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Noi ci appressammo; ed eravamo in parte, Che là, dove pareami in prima un rotto, Pur come un fesso che muro diparte, Vidi una porta, e tre gradi di sotto,

Per gire ad essa, di color diversi, Ed un portier ch'ancor non facea motto. E come l'occhio più e più v❜apersi, Vidil seder sopra 'l grado soprano, Tal nella faccia, ch'io non lo soffersi; Ed una spada nuda aveva in mano, Che rifletteva i raggi sì vêr noi, Ch'io dirizzava spesso il viso invano. Ditel costinci, che volete voi?

Cominciò egli a dire; ov'è la scorta? Guardate che 'l venir su non vi nôi. Donna del Ciel, di queste cose accorta, Rispose 'l mio Maestro a lui, pur dianzi Ne disse: Andate là; quivi è la porta. Ed ella i passi vostri in bene avanzi, Ricomincio' cortese portinajo: Venite dunque a' nostri gradi innanzi. Là ne venimmo; e lo scaglion primajo

Bianco marmo era, sì pulito e terso, Ch'io mi specchiava in esso qual io pajo. Era 'l secondo, tinto più che perso, D'una petrina ruvida ed arsiccia, Crepata per lo lungo e per traverso. Lo terzo, che di sopra s' ammassiccia, Porfido mi parea si fiammeggiante, Come sangue che fuor di vena spiccia. Sopra questo teneva ambo le piante L'Angel di Dio, sedendo in su la soglia, Che mi sembiava pietra di diamante. Per li tre gradi su di buona voglia

Mi trasse'l Duca mio, dicendo: Chiedi Umilemente che 'l serrame scioglia. Divoto mi gittai a' santi piedi:

Misericordia chiesi che m' aprisse; Ma pria nel petto tre fiate mi diedi. Sette P nella fronte mi descrisse

Col punton della spada, e: Fa che lavi, Quando se' dentro, queste piaghe, disse. Cenere, o terra che secca si cavi,

D'un color fora con suo vestimento; E di sotto da quel trasse due chiavi. L'un' era d'oro, e l'altra era d'argento: Pria con la bianca, e poscia con la gialla Fece alla porta sì, ch'io fui contento. Quandunque l' una d'este chiavi falla,

Che non si volga dritta per la toppa, Diss' egli a noi, non s'apre questa calla. Più cara è l' una; ma l'altra vuol troppa D'arte e d'ingegno avanti che disserri, Perch' ell'è quella che 'l nodo disgroppa. Da Pier le tengo; e dissemi ch'io erri

Anzi ad aprir, ch'a tenerla serrata, Purchè la gente a' piedi mi s'atterri. Poi pinse l'uscio alla parte sacrata,

Dicendo: Entrate; ma facciovi accorti Che di fuor torna chi 'ndietro si guata. E quando fur ne' cardini distorti

Gli spigoli di quella regge sacra, Che di metallo son sonanti e forti, Non ruggio si, nè si mostrò si acra Tarpeja come tolto le fu 'l buono Metello, per che poi rimase macra、

Io mi rivolsi attento al primo tuono,

E, Te Deum laudamus, mi parea Udire in voce mista al dolce suono. Tale immagine appunto mi rendea Ciò ch'io udiva, qual prender si suole Quando a cantar con organi si stea; Ch'or si, or nò s'intendon le parole.

CANTO X.

ARGOMENTO

Descrivesi la porta del Purgatorio, e la salita dei Poeti insino al primo balzo, nel quale sotto gravissimi pesi si purga la superbia. Di poi videro essi alla sua sponda intagliati alcuni esempi di umiltà; e in fine diverse anime sotto gravissimi pesi venire verso loro.

