Sayfadaki görseller
PDF
ePub

Tacendo divenimmo là 've spiccia

Fuor della selva un picciol fiumicello,
Lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame esce 'l ruscello
Che parton poi tra lor le peccatrici,
Tal la rena giù sen giva quello.
per
Lo fondo suo ed ambo le pendici

Fatt' eran pietra, e i margini da lato;
Per ch'io m'accorsi che il passo era lici.
Tra tutto l'altro ch'io t'ho dimostrato
Poscia che noi entrammo per la porta,
Lo cui sogliare a nessuno è negato,
Cosa non fu dagli tuoi occhi scorta
Notabile, com'è 'l presente rio,

Che sopra sè tutte fiammelle ammorta. Queste parole fur del Duca mio;

Per ch'io pregai che mi largisse 'l pasto, Di cui largito m'aveva 'l disío. In mezzo 'l mar siede un paese guasto, Diss' egli allora, che s'appella Creta, Sotto 'I cui Rege fu già 'I mondo casto. Una montagna v'è, che già fu lieta D'acqua e di frondi, che si chiama Ida; Ora è diserta come cosa vieta. Rea la scelse già per cuna fida

Del suo figliuolo; e, per celarlo meglio, Quando piangea vi facea far le grida. Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, Che tien volte le spalle invêr Damiata, E Roma guarda si come suo speglio. La sua testa è di fin oro formata,

E puro argento son le braccia e 'l petto; Poi è di rame infino alla forcata. Da indi in giuso è tutto ferro eletto,

Salvo che 'l destro piede è terra cotta, E sta'n su quel, più che 'n sull'altro, eretto. Ciascuna parte, fuorchè l'oro, è rotta D'una fessura che lagrime goccia, Le quali accolte foran quella grotta. Lor corso in questa valle si diroccia; Fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; Poi sen van giù per questa stretta doccia Infin là ove più non si dismonta.

Fanno Cocito; e, qual sia quello stagno,
Tu 'l vederai: però qui non si conta.
Ed io a lui: Se 'I presente rigagno
Si deriva così dal nostro mondo,
Perchè ci appar pure a questo vivagno?
Ed egli a me: Tu sai che 'l luogo è tondo;
E, tuttochè tu sii venuto molto
Pur a sinistra giù calando al fondo,
Non se' ancor per tutto 'l cerchio vôlto:
Per che se cosa n'apparisce nuova,
Non dee addur maraviglia al tuo volto.
Ed io ancor: Maestro, ove si truova

Flegetonte e Letè? chè dell'un taci,
E altro di che si fa d'esta piova.
In tutte tue question certo mi piaci,
Rispose; ma'l bollor dell'acqua rossa
Dovea ben solver l'una che tu faci.
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
Là dove vanno l'anime a lavarsi
Quando la colpa pentuta è rimossa.
Poi disse: Omai è tempo da scostarsi
Dal bosco; fa che di retro a me vegne;
Li margini fan via che non son arsi,
E sopra loro ogni vapor si spegne.

CANTO XV.

ARGOMENTO

Innoltratisi i due Poeti nel nuovo girone, e allontanatisi dal bosco in modo che più non si poteva vedere, incontrano una schiera di tormentate anime; e queste sono i violenti contro Natura, tra' quali Dante conobbe Brunetto Latini suo maestro, a cui fa predire il suo esilio.

Ora cen porta l'un de' duri margini,

E'l fummo del ruscel di sopra aduggia Si, che dal fuoco salva l'acqua e gli argini. Quale i Fiamminghi tra Guzzante e Bruggia, Temendo 'l fiotto che invêr lor s'avventa, Fanno lo schermo, perchè 'l mar si fuggia; E quale i Padovan lungo la Brenta,

Per difender lor ville e lor castelli,
Anzi che Chiarentana il caldo senta:
A tale immagine eran fatti quelli,
Tuttochè nè si alti, nè sì grossi,
Qual che si fosse, lo maestro felli.
Già eravám dalla selva rimossi

