quel torno e saliti in grandissima autorità nelle scuole e nel foro, toccava l'apice in quel secolo, e proseguiva più oltre. E le Cantiche dell' Alighieri, sebben questi la consideri più particolarmente rispetto all' Impero ed all' Italia, ne fanno aperta testimonianza. Ciò che qui si dice de' libri della ragion canonica, vuolsi intendere più particolarmente delle Decretali, raccolte da Gregorio IX in sulla metà del

(1) Den. Riv. Lib. XIII. Cap. VI.

XIII secolo e distribuite in cinque libri, a cui poi Bonifacio VIII aggiunse il sesto, e delle collezioni posteriori; mentre il Decreto del Monaco Graziano, compilato un secolo prima, cioè nel 1151 per opera di privato Dottore, quando non eravi motivo da ciò, e cioè quando tacevano le contese tra i due Poteri, non tolse realmente, od almeno parve all' Alighieri che non togliesse dentro di se dottrine molto acconcie all' uopo, sicchè con intenzione ch' ei forse anche ebbe di notare così tacitamente per via di confronto le Decretali, loda Graziano assai col suo lavoro ed il colloca in paradiso, dicendo (1):

Quell' altro fiammeggiar esce del riso

Di Grazian che l'uno e l'altro foro

Aiutò sì che piace in paradiso. (Par. X)

(1) Cum ad verum ventum est: ultra sibi nec Imperator jura Pontificatus arripuit, nec Pontifex nomen imperatorium usurpavit : buoniam idem mediator Dei et hominum homo Christus Jesus sic actibus propriis et dignitatibus distinctis, et officia potestatis utriusque discrevit etc. Queste parole si leggono nel Can. Cum ad verum Dist. 96, con cui concorda l'altro quoniam Dist. 10 ed altri pure nel Decreto di Graziano, che contenendo almeno letteralmente la dottrina dettata e rappresentata ovunque dall' Alighieri nella Commedia non potevano che a lui piacere grandemente. E così pur dicasi dei Canoni.Si Imperator. e quoniam Dist. 96 per ciò che ivi si dice derivare da Dio, (Divinitus) i due poteri sopradetti. I ss X e XI che seguono danno cenno di ciò che in soggetta materia, si legge invece nelle Decretali. Il sopradetto testo Cum ad verum è bensì esso pure una lettera di un Papa, antico (Nicolò I). Forse poi nello stesso Decreto di Graziano sonovi altri testi che non combaciano esattamente con questo, e si prestano più alle conclusioni de' Decretalisti. Ma vuolsi ritenere che Dante non ne avesse poi fatto uno studio universale e profondo, e che si fosse per avventura fermato a quei Canoni che più poteano piacergli, come in genere gli dovevano piacere le fonti, da cui quel Collettore trasse i suoi estratti. Le quali sono le Sacre Scritture, i Ss. Padri, le Costituzioni dei Sommi Pontefici precedenti, e degl' Imperatori. Gli Evangelî, i Dottori Magni, le Romane antiche, (sotto il qual nome ricopre gli antichi romani Pontefici § LXXV), le luci di Giustiniano erano anche politicamente le sue delizie e la sua ammirazione.

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