Poi fummo dentro al soglio della porta

Che 'l malo amor dell' anime disusa, Perchè fa parer dritta la via torta, Sonando la sentí' esser richiusa:

E s'io avessi gli occhi vôlti ad essa, Qual fora stata al fallo degna scusa? Noi salivám per una pietra fessa,

Che si moveva d'una e d'altra parte, Si come l'onda che fugge e s'appressa. Qui si convien usare un poco d'arte,

Cominciò 'l Duca mio, in accostarsi Or quinci, or quindi al lato che si parte. E questo fece i nostri passi scarsi

Tanto, che pria lo scemo della Luna Rigiunse al letto suo per ricorcarsi, Che noi fossimo fuor di quella cruna. Ma quando fummo liberi ed aperti Là dove 'l monte indietro si rauna, Io stancato, ed ambedue incerti

Di nostra via, ristemmo su 'n un piano Solingo più che strade per diserti. Dalla sua sponda, ove confina il vano, Appiè dell' alta ripa che pur sale, Misurrebbe in tre volte un corpo umano ; E quanto l'occhio mio potea trar d'ale, Ór dal sinistro ed or dal destro fianco, Questa cornice mi parea cotale. Lassù non eran mossi i piè nostri anco, Quand' io conobbi quella ripa intorno, Che dritto di salita avea manco, Esser di marmo candido, ed adorno D'intagli si, che non pur Policleto, Ma la Natura li avrebbe scorno. L'Angel che venne in terra col decreto Della molt' anni lagrimata pace, Ch'aperse 'l Ciel dal suo lungo divieto, Dinanzi a noi pareva si verace, Quivi intagliato in un atto soave, Che non sembiava immagine che tace. Giurato si saría ch' el dicesse: Ave; Perocch' ivi era immaginata quella Ch' ad aprir l'alto amor volse la chiave. Ed avea in atto impressa esta favella: Ecce ancilla Dei, si propriamente, Come figura in cera si suggella.

Non tener pur ad un luogo la mente,
Disse 'l dolce Maestro, che m'avea
Da quella parte onde 'l cuore ha la gente.
Per ch' io mi mossi col viso, e vedea
Diretro da Maria, per quella costa
Onde m'era colui che mi movea,
Un'altra istoria nella roccia imposta:

Per ch'io varcai Virgilio, e femmi presso, Acciocchè fosse agli occhi miei disposta. Era intagliato lì nel marmo stesso

Lo carro, e i buoi traendo l'arca santa; Per che si teme uficio non commesso. Dinanzi parea gente; e, tutta quanta Partita in sette cori, a duo miei sensi Faceva dir: l'un Nò, l'altro Sì, canta. Similemente al fummo degl' incensi,

Che v'era immaginato, e gli occhi e 'l naso
Ed al si ed al nò discordi fensi.
Li precedeva al benedetto vaso,

Trescando alzato, l'umile Salmista;
E più e men che Re era 'n quel caso.
Di contra, effigiata ad una vista

D'un gran palazzo, Micol ammirava
Si come donna dispettosa e trista.
Io mossi i piè del luogo dov' io stava,
Per avvisar da presso un' altra storia
Che diretro a Micól mi biancheggiava.
Quivi era storiata l'alta gloria

Del Roman prince, lo cui gran valore
Mosse Gregorio alla sua gran vittoria ;
I' dico di Trajano Imperadore:

Ed una vedovella gli era al freno, Di lagrime atteggiata e di dolore. Dintorno a lui parea calcato e pieno Di cavalieri; e l'aquile nell' oro

Sovr' esso, in vista, al vento si moviéno. La miserella intra tutti costoro

Parea dicer: Signor, fammi vendetta
Del mio figliuol ch'è morto, ond'io m'accoro;
Ed egli a lei rispondere: Ora aspetta

Tanto ch'io torni; e quella: Signor mio,
Come persona in cui dolor s'affretta,
Se tu non torni? ed el: Chi fia dov'io,
La ti farà; ed ella: L'altrui bene

A te che fia, se'l tuo metti in obblío?
Ond' elli: Or ti conforta, chè conviene
Ch'io solva il mio dovere anzi ch'io muova:
Giustizia vuole, e pietà mi ritiene.
Colui che mai non vide cosa nuova,
Produsse esto visibile parlare,
Novello a noi, perchè qui non si truova.
Mentr' io mi dilettava di guardare
L'immagini di tante umilitadi,

E, per lo Fabbro loro, a veder care:
Ecco di quà, ma fanno i passi radi,
Mormorava 'l Poeta, molte genti;
Questi ne 'nvieranno agli alti gradi.
Gli occhi miei, ch'a mirar erano intenti,
Per veder novitadi onde son vaghi,
Volgendosi vêr lui non furon lenti.
Non vo' però, Lettor, che tu ti smaghi
Di buon proponimento, per udire
Come Dio vuol che 'l debito si paghi.
Non attender la forma del martire;

Pensa la succession, pensa ch', a peggio,
Oltre la gran sentenzia non può ire.