Tanto, ch'io non avrei visto dov'era,
Perch'io 'ndietro rivolto mi fossi;
Quando incontrammo d'anime una schiera
Che venía lungo l'argine, e ciascuna
Ci riguardava, come suol da sera
Guardar l'un l'altro sotto nuova Luna;
E si vêr noi aguzzavan le ciglia,
Come vecchio sartor fa nella cruna.
Cosi adocchiato da cotal famiglia,

Fui conosciuto da un che mi prese
Per lo lembo, e gridò: Qual maraviglia?
Ed io, quando 'l suo braccio a me distese,
Ficcai gli occhi per lo cotto aspetto,
Si che 'l viso abbruciato non difese
La conoscenza sua al mio 'ntelletto;

E, chinando la mia alla sua faccia,
Risposi: Siete voi qui, ser Brunetto?
E quegli: O figliuol mio, non ti dispiaccia
Se Brunetto Latini un poco teco
Ritorna indietro, e lascia 'ndar la traccia.
Io dissi lui: Quanto posso ven preco;
E se volete che con voi m'asseggia,
Faról, se piace a costui; chè vo seco.
O figliuol, disse, qual di questa greggia
S'arresta punto, giace poi cent' anni
Senza arrostarsi quando 'l fuoco il feggia.
Però va oltre: i' ti verrò a' panni;

E poi rigiugnerò la mia masnada,
Che va piangendo i suoi eterni danni.
Io non osava scender della strada,

Per andar par di lui; ma 'l capo chino
Tenea, com' uom che riverente vada.
Ei cominciò: Qual fortuna o destino
Anzi l'ultimo di quaggiù ti mena?
E chi è questi che mostra 'l cammino.?
Lassù di sopra in la vita serena,

Rispos' io lui, mi smarri' in una valle,
Avanti che l'età mia fosse piena.

Pur jer mattina le volsi le spalle:

Questi m'apparve, tornand' io in quella.
E riducemi a ca per questo calle.

3

Ed egli a me: Se tu segui tua stella,
Non puoi fallire a glorioso porto,
Se ben m' accorsi nella vita bella;
E s' io non fossi sì per tempo morto,
Veggendo 'l Cielo a te così benigno,
Dato t' avrei all' opera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno,

Che discese di Fiesole ab antico,

E tiene ancor del monte e del macigno,
Ti si farà, per tuo ben far, nimico:

Ed è ragion; chè tra gli lazzi sorbi
Si disconvien fruttare il dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
Gente avara, invida e superba:
Da' lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,

Che l'una parte e l'altra avranno fame
Di te; ma fungi fia dal becco l'erba.
Faccian le bestie Fiesolane strame

Di lor medesme, e non tocchin la pianta,
S'alcuna surge ancor nel lor letame,
In cui riviva la sementa santa

Di quei Roman, che vi rimaser quando
Fu fatto 'l nidio di malizia tanta.
Se fosse pieno tutto 'l mio dimando,

Risposi io lui, voi non sareste ancora
Dell'umana natura posto in bando;
Chè in la mente m'è fitta, ed or m' accuora,
La cara e buona immagine paterna
Di voi nel mondo, quando ad orà ad ora
M'insegnavate come l'uom s'eterna;

E quant' io l'abbo in grado, mentre io vivo, Convien che nella lingua mia si scerna. Ciò che narrate di mio corso scrivo,

E serbolo a chiosar con altro testo
A Donna che 'l saprà, s'a lei arrivo.
Tanto voglio che vi sia manifesto,

Purchè mia coscienza non mi garra,
Ch' alla Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova agli orecchi miei tale arra;
Però giri Fortuna la sua ruota

Ne

Come le piace, e 'l villan la sua marra.
Lo mio Maestro allora in su la gota
Destra si volse 'ndietro, e riguardommi;
Poi disse: Ben ascolta chi la nota.
per tanto di men parlando vommi
Con ser Brunetto, e dimando chi sono
Li suoi compagni più noti e più sommi.
Ed egli a me: Saper d'alcuno è buono;
Degli altri fia laudabile. tacerci,
Che'l tempo saría corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci,

E letterati grandi e di gran fama,
D'un medesmo peccato al mondo lerci.
Priscián sen va con quella turba grama,

E Francesco d'Accorso anco; e vedervi,
S'avessi avuto di tal tigna brama,
Colui potei, che dal Servo de' servi

Fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,
Ove lasciò li mal protesi nervi.
Di più direi; ma 'l venir el sermone
Più lungo esser non può, perocch' io veggio
Là surger nuovo fummo dal sabbione.
Gente vien, con la quale esser non deggio:
Siati raccomandato 'I mio Tesoro,

Nel quale io vivo ancora; è più non cheggio.

