Noi ci appressammo; ed eravamo in parte, Che là, dove pareami in prima un rotto, Pur come un fesso che muro diparte, Vidi una porta, e tre gradi di sotto, Per gire ad essa, di color diversi, Ed un portier ch'ancor non facea motto. E come l'occhio più e più v❜apersi, Vidil seder sopra 'l grado soprano, Tal nella faccia, ch'io non lo soffersi; Ed una spada nuda aveva in mano, Che rifletteva i raggi sì vêr noi, Ch'io dirizzava spesso il viso invano. Ditel costinci, che volete voi? Cominciò egli a dire; ov'è la scorta? Guardate che 'l venir su non vi nôi. Donna del Ciel, di queste cose accorta, Rispose 'l mio Maestro a lui, pur dianzi Ne disse: Andate là; quivi è la porta. Ed ella i passi vostri in bene avanzi, Ricomincio' cortese portinajo: Venite dunque a' nostri gradi innanzi. Là ne venimmo; e lo scaglion primajo Bianco marmo era, sì pulito e terso, Ch'io mi specchiava in esso qual io pajo. Era 'l secondo, tinto più che perso, D'una petrina ruvida ed arsiccia, Crepata per lo lungo e per traverso. Lo terzo, che di sopra s' ammassiccia, Porfido mi parea si fiammeggiante, Come sangue che fuor di vena spiccia. Sopra questo teneva ambo le piante L'Angel di Dio, sedendo in su la soglia, Che mi sembiava pietra di diamante. Per li tre gradi su di buona voglia Mi trasse'l Duca mio, dicendo: Chiedi Umilemente che 'l serrame scioglia. Divoto mi gittai a' santi piedi: Misericordia chiesi che m' aprisse; Ma pria nel petto tre fiate mi diedi. Sette P nella fronte mi descrisse Col punton della spada, e: Fa che lavi, Quando se' dentro, queste piaghe, disse. Cenere, o terra che secca si cavi, D'un color fora con suo vestimento; E di sotto da quel trasse due chiavi. L'un' era d'oro, e l'altra era d'argento: Pria con la bianca, e poscia con la gialla Fece alla porta sì, ch'io fui contento. Quandunque l' una d'este chiavi falla, Che non si volga dritta per la toppa, Diss' egli a noi, non s'apre questa calla. Più cara è l' una; ma l'altra vuol troppa D'arte e d'ingegno avanti che disserri, Perch' ell'è quella che 'l nodo disgroppa. Da Pier le tengo; e dissemi ch'io erri Anzi ad aprir, ch'a tenerla serrata, Purchè la gente a' piedi mi s'atterri. Poi pinse l'uscio alla parte sacrata, Dicendo: Entrate; ma facciovi accorti Che di fuor torna chi 'ndietro si guata. E quando fur ne' cardini distorti Gli spigoli di quella regge sacra, Che di metallo son sonanti e forti, Non ruggio si, nè si mostrò si acra Tarpeja come tolto le fu 'l buono Metello, per che poi rimase macra、 Io mi rivolsi attento al primo tuono, E, Te Deum laudamus, mi parea Udire in voce mista al dolce suono. Tale immagine appunto mi rendea Ciò ch'io udiva, qual prender si suole Quando a cantar con organi si stea; Ch'or si, or nò s'intendon le parole. CANTO X. ARGOMENTO Descrivesi la porta del Purgatorio, e la salita dei Poeti insino al primo balzo, nel quale sotto gravissimi pesi si purga la superbia. Di poi videro essi alla sua sponda intagliati alcuni esempi di umiltà; e in fine diverse anime sotto gravissimi pesi venire verso loro. Poi fummo dentro al soglio della porta Che 'l malo amor dell' anime disusa, Perchè fa parer dritta la via torta, Sonando la sentí' esser richiusa: E s'io avessi gli occhi vôlti ad essa, Qual fora stata al fallo degna scusa? Noi salivám per una pietra fessa, Che si moveva d'una e d'altra parte, Si come l'onda che fugge e s'appressa. Qui si convien usare un poco