Io cominciai: Maestro, quel ch' io veggio
Muover a noi, non mi sembran persone,
E non so che; sì nel veder vaneggio.
Ed egli a me: La grave condizione

Di lor tormento a terra gli rannicchia Si, che i mie' occhi pria n' ebber tenzone. Ma guarda fiso là, e disviticchia

Col viso quel che vien sotto a quei sassi: Già scorger puoi come ciascun si picchia. O superbi Cristian, miseri, lassi,

Che, della vista della mente infermi,
Fidanza avete ne' ritrosi passi,
Non v'accorgete voi che noi siam vermi
Nati a formar l'angelica farfalla,

Che vola alla giustizia senza schermi?
Di che l'animo vostro in alto galla?

Voi siete quasi entomata in difetto,
Si come verme in cui formazion falla.
Come, per sostentar solajo o tetto,
Per mensola talvolta una figura
Si vede giunger le ginocchia al petto,
La qual fa del non ver vera rancura
Nascer a chi la vede; così fatti

Vid' io color, quando posi ben cura.
Vero è che più e meno eran contratti,
Secondo ch' avean più e meno addosso;
E qual più pazienza avea negli atti,
Piangendo parea dicer: Più non posso.

CANTO XI.

ARGOMENTO

Dopo l'orazion fatta dalle anime a Dio, mostra Dante d'avere riconosciuto l'anima di Oderisi d'Agobbio miniatore, col quale ragiona a lungo.

Padre nostro, che ne' Cieli stai,

Non circonscritto, ma per più amore Ch' ai primi effetti di lassù tu hai, Laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore Da ogni creatura, com'è degno

Di render grazie al tuo alto vapore. Vegna ver noi la pace del tuo regno;

Čhè noi ad essa non potém da noi, S'ella non vien, con tutto nostro 'ngegno. Come del suo voler gli Angeli tuoi

Fan sagrificio a te, cantando Osanna,
Così facciano gli uomini de' suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
Senza la qual per questo aspro diserto
A retro va chi più di gir s'affanna.
E come noi lo mal ch' avém sofferto
Perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
Benigno, e non guardare al nostro merto.
Nostra virtù, che di leggier s'adona,
Non spermentar con l'antico avversaro;
Ma libera da lui, che si la sprona.
Quest'ultima preghiera, Signor caro,
Già non si fa per noi, chè non bisogna,
Ma per color che dietro a noi restaro.
Così a sè e noi buona ramogna

Quell'ombre orando, andavan sotto 'l pondo,
Simile a quel che talvolta si sogna,

Disparmente angosciate, tutte a tondo,
E lasse, su per la prima cornice,
Purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
Di quà che dire e far per lor si puote
Da quei c'hanno al voler buona radice?
Ben si de' loro aitar lavar le note

Che portar quinci, sì che mondi e lievi
Possano uscire alle stellate ruote.
Deh! se giustizia e pietà vi disgrevi

Tosto, sì che possiate muover l'ala, Che secondo 'I disío vostro vi levi, Mostrate da qual mano invêr la scala

parco.