Poi si rivolse, e parve di coloro

Che corrono a Verona 'l drappo verde Per la campagna; e parve di costoro Quegli che vince, e non colui che perde.

CANTO XVI.

ARGOMENTO

Pervenuto Dante quasi al fine del terzo ed ultimo girone, intanto ch'egli udiva il rimbombo del fiume che cadeva nell'ottavo cerchio, s'incontra in alcune anime di soldati che erano stati infettati dal vizio detto di sopra. Indi giunti ad una profondissima cavità, Virgilio vi trasse dentro una corda, di che Dante era cinto, e videro venir nuotando per l'aria una mostruosa ed orribile figura.

Già

Tià era in loco, ove s'udía 'l rimbombo Dell' acqua che cadea nell'altro giro, Simile a quel, che l'arnie fanno, rombo; Quando tre ombre insieme si partiro,

Correndo, d'una torma che passava
Sotto la pioggia dell' aspro martiro.
Venían vêr noi, e ciascuna gridava:
Sostati tu, che all'abito ne sembri
Essere alcun di nostra terra prava.
Aimè, che piaghe vidi ne' lor membri
Recenti e vecchie, dalle fiamme incese!
Ancor men duol, purch'io me ne rimembri.
Alle lor grida il mio Dottor s'attese;

Volse I viso vêr me, e: Ora aspetta,
Disse; a costor si vuole esser cortese:
E se non fosse il fuoco che saetta
La natura del luogo, i' dicerei

Che meglio stesse a te, ch'a lor, la fretta. Ricominciar, come noi ristemmo, ei

L'antico verso; e quando a noi fur giunti,
Fenno una ruota di sè tutti e trei.

Qual suolen i campion far nudi ed unti,
Avvisando lor presa e lor vantaggio,
Prima che sien tra lor battuti e punti;
Così, rotando, ciascuno il visaggio
Drizzava a me, sì che 'n contrario il collo
Faceva ai piè continovo viaggio.

Deh! se miseria d'esto loco sollo
Rende in dispetto noi e nostri preghi,
Cominciò l'uno, e 'l tinto aspetto e brollo,
La fama nostra il tuo animo pieghi

A dirne chi tu se', che i vivi piedi
Cosi sicuro per lo 'nferno freghi.
Questi, l'orme di cui pestar mi vedi,
Tuttochè nudo e dipelato vada,

Fu di grado maggior, che tu non credi.
Nepote fu della buona Gualdrada ;

Guidoguerra ebbe nome, ed in sua vita
Fece col senno assai e con la spada.
L'altro, ch' appresso me la rena trita,
È Tegghiajo Aldobrandi, la cui voce
Nel mondo su dovrebbe esser gradita.
Ed io, che posto son con loro in croce,
Jacopo Rusticucci fui; e certo

La fiera moglie, più ch'altro, mi nuoce.
S'i' fussi stato dal fuoco coverto,

Gittato mi sarei tra lor di sotto;

E credo che 'l Dottor l'avría sofferto:

Ma perch'i' mi sarei bruciato e cotto,
Vinse paura la mia buona voglia,
Che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
Poi cominciai: Non dispetto, ma doglia,
La vostra condizion dentro mi fisse
Tanto, che tardi tutta si dispoglia,
Tosto che questo mio Signor mi disse
Parole, per le quali io mi pensai
Che, qual voi siete, tal gente venisse.
Di vostra terra sono; e sempre mai
L'ovra di voi e gli onorati nomi
Con affezion ritrassi ed ascoltai.
Lascio lo fele, e vo pei dolci pomi
Promessi a me per lo verace Duca;
Ma fino al centro pria convien che tomi.
Se lungamente l'anima conduca

