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ditura metrica delle sue poesie. Di due specie egli fece uso delle Canzoni e dei Versi sciolti. Quanto alle canzoni, da prima calcò le orme del Petrarca, mantenendo la severa regolarità, e così parlando, l'architettura di quel sommo lirico alle sue canzoni; ma col proceder negli anni e nell' ardore delle passioni egli sentì il bisogno di passare i confini che si aveva proposto; e, quasi fiume che sdegna ogni argine ed ogni sponda, traboccò, versando la piena de' propri affetti in una Canzone, ove più facilmente e più liberamente potessero spaziare. In fatti le strofe vi sono sempre ineguali, così per il numero dei versi, onde sono composte, come per le varie lunghezze di essi. Le rime non vi hanno sede determinata e simmetrica, ma vi si fanno sentire di tanto in tanto e quasi sempre dove il poeta par che voglia maggiormente impressionare i lettori, quasi richiamando con mirabil naturalezza e spontaneità le idee che più desidera sieno meditate. Alla fine d'ogni strofa però la rima non manca mai, e fa bellissimo effetto, concatenando i pensieri e producendo melodiose cadenze e maggior espressione di lingua. E osserva giudiziosamente SainteBeuve:

<< La rime joue d'ailleurs un rôle très-savant et compliqué dans les couplets des canzones de Leopardi: elle reparaît de distance en distance et correspond par intervalles calculés, comme pour mettre un frein à toute dispersion. Elle fait bien l'effet de ces vases d'airain artistement placés chez les anciens dans leurs amphithéâtres sonores, et qui renvoyaient à temps la voix aux cadences principales. Qu'il nous suffise de signaler cette science de structure et d'harmonie dans les strophes de Leopardi, en réponse à ceux qui croiraient encore qu'il a dédaigné la rime. »

1)

1) Port. Contemp. 1871. 4. vol. p. 387.

E qui giovi notare una differenza non lieve tra la canzone petrarchesca e quella del Leopardi. Il poeta toscano si aggira volontieri intorno ad un' immagine o ad un concetto, lo vagheggia da tutti i lati e lo abbellisce di ogni più seducente leggiadria che gli fornisce la lingua; il recanatese per lo contrario, seguendo l'ispirazione impetuosa delle proprie idee, passa rapidamente dall' una all' altra, secondo gli nascono dentro.

Quanto al verso sciolto, si vogliono fare alcune considerazioni per ben ravvisare il suo carattere distintivo. Esso, egli è vero, ha una grande attitudine ad esprimer con fedeltà ed evidenza ogni pensiero ed immagine, anzi ogni minima tinta e sfumatura d'immagine e di pensieri; perchè la lingua italiana, pittoresca e ricchissima, può in esso con tutta la sua libertà e la sua potenza signoreggiare. Ma quantunque il nostro endecasillabo corrisponda al giambo tedesco di quattro piedi ed al blankverse inglese, ha non di meno varii generi, tutti particolari e proprii degli scrittori moderni che lo usarono; e che forma, a dir così, due scuole diverse; da cui scaturirono poi, come altrettanti rivi, alcune altre varietà, qual più qual meno perfezionata. La prima è quella del Frugoni, vuota di pensieri, ampollosa, rimbombante; alla quale si possono ridurre gli sciolti del Cesarotti; l'altra è quella del Parini, sobria, castigata, armoniosa, elegante, alla quale appartengono il Monti, il Foscolo, ed il Leopardi; i tre poeti che hanno maggior perfezione nella forma organica delli sciolti; a cui possiamo anche aggiungere il Manzoni ed il Niccolini. Il Leopardi però non ha veruno di quei difetti che si notano nei seguaci della scuola pariniana; non essendo faticosamente artificiato come il poeta milanese, non istentato, come in una gran parte l'autore dell' Arnaldo da Brescia, non un po' ridondante, come il classico traduttore dell' Iliade,

non difficile, come il cantor dei Sepolcri. Il suo maggior peccato, comune a tutte le sue scritture, così di verso, come di prosa, è la uniformità; non dico in quanto alla collocazione degli accenti, alle spezzature, agl' intrecciamenti ed alla varietà dei riposi, a dir breve, in quanto alla materiale disposizione dei suoni (in cui, per esempio, è mendosissimo l'Alemanni), chè in questo particolare sembra a me che non pecchi; sì bene in ciò che ha rispetto alla musica derivante dal sentimento, che è quasi un' eco dell' anima sua, e per conseguente di un effetto morale sempre mai lugubre ed oppressivo.