Si va più corto; e se c'è più d'un varco, Quel ne 'nsegnate, che men erto cala: Chè questi che vien meco, per lo 'ncarco Della carne d'Adamo, onde si veste, Al montar su contra sua voglia è Le lor parole, che rendero a queste Che dette avea colui cu' io seguiva, Non fur da cui venisser manifeste; Ma fu detto: A man destra per la riva Con noi venite, e troverete 'l passo Possibile a salir persona viva. E s'io non fossi impedito dal sasso

Che la cervice mia superba doma,
Onde portar conviemmi 'l viso basso,
Cotesti ch'ancor vive, e non si noma,

Guardere' io per veder s'io 'l conosco,
E per farlo pietoso a questa soma.
Io fui Latino, e nato d'un gran Tosco;

Guglielmo Aldobrandeschi fu mio padre: Non so se'l nome suo giammai fu vosco. L'antico sangue e l'opere leggiadre

De' miei maggior mi fêr si arrogante, Che, non pensando alla comune madre, Ogn' uomo ebbi 'n dispetto tanto avante, Ch'io ne mori', come i Sanesi sanno, E sallo in Campagnatico ogni fante. Io sono Omberto: e non pure a me danno Superbia fe; chè tutti i miei consorti Ha ella tratti seco nel malanno. E qui convien ch'io questo peso porti Per lei tanto, ch'a Dio si soddisfaccia, Poich'i' nol fei tra' vivi, qui tra' morti. Ascoltando chinai in giù la faccia:

Ed un di lor, non questi che parlava, Si torse sotto 'l peso che lo 'mpaccia; E videmi, e conobbemi, e chiamava, Tenendo gli occhi con fatica fisi

A me, che tutto chin con loro andava. Oh, diss' io lui, non se' tu Oderisi,

L'onor d'Agobbio, e l'onor di quell'arte Ch' alluminare è chiamata in Parisi? Frate, diss' egli, più ridon le carte

Che pennelleggia Franco Bolognese: L'onore è tutto or suo, e mio in parte. Ben non saré' io stato sì cortese

Mentre ch' io vissi, per lo gran disío Dell' eccellenza, ove mio core intese. Di tal superbia quì si paga il fio;

Ed ancor non sarei qui, se non fosse
Che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vanagloria dell' umane posse,

Com' poco il verde in su la cima dura,
Se non è giunta dall' etadi grosse!

Credette Cimabue nella pintura

Tener lo campo; ed ora ha Giotto il grido Si, che la fama di colui oscura.

Così ha tolto l'uno all' altro Guido

La gloria della lingua; e forse è nato Chi l'uno e l'altro caccerà del nido. Non è il mondan romore altro ch'un fiato Di vento ch'or vien quinci, ed or vien quindi, E muta nome perchè muta lato. Che fama avrai tu più, se vecchia scindi Da te la carne, che se fossi morto

Innanzi che lasciassi il pappo e 'l dindi, Pria che passin mill' anni? ch'è più corto Spazio all' eterno, ch' un muover di ciglia Al cerchio che più tardi in cielo è torto. Colui che del cammin sì poco piglia

Dinanzi a te, Toscana sonò tutta;
Ed ora appena in Siena sen pispiglia,
Ond' era Sire quando fu distrutta

La rabbia Fiorentina, che superba
Fu a quel tempo sì com'ora è putta.
La vostra nominanza è color d'erba,
Che viene e va; e quei la discolora,
Per cui ell' esce della terra acerba.
Ed io a lui: Lo tuo ver dir m'incuora

Buona umiltà, e gran tumor m' appiani;
Ma chi è quei, di cui tu parlavi ora?
Quegli è, rispose, Provenzan Salvani;
Ed è qui perchè fu presuntuoso
A recar Siena tutta alle sue mani.
Ito è così, e va senza riposo

Poi che morì: cotal moneta rende
A soddisfar chi è di là tropp' oso.
Ed io Se quello spirito ch' attende,
Pria che si penta, l'orlo della vita,
Laggiù dimora, e quassù non ascende,
Se buona orazion lui non aita,

Prima che passi tempo quanto visse,
Come fu la venuta a lui largita?
Quando vivea più glorioso, disse,

Liberamente nel Campo di Siena,
Ogni vergogna deposta, s' affisse;
E i, per trar l'amico suo di pena
Che sostenea nella prigion di Carlo,
Si condusse a tremar per ogni vena.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
Ma poco tempo andrà, che i tuoi vicini
Faranno sì, che tu potrai chiosarlo.
Quest' opera gli tolse quei confini.