Le membra tue, rispose quegli allora,
E se la fama tua dopo te luca,
Cortesía e valor di' se dimora

Nella nostra Città, sì come suole, O se del tutto se n'è gito fuora; Che Guiglielmo Borsiere, il qual si duole Con noi per poco, e va là coi compagni, Assai ne crucia con le sue parole. La gente nuova e i subiti guadagni Orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, si che tu già ten piagni. Cosi gridai con la faccia levata;

E i tre, che ciò inteser per risposta, Guatar l'un l'altro, come al ver si guata. Se l'altre volte sì poco ti costa,

Risposer tutti, il soddisfare altrui,
Felice te, che si parli a tua posta!
Però, se campi d'esti luoghi bui,
E torni a riveder le belle stelle,
Quando ti gioverà dicere: I' fui,
Fa che di noi alla gente favelle.

Indi rupper la ruota; ed, a fuggirsi,
Ale sembiaron le lor gambe snelle.
Un ammen non saría potuto dirsi
Tosto così, com' ei furo spariti;
Per che al Maestro parve di partirsi.
Io lo seguiva; e poco eravám iti,

Che 'I suon dell'acqua n'era sì vicino,
Che, per parlar, saremmo appena uditi.
Come quel fiume c'ha proprio cammino
Prima da monte Veso invêr Levante,
Dalla sinistra costa d'Apennino,
Che si chiama Acquacheta suso, avante
Che si divalli giù nel basso letto,
E a Forli di quel nome è vacante;
Rimbomba là sovra san Benedetto

Dall' alpe, per cadere ad una scesa, Dove dovría per mille esser ricetto: Così, giù d'una ripa discoscesa,

Trovammo risonar quell' acqua tinta,
Si che 'n poc' ora avría l'orecchia offesa.
Io aveva una corda intorno cinta,
E con essa pensai alcuna volta
Prender la lonza alla pelle dipinta.
Poscia che l' ebbi tutta da me sciolta,

Si come 'l Duca m'avea comandato,
Porsila a lui aggroppata e ravvolta;
Ond' ei si volse invêr lo destro lato,
E, alquanto di lungi dalla sponda,
La gittò giuso in quell' alto burrato.

El pur convien che novità risponda,
Dicea fra me medesmo, al nuovo cenno,
Che' Maestro con l'occhio sì seconda.
Ahi quanto cauti gli uomini esser denno
Presso a color che non veggon pur l'opra,
Ma per entro i pensier miran col senno!
Ei disse a me: Tosto verrà di sopra

Ciò ch'io attendo; e che 'l tuo pensier sogna, Tosto convien ch' al tuo viso si scuopra. Sempre a quel ver, c'ha faccia di menzogna, De' l'uom chiuder le labbra quanto puote, Perocchè senza colpa fa vergogna.

Ma qui tacer nol posso; e, per le note
Di questa Commedia, Lettor, ti giuro,
S'elle non sien di lunga grazia vòte,
Ch'io vidi per quell' aer grosso e scuro
Venir notando una figura in suso,
Meravigliosa ad ogni cuor sicuro;
Si come torna colui che va giuso
Talvolta a solver l'ancora, ch' aggrappa
O scoglio, od altro che nel mare è chiuso,
Che 'n su si stende, e da piè si rattrappa.

CANTO XVII.

ARGOMENTO

Descrive il Poeta la forma di Gerione. Poi segue, che discesi ambedue su la riva che divide it settimo cerchio dall'ottavo, e chiamato colà Gerione, Virgilio rimane con esso lui; ed egli seguita alquanto più oltre, per aver contezza della terza maniera de' violenti, cioè di quegli che usano la violenza contro l'arte. In fine tornandosi a Virgilio, discendono per aria nell'ottavo cerchio sul dosso di Gerione.