Io fo queste osservazioni in proposito ai versi sciolti originali del nostro celebre Marchigiano; ma intorno a quelli usati da lui nelle traduzioni dal greco e dal latino debbo portare un giudizio un po' differente. Come nelle sue creazioni egli va libero e impetuoso, tanto nei concetti, quanto nella tessitura dei versi, ovunque il suo genio irresistibilmente lo incalza; così nelle traduzioni, dovendo camminare su le orme altrui, si mostra assai meno spigliato, meno spontaneo, e a guisa di un generoso cavallo, obbedisce con isdegno al freno che lo governa. Scrivendo allo Stella, gli confessava che le sue traduzioni, «eccetto quella del primo canto dell' Odissea, che ritoccata potrà passare, sono tutte cattive e pessime; » 1) e non posso capire com' egli abbia affermato nella lettera stessa che sopra quella del secondo dell' Eneide fondava molte speranze. E per verità intorno a questo lavoro scriveva al Giordani con la schiettezza dell' uomo grande: «Che il mio libro avesse molti difetti lo credea prima, ora lo giurerei perchè me lo ha detto Monti; carissimo e desideratissimo detto . . . Intanto ella sappia che una copia del

1) Epist. 1. L. 4. p. 19.

non lo

mio libro è già tutta carica di correzioni e cangiamenti. Vorrei qualche volta essermi apposto e aver levato via quello che a lei e al Monti dispiace, ma spero. Ella dice da maestro che il tradurre è utilissimo nella età mia, cosa certa e che la pratica a me rende manifestissima. Perchè quando ho letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità esaminate e rimenate a una a una piglian posto nella mia mente, e l'arricchiscono e mi lasciano in pace. » 1)

Critici imparziali ed esperti han notato l'inesattezza di tutte le sue traduzioni, sì dal greco e sì dal latino; la quale essi non derivano da insufficiente cognizione delle due lingue o scarsità di buon gusto: chè quella aveva profondissima, questo eminentemente squisito; bensì da altre cagioni. Fra le quali si novera in particolare l'indole troppo disforme da quella dei poeti tradotti, perchè lo scrivere non è solo il modo di concepire le idee, ma anche un effetto della costituzione fisica; poi la tempra dell' ingegno e la forza del sentimento, che nel Leopardi era singolarissima e tutta propria. Queste cose io scrivo dubitando e quasi tremando, senza scemar punto l'alta riverenza e l'affetto che mi scaldano ad un ingegno, il quale onora non pur l'Italia, sì tutto il genere umano.

Ma per conoscere meno imperfettamente la grandezza di lui, bisogna alla profondità del filosofo e alla sublimità del poeta aggiungere l'eccellenza del prosatore.

1) Epist. 1. L. 9.

III.

Anche la prosa ai tempi del Leopardi aveva riacquistato una bontà singolare. Vincenzo Monti che rimise su l'altare la negletta statua di Dante, co' suoi Dialoghi inseriti nella Proposta, diede all' Italia uno scrivere in prosa, che ricorda i migliori cinquecentisti per eleganza, proprietà, lucidezza. Cesari ricondusse gli scrittori al trecento, mostrando nelle opere sue la necessità di tergere e ripulire la lingua colla meditazione di quel secolo d'oro, allo scopo di sanare la nostra letteratura dalla barbarie francese, che l'aveva miseramente guastata. Giulio Perticari, evitando gli scogli, ove il buon Veronese, per soverchio amore della bellezza, aveva urtato inconsapevolmente, c'insegnò coll' esempio a ritrarre i trecentisti, e se nel suo scrivere l'arte fosse meno palese e lo stile più vigoroso, sarebbe lo scrittore più perfetto del secolo in cui viviamo. Carlo Botta colle sue storie cooperò validamente a promuovere lo studio dell' ottima lingua, e quantunque l'amore degli antichi lo abbia fuori di misura padroneggiato, rimane ad ogni modo una splendida luce della italiana letteratura. Negli scritti di Pietro Giordani, oltre alla civile e morale filosofia, sana critica, lo squisito gusto, la nobiltà dei concetti, troviamo uno stile bello, purezza e proprietà di elocuzione, ed un certo sapor antico, che non ha verun altro riscontro negli scrittori che lo precedettero. Il Leopardi ebbe sott' occhio tutti questi modelli, e senza essere schiavo nè imitatore, seppe anche nella prosa (ch' egli stimava più necessaria e più utile della poesia) comporsi uno stile, che non somiglia punto a quello dei predetti scrittori, ma ne compendia, se così posso dire, e ne mescola insieme tutte le parti migliori. A lui nel 1817 scriveva il Giordani:

la

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