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DELLO STESSO.

AMOR AGUZZANDO I SUOI DARDI.

Giù deposta la faretra,

E fermato il moto all' ali,

Vidi Amor, che ad una pietra

Arrotava acerbi strali;

E da quegli, a mille a mille

Uscian fuori arse faville.

Io m'accosto, e pauroso

Miro in fronte il giovinetto :

Ei pareva in se cruccioso,

E nel cuor pien di dispetto;

Perchè al nobil lavorìo,

Non dav' onda il fiume, o'l rio.

Quando a un tempo gli occhi miei

Diero in copia il salso umore,

In pensar quanto tu sei,

Cintia, ingrata a un fido core;

E'l mio pianto per le gote

Irrigò l'arida cote.

Ed Amor, che ciò ben vede,

Più veloce all' opra intese,

Poi mi disse: Avrai mercede

D' un ufficio sì cortese;

E mi punse il manco lato

Con un dardo il più temprato.

Io volea gridar, ma tosto

M'interruppe in questi detti:

Tu se' quel, che ha pur disposto,

Che i miei dardi sian perfetti;

Duolti in van d'esser oppresso, Se'l tuo mal vien da te stesso.

DELLO STESSO.

AMORE EFFIGIATO.

D'AMOR l'idolo rio,

Cui Prassitel scolpìo,

Buon viator rimira.

La rota, che si aggira

Sotto il suo piè leggiero,
Mostra qual abbia impero

In amorosa danza

Volubile incostanza.

Il cinto ancor, che vedi

Disciolto innanzi a' piedi,
Questo bel cinto, questo,
È di Venere il cesto.

E certo il ver ti dico,

Di rado ha il cor pudico

La turba degli amanti.

Ora contempla avanti

E l'arco e le saette

Per nobil tempra elette;

Elle son chiaro segno

Che spesso amore e sdegno

Tra lor congiunti vanno.

E gli occhi, che si stanno

Velati in fosca benda,

Chi è quel che non comprenda,

Che in ciò 'I secol vetusto

Mostrò, che 'l retto e 'l giusto

Nel tormentato core

Non vede l'amatore?

E che dimostran l'ali,

Se non, che noi mortali

Egli veloce aggiunge;

Lunge dall' alma, lunge;

Lunge dal petto mio

Amore, idolo rio.

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