Ecco la fiera con la coda aguzza,

Che passa i monti, e rompe muri ed armi;
Ecco colei che tutto il mondo appuzza.
Si cominciò lo mio Duca a parlarmi;
Ed accennolle che venisse a proda,
Vicino al fin de' passeggiati marmi.
E quella sozza immagine di froda
Sen venne,
ed arrivò la testa e 'l busto;
Ma in su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d'uom giusto,
Tanto benigna avea di fuor la pelle;
E d'un serpente tutto l'altro fusto.
Duo branche avea pilose infin l'ascelle;
Lo dosso, e 'l petto, ed ambedue le coste
Dipinte avea di nodi e di rotelle.
Con più color sommesse e soprapposte
Non fêr ma' in drappo Tartari, nè Turchi,
Nè fur mai tele per Aragne imposte.

Come talvolta stanno a riva i burchi,
Che parte sono in acqua e parte in terra;
E come là, tra li Tedeschi Turchi,

Lo bevero s'assetta a far sua guerra:
Così la fiera pessima si stava

Su l'orlo che, di pietra, il sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
Torcendo in su la venenosa forca,
Ch'a guisa di scorpion la punta armava.

Lo Duca disse: Or convien che si torca
La nostra via un poco infino a quella
Bestia malvagia, che colà si corca.
Però scendemmo alla destra mammella,

E dieci passi femmo in su lo stremo,
Per ben cessar la rena e la fiammella;
E quando noi a lei venuti semo,

Poco più oltre veggio in su la rena Gente seder propinqua al luogo scemo, Quivi 'l Maestro: Acciocchè tutta piena Esperienza d'esto giron porti,

Mi disse, or va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sien là corti; Mentre che torni, parlerò con questa, Che ne conceda i suoi omeri forti. Così ancor, su per la strema testa

Di quel settimo cerchio, tutto solo Andai ove sedea la gente mesta. Per gli occhi fuori scoppiava lor duolo; Di quà, di là soccorrien con le mani, Quando a' vapori, e quando al caldo suolo. Non altrimenti fan di state i cani,

Or col ceffo, or col piè, quando son morsi O da pulci, da mosche, o da tafáni. Poi che nel viso a certi gli occhi porsi, Nei quali il doloroso fuoco casca, Non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi Che dal collo a ciascun pendea una tasca Ch' avea certo colore e certo segno, E quindi par che 'l lor occhio si pasca. E com' io riguardando tra lor vegno,

In una borsa gialla vidi azzurro

Che d'un lione avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
Vidine un' altra come sangue rossa,
Mostrare un'oca bianca più che burro.
Ed un, che d'una scrofa azzurra e grossa
Segnato avea lo suo sacchetto bianco,
Mi disse: Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e, perchè se' vivo anco,
Sappi che 'l mio vicin Vitaliano
Sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son Padovano;
Spesse fiate m'intronan gli orecchi,
Gridando: Vegna il cavalier sovrano,
Che recherà la tasca con tre becchi.

Quindi storse la bocca, e di fuor trasse
La lingua, come bue che 'l naso lecchi.
Ed io, temendo nò 'l più star crucciasse
Lui, che di poco star m' avea ammonito,
Tornai indietro dall' anime lasse.
Trovai il Duca mio, ch'era salito

Già su la groppa del fiero animale;
E disse a me: Or sie fortè ed ardito.
Omai si scende per si fatte scale:

Monta dinanzi; ch'i' voglio esser mezzo,
Si che la coda non possa far male.
Qual è colui c'ha sì presso 'l riprezzo
Della quartana, c'ha già l'unghie smorte,
E trema tutto, pur guardando il rezzo,
Tal divenn'io alle parole pôrte;

Ma vergogna mi fêr le sue minacce,
Che 'nnanzi a buon signor fa servo forte.
I'm'assettai in su quelle spallacce.

