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FAUSTINA MARATTI ZAPPI

Fu figlia del celebre pittore Carlo Maratti di Camerino nella Marca d'Ancona, e si sposò a Giov. Battista Felice Zappi, il quale la introdusse in Arcadia col nome di Aglauro Cidonia. La natura l'aveva formata bellissima della persona, e le aveva dato tali ornamenti d'ingegno che la rendevano la delizia di tutti. Un duca Cesarini brutalissimo uomo, tenendosi da lei dispregiato, le fece uno sfregio nel volto che la rese bruttissima. Ma il celebre Vitali, detto l'anonimo, con molta bravura seppe riaprirle e riunirle la ferita, e farle rifiorire nel viso tanta bellezza che il Manfredi ebbe a dire di lei : « Io non ho veduto cosa più bella di Roma, ma nè in Roma, nè fuori di essa ho veduto, nè spero di vedere, cosa più bella della signora Faustina » (Lettere bolognesi). Vedi anche il sonetto di lui posto qui di contro.

I suoi sonetti, che per lo più si raggirano sulle sue sventure, sono assai belli per lo stile e assai affettuosi. Si trovano quasi sempre uniti a quelli del suo marito, Essa mori nel 1740.

All' Italia.

Poichè il volo dell' aquila latina

Fece al corso del sol contraria via
Posando in orïente, Italia mia,

Fosti ai barbari re scherno e rapina.
Ma non è ver che nella tua ruina
Tutto perdesti lo splendor di pria :
Veggio che dell'antica signoria

Serbi gran parte ancora e sei reina.
Veggio l'eroe dell' alpi, il tuo gran figlio,
Stender lo scettro sovra il marsicano,
Acquisto di valore e di consiglio.
E veggio poi, che l'occidente onora
Altra tua figlia nel gran soglio ispano.
Italia, Italia, sei reina ancora.

Forse non tutti i lettori converranno che dalle premesse di questo sonetto venga legittimamente la conseguenza che se ne deduce nell' ultimo verso.

V. 1. Allude a Costantino che trasferì la sede dell'impero in oriente. Fece al corso del sol, ec.; è modo di Dante. (Parad. VI.)

Posciachè Gostantin l'aquila volse

Contro il corso del ciel ch' ella seguìo
Dietro all' antico che Lavinia tolse, ec.

V. 9. L'eroe dell' Alpi; è Vittorio Amedeo duca di Savoia che negli accordi del 1713 fu dalle potenze dichiarato re di Sicilia in ricompensa de'grandi servigi da esso prestati nella causa comune.

V. 13. Altra tua figlia. Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V re di Spagna.

na,

FRANCESCA MANZONI

Nacque a Barsio ragguardevole terra della Valsassie mori a Milano nel 1743. A dodici anni gustava gli scrittori latini, e in appresso giunse a scrivere con eleganza in latino e in italiano. Fu leggiadra e dotta poetessa, e appartenne all'accademia degli Arcadi e a quella de' Filodossi di Milano. Scrisse Sonetti, Canzoni, una tragedia intitolata l'Ester, e varie Azioni sacre per musica.

A Renato Des Cartes.

Almo Renato, che la lingua e 'l petto
Ripien della verace, ignota altrui,
Soda filosofia, negli aurei tui

Fogli segnasti il buon cammin perfetto;
Se lice a me, che ognor con l'intelletto
A seguir tue grand' orme intesa fui,
Dir mia ragion (pria de' giudizii sui)
Giacchè non dee dubbiar per tuo precetto;
Come insensibil macchina dovrei

Ogni bruto appellar, se il vago augello,

Ch'or piango, adorno fin

adorno fin parve di senno? Ei la mia voce intese, il guardo, il cenno:

Ah se'l vedevi! io quasi il giurerei,

In mente ti ponea pensier novello.

Des Cartes, conosciuto dagli Italiani più comunemente sotto il nome di Cartesio, nacque in Francia nel 1596, e morì nel 1650. Prima di lui Aristotele sedeva tiranno in tutte le scuole, e da tutti si giurava e si faceva giurare in verba magistri. Cartesio, con un piccolo libretto meditato all'età di 23 anni sotto le tende militari, e terminato nella solitudine, rimesse in trono la ragione, richiamò gli uomini all'esame e all'osservazione, e dette al mondo una vita novella.

A Marco Antonio Zucchi.

Quando in me sorger sento il bel desio

Ch' altr' ali promettendo all' intelletto, Mie rime chiama al dolce lor soggetto, Per cui speran d'andar scarche d'oblio; Tosto voci di gioia intorno invio,

Ch'a

aver parmi d'Apollo il fuoco in petto; Ma poi, se il miro a vero lume schietto, M'accorgo qual fia rozzo il canto mio. Perch'io sovente l'alta brama affreno

Di favellar di lui che in ogni parte Co' suoi celesti pregi il mondo ha pieno. Oude s'io non imprimo in mille carte D'Oraspe il nome, e che lo stil vien meno, Non è mia colpa, ma difetto d'arte.

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Marco Antonio Zucchi, a cui è diretto questo sonetto, nacque Verona, e fu uno de' più famosi improvvisatori del secolo XVIII. Giancarlo Passeroni ne disse belle lodi nel canto XXIII del suo Cicerone. In molte città d'Italia, ove improvvisò, ebbe grandissimi onori, e Firenze nostra nel 1750 gli coniava una medaglia. Noi, senza pretendere di mettere in dubbio l'abilità dello Zucchi come improvvisatore, diremo solo che l'esperienza ci ha portato ad essere increduli in fatto di poesia estemporanea, perchè, esaminato bene l'idolo, siamo giunti a conoscere che quei pregi celesti che l'adornavano, erano una solenne impostura. Abbiamo ascoltati degli improvvisatori che avevano voce di sommi, e di quelli reputati mediocri: e nell'un caso e nell'altro abbiamo veduto che quando il pubblico ha avuto la bontà di ascoltargli senza guardarla tanto per la sottile, essi hanno colto palme immortali: ma quando è venuto in testa a qualche uditore di far prova se i loro versi, invece di essere immeditati, erano stati fatti con tutto il comodo, allora il poetico ardore di questi vati del momento si è cambiato in gelo mortale, e le liete adunanze hanno echeggiato d'un suono poco gradito alle orecchie delle gentili signore.

Nel v. 13. Oraspe è il nome arcadico dello Zucchi.

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Fiorentino. Fu uno di quelli che si adoperarono a sbandire il barbaro gusto del secento e cogli scritti e coi precetti. Successe al Crescimbeni custode d'Arcadia ; compose rime lodate per forza di colorito, per venustà, eleganza e robustezza. Scrisse con molta eleganza anche in latino. Era nato nel 168ɔ, e morì nel 1743.

Il Mosè del Buonarroti.

D'onde l'idea del gran sembiante avesti
Effigiando quale un tempo fosse
Colui che l'empio Faraon percosse,
E chiamò sull' Egitto i dì funesti?
Michelangiolo, e che ? Forse il vedesti
Quando ruppe le leggi, e l'aureo scosse
Vitello? E quando sulle sponde rosse
Divise il mar? ma che più parlo, è questi,
Questi è Mosè. Nè testimon che è desso
Fammi l'onor del mento, e non m'appiglio
Al raggio in due fra l'alte chiome fesso:
Ma mel palesa il senno ed il consiglio

Nel grave sguardo e fra le rughe impresso,
E'l comando di Dio fra ciglio e ciglio.

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