CANTO XII.

ARGOMENTO

Partonsi i due Poeti da Oderisi, e vengono alla cornice, ove veggono intagliate su la prima molte immagini, le quali sono tutte esempj di superbia. Poscia descrive la salita sopra il secondo balzo, ove si purga il peccato dell' invidia.

Di pari, come buoi che vanno a giogo,

N'andava io con quella anima carca,
Fin che 'l sofferse il dolce pedagogo.

Ma quando disse: Lascia lui, e varca,

Chè qui è buon con la vela e co' remi, Quantunque può, ciascun pinger sua barca; Dritto, si come andar vuolsi, rifemi

Con la persona, avvegnachè i pensieri
Mi rimanesser e chinati e scemi.
Io m'era mosso, e seguía volentieri

Del mio Maestro i passi, ed amendue
Già mostravám com'eravám leggieri;
Quando mi disse: Volgi gli occhi in giue;
Buon ti sarà, per alleggiar la via,
Veder lo letto delle piante tue.
Come, perchè di lor memoria sia,
Sovra' sepolti le tombe terragne
Portan segnato quel ch' elli eran pria;
Onde li molte volte si ripiagne

Per la puntura della rimembranza,
Che solo a' pii dà delle calcagne:
Si vid' io lì, ma di miglior sembianza,
Secondo l'artificio, figurato

Quanto per via di fuor del monte avanza. Vedea colui che fu nobil creato

Più ch'altra creatura, giù dal Cielo,
Folgoreggiando, scendere da un lato.
Vedeva Briaréo, fitto dal telo

Celestial, giacer dall'altra parte,
Grave alla Terra per lo mortal gielo.
Vedea Timbréo, vedea Pallade e Marte,
Armati ancora intorno al padre loro,
Mirar le membra de' Giganti sparte.
Vedea Nembrotto appiè del gran lavoro,
Quasi smarrito, e riguardar le genti
Che 'n Sennaar con lui superbi foro.
O Niobe, con che occhi dolenti

Vedev'io te segnata in su la strada
Tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
O Saul, come 'n su la propria spada
Quivi parevi morto in Gelboè,

Che poi non sentì pioggia, nè rugiada!
O folle Aragne, si vedea io te,

Già mezza aragna, trista in su gli stracci
Dell' opera che mal per te si fe.

O Roboám, già non par che minacci

Quivi il tuo segno; ma pien di spavento Nel porta un carro, prima ch' altri 'l cacci. Mostrava ancora il duro pavimento,

Come Almeóne a sua madre fe caro
Parer lo sventurato adornamento.
Mostrava come i figli si gittaro

Sovra Sennacherib dentro dal tempio,
E come morto lui quivi lasciaro.
Mostrava la ruina e 'l crudo scempio
Che fe Tamiri quando disse a Ciro:
Sangue sitisti, ed io di sangue t'empio.
Mostrava come in rotta si fuggiro

Gli Assiri poi che fu morto Oloferne,
Ed anche le reliquie del martiro.
Vedeva Troja in cenere e in caverne :
O Ilión, come te basso e vile
Mostrava il segno che li si discerne!
Qual di pennel fu maestro o di stile,
Che ritraesse l'ombre e gli atti ch'ivi
Mirar farieno uno 'ngegno sottile?
Morti li morti, e i vivi parean vivi.
Non vide me' di me chi vide 'l vero,
Quant' io calcai finchè chinato givi.