Si volli dir: (ma la voce non venne
Com'io credetti) Fa che tu m'abbracce

Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne
Ad alto forte, tosto ch'io montai,
Con le braccia m'avvinse e mi sostenne.
E disse: Gerion, muoviti omai;

Le ruote larghe, e lo scender sia poco;
Pensa la nuova soma che tu hai.
Come la navicella esce di loco

Indietro indietro, sì quindi si tolse;
E poi ch' al tutto si sentì a giuoco,
Là 'v'era 'l petto la coda rivolse,

E quella tesa, come anguilla, mosse,
E con le branche l'aere a sè raccolse.
Maggior paura non credo che fosse

Quando Fetonte abbandonò gli freni,
Per che 'l Ciel, come appare ancor, si cosse;
Nè quando Icaro misero le reni

Senti spennar per la scaldata cera, Gridando il padre a lui: Mala via tieni; Che fu la mia, quando vidi ch'io era Nell' aer d'ogni parte, e vidi spenta Ogni veduta, fuorchè della fiera. Ella sen va nôtando lenta lenta,

Ruota e discende; ma non me n'accorgo, Se non ch'al viso e di sotto mi venta. Io sentía già dalla man destra il gorgo Far sotto noi un orribile stroscio; Per che con gli occhi in giù la testa sporgo Allor fu' io più timido allo scoscio,

Perocch' io vidi fuochi, e senti' pianti; Ond' io, tremando, tutto mi raccoscio. E vidi poi, che nò 'l vedea davanti,

Lo scendere el girar, per li gran mali
Che s'appressavan da diversi canti.
Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali,
Che, senza veder logoro o uccello,
Fa dire al falconiere: Oimè tu cali;
Discende lasso, onde si muove snello
Per cento ruote, e da lungi si pone
Dal suo maestro disdegnoso e fello:
Così ne pose al fondo Gerione

A piede a piè della stagliata rocca ;
E, discarcate le nostre persone,
Si dileguò come da corda cocca.

CANTO XVIII.

ARGOMENTO

Descrive il Poeta il sito e la forma dell'ottavo cerchio, il cui fondo divide in dieci bolge, nelle quali si puniscono dieci maniere di fraudolenti. Ed in questo.canto ne tratta solamente di due. L'una è di coloro che hanno ingannato alcuna femmina, inducendola a soddisfare o a sè medesimi, o ad altrui; e pongli nella prima bolgia, nella quale per pena sono sferzati dai Demonj: l'altra è degli adulatori; e questi sono costretti a starsi dentro a un puzzolente sterco.

Luogo è in Inferno, detto Malebolge,

Tutto di pietra e di color ferrigno, Come la cerchia che d'intorno il volge. Nel dritto mezzo del campo maligno Vaneggia un pozzo assai largo e profondo, Di cui suo luogo conterà l'ordigno.

Quel cinghio, che rimane, adunque è tondo,
Tra 'l pozzo e 'l piè dell' alta ripa dura,
Ed ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia delle mura
Più e più fossi cingon li castelli,
La parte dov' ei son rende figura,
Tale immagine quivi facean quelli;
E come a tai fortezze da' lor sogli
Alla ripa di fuor son ponticelli,
Così da imo della roccia scogli

Movien, che ricidean gli argini e i fossi
Infino al pozzo che i tronca e raccogli.
In questo luogo, dalla schiena scossi

Di Gerion, trovammoci; e 'l Poeta Tenne a sinistra, ed io dietro mi mossi. Alla man destra vidi nuova piéta,

Nuovi tormenti e nuovi frustatori, Di che la prima bolgia era repleta. Nel fondo erano ignudi peccatori:

Da mezzo in quà ci venían verso 'l volto; Di là con noi, ma con passi maggiori: Come i Roman, per l'esercito molto,

L'anno del Giubbileo su per lo ponte
Hanno a passar la gente modo tolto,
Che dall' un lato tutti hanno la fronte
Verso 'l castello, e vanno a santo Pietro,
Dall' altra sponda vanno verso 'l monte.
Di quà, di là, su per lo sasso tetro,
Vidi Dimon cornuti con gran ferze,
Che li battean crudelmente di retro.
Ahi come facean lor levar le berze

Alle prime percosse! E già nessuno
Le seconde aspettava, nè le terze.
Mentr'io andava, gli occhi miei in uno
Furo scontrati; ed io si tosto dissi:
Già di veder costui non son digiuno.
Perciò a figurarlo gli occhi affissi;

El dolce Duca meco si ristette,
Ed assenti ch' alquanto indietro io gissi..
E quel frustato celar si credette,

Bassando 'l viso; ma poco gli valse,
Ch'io dissi: Tu, che l'occhio a terra gette,
Se le fazion che porti non son false,
Venedico se' tu Caccianimico;

Ma che ti mena a si pungenti salse?
Ed egli a me Mal volentier lo dico;
Ma sforzami la tua chiara favella,
Che mi fa sovvenir del mondo antico.
I fui colui che la Ghisola bella

Condusse a far la voglia del Marchese,
Come che suoni la sconcia novella.