d'arte, Cominciò 'l Duca mio, in accostarsi Or quinci, or quindi al lato che si parte. E questo fece i nostri passi scarsi Tanto, che pria lo scemo della Luna Rigiunse al letto suo per ricorcarsi, Che noi fossimo fuor di quella cruna. Ma quando fummo liberi ed aperti Là dove 'l monte indietro si rauna, Io stancato, ed ambedue incerti Di nostra via, ristemmo su 'n un piano Solingo più che strade per diserti. Dalla sua sponda, ove confina il vano, Appiè dell' alta ripa che pur sale, Misurrebbe in tre volte un corpo umano ; E quanto l'occhio mio potea trar d'ale, Ór dal sinistro ed or dal destro fianco, Questa cornice mi parea cotale. Lassù non eran mossi i piè nostri anco, Quand' io conobbi quella ripa intorno, Che dritto di salita avea manco, Esser di marmo candido, ed adorno D'intagli si, che non pur Policleto, Ma la Natura li avrebbe scorno. L'Angel che venne in terra col decreto Della molt' anni lagrimata pace, Ch'aperse 'l Ciel dal suo lungo divieto, Dinanzi a noi pareva si verace, Quivi intagliato in un atto soave, Che non sembiava immagine che tace. Giurato si saría ch' el dicesse: Ave; Perocch' ivi era immaginata quella Ch' ad aprir l'alto amor volse la chiave. Ed avea in atto impressa esta favella: Ecce ancilla Dei, si propriamente, Come figura in cera si suggella. Non tener pur ad un luogo la mente, Per ch'io varcai Virgilio, e femmi presso, Acciocchè fosse agli occhi miei disposta. Era intagliato lì nel marmo stesso Lo carro, e i buoi traendo l'arca santa; Per che si teme uficio non commesso. Dinanzi parea gente; e, tutta quanta Partita in sette cori, a duo miei sensi Faceva dir: l'un Nò, l'altro Sì, canta. Similemente al fummo degl' incensi, Che v'era immaginato, e gli occhi e 'l naso Trescando alzato, l'umile Salmista; D'un gran palazzo, Micol ammirava Del Roman prince, lo cui gran valore Ed una vedovella gli era al freno, Di lagrime atteggiata e di dolore. Dintorno a lui parea calcato e pieno Di cavalieri; e l'aquile nell' oro Sovr' esso, in vista, al vento si moviéno. La miserella intra tutti costoro Parea dicer: Signor, fammi vendetta Tanto ch'io torni; e quella: Signor mio, A te che fia, se'l tuo metti in obblío? E, per lo Fabbro loro, a veder care: Pensa la succession, pensa ch', a peggio, Io cominciai: Maestro, quel ch' io veggio Di lor tormento a terra gli rannicchia Si, che i mie' occhi pria n' ebber tenzone. Ma guarda fiso là, e disviticchia Col viso quel che vien sotto a quei sassi: Già scorger puoi come ciascun si picchia. O superbi Cristian, miseri, lassi, Che, della vista della mente infermi, Che vola alla giustizia senza schermi? Voi siete quasi entomata in difetto, Vid' io color, quando posi ben cura. CANTO XI. ARGOMENTO Dopo l'orazion fatta dalle anime a Dio, mostra Dante d'avere riconosciuto l'anima di Oderisi d'Agobbio miniatore, col quale ragiona a lungo. Padre nostro, che ne' Cieli stai, Non circonscritto, ma per più amore Ch' ai primi effetti di lassù tu hai, Laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore Da ogni creatura, com'è degno Di render grazie al tuo alto vapore. Vegna ver noi la pace del tuo regno; Čhè noi ad essa non potém da noi, S'ella non vien, con tutto nostro 'ngegno. Come del suo voler gli Angeli tuoi Fan sagrificio a te, cantando Osanna, Quell'ombre orando, andavan sotto 'l pondo, Disparmente angosciate, tutte a tondo, Che portar quinci, sì che mondi e lievi Tosto, sì che