Or superbite, e via col viso altiero,

Figliuoli d' Eva; e non chinate 'l volto, Si che veggiate il vostro mal sentiero. Più era già per noi del monte vôlto,

E del cammin del Sole assai più speso, Che non stimava l'animo non sciolto; Quando colui, che sempre innanzi atteso Andava, cominciò: Drizza la testa; Non è più tempo da gir si sospeso. Vedi colà un Angel che s'appresta Per venir verso noi; vedi che torna Dal servigio del dì l'ancella sesta. Di riverenza gli atti e 'l viso adorna, Si ch'ei diletti lo 'nviarci 'n suso: Pensa che questo di mai non raggiorna. Io era ben del suo ammonir uso,

Pur di non perder tempo; sì che 'n quella
Materia non potea parlarmi chiuso.
A noi venía la creatura bella,

Bianco-vestita, e nella faccia quale
Par tremolando mattutina stella.
Le braccia aperse, ed indi aperse l'ale.
Disse: Venite; qui son presso i gradi,
Ed agevolemente omai si sale.
molto radi:

A

questo annunzio vengon

gente umana, per volar su nata,
Perchè a poco vento così cadi?
Menocci ove la roccia era tagliata:
Quivi mi battéo l'ali per la fronte;
Poi mi promise sicura l'andata.
Come a man destra, per salire al monte
Dove siede la chiesa che soggioga
La ben guidata sopra Rubaconte,
Si rompe del montar l'ardita foga,
Per le scalée che si fêro ad etade
Ch'era sicuro 'l quaderno e la doga;
Così s' allenta la ripa, che cade

Quivi ben ratta dall' altro girone;
Ma quinci e quindi l'alta pietra rade.
Noi volgend' ivi le nostre persone,

Beati pauperes spiritu, voci
Cantaron sì, che nol diría sermone.
Ahi quanto son diverse quelle foci

Dall' infernali! chè quivi per canti S'entra, e laggiù per lamenti feroci. Già montavám su per li scaglion santi,

Ed esser mi parea troppo più lieve, Che per lo pian non mi parea davanti. Ond'io Maestro, di', qual cosa greve

Levata s'è da me, che nulla quasi Per me fatica andando si riceve? Rispose: Quando i P, che son rimasi Ancor nel volto tuo presso che stinti, Saranno, come l'un, del tutto rasi, Fien li tuo' piè dal buon voler sì vinti, Che non pur non fatica sentiranno, Ma fia diletto loro esser su pinti. Allor fec' io come color che vanno

Con cosa in capo non da lor saputa, Se non che i cenni altrui sospicar fanno ; Per che la mano ad accertar s' ajuta,

E cerca, e truova, e quell' uficio adempie, Che non si può fornir per la veduta : E con le dita della destra scempie Trovai pur sei le lettere che 'ncise Quel dalle chiavi a me sovra le tempie; A che guardando il mio Duca, sorrise.

CANTO XIII.

ARGOMENTO

Giunto Dante sopra il secondo balzo, ove si purga il peccato dell'invidia, trova alcune anime vestite di cilicio, le quali avevano cuciti gli occhi da un filo di ferro; e vede tra quelle Sapía, donna Sanese.

Noi eravamo al sommo della scala,

Ove secondamente si risega

Lo monte che, salendo, altrui dismala.
Ivi così una cornice lega

Dintorno il poggio, come la primaja ;
Se non che l'arco suo più tosto piega.
Ombra non gli è, nè segno che si paja:
Par si la ripa, e par sì la via schietta,
Col livido color della petraja.
Se qui, per dimandar, gente s'aspetta,
Ragionava il Poeta, i temo forse
Che troppo avrà d'indugio nostra eletta.
Poi fisamente al Sole gli occhi porse;

Fece del destro lato al muover centro,
E la sinistra parte di sè torse.
O dolce lume, a cui fidanza io entro

Per lo nuovo cammin, tu ne conduci,
Dicea, come condur si vuol quinc' entro.
Tu scaldi 'l mondo, tu sovr' esso luci;

S'altra cagione in contrario non pronta, Esser den sempre li tuoi raggi duci. Quanto di quà per un miglio si conta, Tanto di là eravám noi già iti