E non pur io qui piango Bolognese;
Anzi n'è questo luogo tanto pieno,
Che tante lingue non son ora apprese
A dicer sipa tra Savena e 'l Reno:

E se di ciò vuoi fede o testimonio,
Recati a mente il nostro avaro seno.
Cosi parlando, il percosse un Demonio
Della sua scuriada, e disse: Via,
Ruffian; qui non son femmine da conio.
Io mi raggiunsi con la Scorta mia;
Poscia con pochi passi divenimmo
Dove uno scoglio della ripa uscía.
Assai leggeramente quel salimmo;

E, volti a destra su per la sua scheggia,
Da quelle cerchie eterne ci partimmo.

Quando noi fummo là dov' el vaneggia

Di sotto, per dar passo agli sferzati, Lo Duca disse: Attienti, e fa che feggia Lo viso in te di quest' altri malnati,

Ai quali ancor non vedești la faccia, Perocchè son con noi insieme andati. Dal vecchio ponte guardavám la traccia, Che venía verso noi dall' altra banda, E che la ferza similmente scaccia. E'l buon Maestro, senza mia dimanda, Mi disse: Guarda quel grande che viene, E per dolor non par lagrima spanda. Quanto aspetto reale anco ritiene!

Quelli è Jason, che, per cuore e per senno,
Li Colchi del monton privati fene.
Ello passò per l'isola di Lenno

Poi che l'ardite femmine spietate
Tutti li maschj loro a morte dienno.
Iví con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta,
Che prima l'altre avea tutte ingannate:
Lasciolla quivi gravida e soletta:

Tal colpa a tal martíro lui condanna;
Ed anche di Medea si fa vendetta.
Con lui sen va chi da tal parte inganna.
E questo basti della prima valle
Sapere, e di color che 'n sè assanna.
Già eravám là 've lo stretto calle

Con l'argine secondo s'incrocicchia,
E fa di quello ad un altr' arco spalle.
Quindi sentimmo gente che si nicchia
Nell' altra bolgia, e che col muso sbuffa,
E sè medesma con le palme picchia.
Le ripe eran grommate d'una muffa,

Per l'alito di giù che vi s'appasta,
Che con gli occhi e col naso facea zuffa..
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
Luogo a veder, senza montare al dosso
Dell'arco, ove lo scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo, e quindi giù nel fosso
Vidi gente attuffata in uno sterco
Che dagli uman privati parea mosso;
E mentre ch'io laggiù con l'occhio cerco,
Vidi un col capo sì di merda lordo,
Che non parea s'era laico o cherco.
Quei mi sgridò: Perchè se' tu si 'ngordo
Di riguardar più me, che gli altri brutti?
Ed io a lui: Perchè, se ben ricordo,
Già t'ho veduto coi capelli asciutti,

E se' Alessio Interminei da Lucca; Però t'adocchio più che gli altri tutti. Ed egli allor, battendosi la zucca: Quaggiù m'hanno sommerso le lusinghe, Ond' io non ebbi mai la lingua stucca. Appresso ciò lo Duca: Fa che pinghe, Mi disse, un poco 'l viso più avante, Si che la faccia ben con gli occhi attinghe Di quella sozza scapigliata fante,

Che la si graffia con l' unghie merdose,
Ed or s'accoscia, ed ora è in piede stante.
Taida è, la puttana che rispose

Al drudo suo, quando disse: Ho io grazie
Grandi appo te? Anzi maravigliose.

E quinci sien le nostre viste sazie.

« ÖncekiDevam »