possiate muover l'ala, Che secondo 'I disío vostro vi levi, Mostrate da qual mano invêr la scala parco. Si va più corto; e se c'è più d'un varco, Quel ne 'nsegnate, che men erto cala: Chè questi che vien meco, per lo 'ncarco Della carne d'Adamo, onde si veste, Al montar su contra sua voglia è Le lor parole, che rendero a queste Che dette avea colui cu' io seguiva, Non fur da cui venisser manifeste; Ma fu detto: A man destra per la riva Con noi venite, e troverete 'l passo Possibile a salir persona viva. E s'io non fossi impedito dal sasso Che la cervice mia superba doma, Guardere' io per veder s'io 'l conosco, Guglielmo Aldobrandeschi fu mio padre: Non so se'l nome suo giammai fu vosco. L'antico sangue e l'opere leggiadre De' miei maggior mi fêr si arrogante, Che, non pensando alla comune madre, Ogn' uomo ebbi 'n dispetto tanto avante, Ch'io ne mori', come i Sanesi sanno, E sallo in Campagnatico ogni fante. Io sono Omberto: e non pure a me danno Superbia fe; chè tutti i miei consorti Ha ella tratti seco nel malanno. E qui convien ch'io questo peso porti Per lei tanto, ch'a Dio si soddisfaccia, Poich'i' nol fei tra' vivi, qui tra' morti. Ascoltando chinai in giù la faccia: Ed un di lor, non questi che parlava, Si torse sotto 'l peso che lo 'mpaccia; E videmi, e conobbemi, e chiamava, Tenendo gli occhi con fatica fisi A me, che tutto chin con loro andava. Oh, diss' io lui, non se' tu Oderisi, L'onor d'Agobbio, e l'onor di quell'arte Ch' alluminare è chiamata in Parisi? Frate, diss' egli, più ridon le carte Che pennelleggia Franco Bolognese: L'onore è tutto or suo, e mio in parte. Ben non saré' io stato sì cortese Mentre ch' io vissi, per lo gran disío Dell' eccellenza, ove mio core intese. Di tal superbia quì si paga il fio; Ed ancor non sarei qui, se non fosse Com' poco il verde in su la cima dura, Credette Cimabue nella pintura Tener lo campo; ed ora ha Giotto il grido Si, che la fama di colui oscura. Così ha tolto l'uno all' altro Guido La gloria della lingua; e forse è nato Chi l'uno e l'altro caccerà del nido. Non è il mondan romore altro ch'un fiato Di vento ch'or vien quinci, ed or vien quindi, E muta nome perchè muta lato. Che fama avrai tu più, se vecchia scindi Da te la carne, che se fossi morto Innanzi che lasciassi il pappo e 'l dindi, Pria che passin mill' anni? ch'è più corto Spazio all' eterno, ch' un muover di ciglia Al cerchio che più tardi in cielo è torto. Colui che del cammin sì poco piglia Dinanzi a te, Toscana sonò tutta; La rabbia Fiorentina, che superba Buona umiltà, e gran tumor m' appiani; Poi che morì: cotal moneta rende Prima che passi tempo quanto visse, Liberamente nel Campo di Siena, CANTO XII. ARGOMENTO Partonsi i due Poeti da Oderisi, e vengono alla cornice, ove veggono intagliate su la prima molte immagini, le quali sono tutte esempj di superbia. Poscia descrive la salita sopra il secondo balzo, ove si purga il peccato dell' invidia. Di pari, come buoi che vanno a giogo, N'andava io con quella anima carca, Ma quando disse: Lascia lui, e varca, Chè qui è buon con la vela e co' remi, Quantunque può, ciascun pinger sua barca; Dritto, si come andar vuolsi, rifemi Con la persona, avvegnachè i pensieri Del mio Maestro i passi, ed amendue Per la puntura della rimembranza, Quanto per via di fuor del monte avanza. Vedea colui che fu nobil creato Più ch'altra creatura, giù dal Cielo, Celestial, giacer dall'altra