Con poco tempo, per la voglia pronta;
E verso noi volar furon sentiti,

Non però visti, spiriti, parlando
Alla mensa d'amor cortesi inviti.
La prima voce che passò volando,
Vinum non habent, altamente disse;
E dietro a noi l' andò reiterando.
E prima che del tutto non si udisse,
Per allungarsi, un'altra: I' sono Oreste,
Passò gridando, ed anche non s'affisse.
O, diss' io, Padre, che voci son queste?
E com'io dimandai, ecco la terza,
Dicendo: Amate da cui male aveste.
Lo buon Maestro: Questo cinghio sferza
La colpa della 'nvidia, e però sono
Tratte da amor le corde della ferza.
Lo fren vuol esser del contrario suono:
Credo che l'udirai, per mio avviso,
Prima che giunghi al passo del perdono.
Ma ficca gli occhi per l'aer ben fiso,

E vedrai gente innanzi a noi sedersi,
E ciascun è lungo la grotta assiso.
Allora più che prima gli occhi apersi;
Guardámi innanzi, e vidi ombre con manti
Al color della pietra non diversi.
E poi che fummo un poco più avanti,
Üdi gridar: María, ora per noi;
Gridar: Michele, e Pietro, e tutti i Santi.
Non credo che per terra vada ancoi

Uomo si duro, che non fosse punto
Per compassion di quel ch'io vidi poj;

Chè quando fui si presso di lor giunto,
Che gli atti loro a me venivan certi
Per gli occhi, fui di grave dolor munto.
Di vil ciliccio mi parean coperti,

E l'un soffería altro con la spalla,
E tutti dalla ripa eran sofferti.
Così li ciechi, a cui la roba falla,
Stanno a' perdoni a chieder lor bisogna,
E l'uno il capo sovra l'altro avvalla,
Perchè in altrui pietà tosto si pogna,

Non pur per lo sonar delle parole,
Ma per la vista che non meno agogna.
E come agli orbi non approda 'l Sole,
Così all' ombre, di ch'io parlava ora,
Luce del Ciel di sè largir non vuole;
Ch'a tutte un fil di ferro il ciglio fora
E cuce, sì com' a sparvier selvaggio
Si fa, perocchè queto non dimora.
A me pareva andando fare oltraggio,
Vedendo altrui, non essendo veduto;
Per ch'io mi volsi al mio Consiglio saggio.
Ben sapev' ei che volea dir lo muto;

E però non attese mia dimanda,
Ma disse: Parla, e sii breve ed arguto.
Virgilio mi venía da quella banda

Della cornice, onde cader si puote,
Perchè da nulla sponda s'inghirlanda;
Dall' altra parte m'eran le devote

Ombre, che per l'orribile costura
Premevan sì, che bagnavan le gote.
Volsimi a loro, ed: O gente sicura,
Incominciai, di veder l'alto Lume,
Che 'l disío vostro solo ha in sua cura,
Se tosto grazia risolva le schiume
Di vostra coscienza, sì che chiaro
Per essa scenda della mente il frume,
Ditemi, che mi fia grazioso e caro,

S'anima è qui tra voi, che sia Latina;
E forse a lei sarà buon, s'io l'apparo.
O frate mio, ciascuna è cittadina
D'una vera città; ma tu vuoi dire,
Che vivesse in Italia peregrina.
Questo mi parve per risposta udire

Più innanzi alquanto, che là dov'io stava;
Ond' io mi feci ancor più là sentire.
Tra l'altre vidi un'ombra ch' aspettava

In vista; e se volesse alcun dir: Come? Lo mento, a guisa d'orbo, in su levava. Spirto, diss' io, che per salir ti dome,

Se tu se' quelli che mi rispondesti,
Fammiti conto o per luogo o per nome.
Io fui Sanese, rispose; e con questi
Altri rimondo qui la vita ria,
Lagrimando a Colui che sè ne presti.
Savia non fui, avvegnachè Sapía

Fossi chiamata; e fui degli altrui danni
Più lieta assai, che di ventura mia.
E perchè tu non credi ch' io t'inganni,
Odi se fui, com' io ti dico, folle.

Già discendendo l'arco de' mie' anni,
Erano i cittadin miei presso a Colle
In campo giunti coloro avversari;
Ed io pregava Dio di quel ch'e' volle.
Rotti fur quivi, e vôlti negli amari

Passi di-fuga; e, veggendo la caccia,
Letizia presi a tutt'altre dispari;

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