parte, Vedev'io te segnata in su la strada Che poi non sentì pioggia, nè rugiada! Già mezza aragna, trista in su gli stracci O Roboám, già non par che minacci Quivi il tuo segno; ma pien di spavento Nel porta un carro, prima ch' altri 'l cacci. Mostrava ancora il duro pavimento, Come Almeóne a sua madre fe caro Sovra Sennacherib dentro dal tempio, Gli Assiri poi che fu morto Oloferne, Or superbite, e via col viso altiero, Figliuoli d' Eva; e non chinate 'l volto, Si che veggiate il vostro mal sentiero. Più era già per noi del monte vôlto, E del cammin del Sole assai più speso, Che non stimava l'animo non sciolto; Quando colui, che sempre innanzi atteso Andava, cominciò: Drizza la testa; Non è più tempo da gir si sospeso. Vedi colà un Angel che s'appresta Per venir verso noi; vedi che torna Dal servigio del dì l'ancella sesta. Di riverenza gli atti e 'l viso adorna, Si ch'ei diletti lo 'nviarci 'n suso: Pensa che questo di mai non raggiorna. Io era ben del suo ammonir uso, Pur di non perder tempo; sì che 'n quella Bianco-vestita, e nella faccia quale A questo annunzio vengon gente umana, per volar su nata, Quivi ben ratta dall' altro girone; Beati pauperes spiritu, voci Dall' infernali! chè quivi per canti S'entra, e laggiù per lamenti feroci. Già montavám su per li scaglion santi, Ed esser mi parea troppo più lieve, Che per lo pian non mi parea davanti. Ond'io Maestro, di', qual cosa greve Levata s'è da me, che nulla quasi Per me fatica andando si riceve? Rispose: Quando i P, che son rimasi Ancor nel volto tuo presso che stinti, Saranno, come l'un, del tutto rasi, Fien li tuo' piè dal buon voler sì vinti, Che non pur non fatica sentiranno, Ma fia diletto loro esser su pinti. Allor fec' io come color che vanno Con cosa in capo non da lor saputa, Se non che i cenni altrui sospicar fanno ; Per che la mano ad accertar s' ajuta, E cerca, e truova, e quell' uficio adempie, Che non si può fornir per la veduta : E con le dita della destra scempie Trovai pur sei le lettere che 'ncise Quel dalle chiavi a me sovra le tempie; A che guardando il mio Duca, sorrise. CANTO XIII. ARGOMENTO Giunto Dante sopra il secondo balzo, ove si purga il peccato dell'invidia, trova alcune anime vestite di cilicio, le quali avevano cuciti gli occhi da un filo di ferro; e vede tra quelle Sapía, donna Sanese. Noi eravamo al sommo della scala, Ove secondamente si risega Lo monte che, salendo, altrui dismala. Dintorno il poggio, come la primaja ; Fece del destro lato al muover centro, Per lo nuovo cammin, tu ne conduci, S'altra cagione in contrario non pronta, Esser den sempre li tuoi raggi duci. Quanto di quà per un miglio si conta, Tanto di là eravám noi già iti Con poco tempo, per la voglia pronta; Non però visti, spiriti, parlando E vedrai gente innanzi a noi sedersi, Uomo si duro, che non fosse punto Chè quando fui si presso di lor giunto, E l'un soffería altro con la spalla, Non pur per lo sonar delle parole, E però non attese mia dimanda, Della cornice, onde cader si puote, Ombre, che per l'orribile costura S'anima è qui tra voi, che sia Latina; Più innanzi alquanto, che là dov'io stava; In vista; e se volesse alcun dir: Come? Lo mento, a guisa d'orbo, in su levava. Spirto, diss' io, che per salir ti dome, Se tu se' quelli che mi rispondesti, Fossi chiamata; e fui degli altrui danni Già discendendo l'arco de' mie' anni, Passi di-fuga; e, veggendo la caccia, |