Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri Del nostro amor tu hai cotanto affetto, Quella lettura, e scolorocci'l viso; Esser baciato da cotanto amante, Questi, che mai da me non fia diviso, La bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse; Quel giorno più non vi leggemmo avante. Mentre che l'uno spirto questo disse, L'altro piangeva si, che di pietade Io venni meno come s' io morisse, E caddi come corpo morto cade. CANTO VI. ARGOMENTO Trovasi il Poeta, poi che in sè stesso fu ritornato, nel terzo cerchio, ove sono puniti i golosi, la cui pena è l'esser fitti nel fango, e parimente tormentati da grandissima pioggia con grandine mescolata, in guardia di Cerbero, il quale, latrando con tre bocche, di continuo gli offende ed affligge. Tra così fatti golosi trovando Ciacco, seco delle discordie di Fiorenza ragiona. Finalmente si parte per discendere nel quarto cerchio. tornar della mente, che si chiuse Dinanzi alla pietà de' due cognati, Che di tristizia tutto mi confuse, Nuovi tormenti e nuovi tormentati Mi veggio intorno, come ch'io mi muova, E come ch'i' mi volga, e ch'io mi guati. Io sono al terzo cerchio della piova Eterna, maledetta, fredda e greve; Sovra la gente che quivi è sommersa. Dell' un de' lati fanno all'altro schermo; Volgonsi spesso i miseri profani. Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, Le bocche aperse, e mostrocci le sanne; Non avea membro che tenesse fermo. E'l Duca mio, distese le sue spanne, Prese la terra, e, con piene le pugna, La gittò dentro alle bramose canne. Qual è quel cane ch'abbajando agugna, E si racqueta poi che 'l pasto morde, Chè solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer quelle facce lorde Dello demonio Cerbero, che 'ntrona L'anime sì, ch'esser vorrebber sorde. Noi passavám su per l'ombre ch'adona La greve pioggia, e ponevám le piante Sopra lor vanità, che par persona. Elle giacean per terra tutte quante, Fuor ch'una ch'a seder si levò ratto Ch'ella ci vide passarsi davante. O tu, che se' per questo Inferno tratto, Mi disse, riconoscimi, se sai; Tu fosti prima, ch' io disfatto, fatto. Ed io a lei L'angoscia che tu hai, Forse ti tira fuor della mia mente Sì, che non par ch'io ti vedessi mai. Ma dimmi chi tu se', che 'n si dolente Luogo se' messa, ed a sì fatta pena, Chè s'altra è maggior, nulla è sì spiacente. Ed egli a me: La tua Città, ch'è piena D'invidia sì, che già trabocca il sacco, Seco mi tenne in la vita serena. Voi, cittadini, mi chiamaste Ciacco; Per la dannosa colpa della gola, Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco. Ed io anima trista non son sola, Chè tutte queste a simil pena stanno Per simil colpa; e più non fe parola. Io gli risposi Ciacco, il tuo affanno Mi pesa sì, ch'a lagrimar m'invita ; Ma dimmi, se tu sai, a che verranno Li cittadin della Città partita; S'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione, Tenendo l'altra sotto gravi pesi, Ed io a lui: Ancor vo' che m'insegni, Chè gran desío mi stringe di sapere Se'l Ciel gli addolcia, o lo 'nferno gli attosca E quegli: Ei son tra l'anime più nere; Diversa colpa giù gli aggrava al fondo. Se tanto scendi, gli potrai vedere. Ma quando tu sarai nel dolce mondo, Pregoti ch' alla mente altrui mi rechi: Più non ti dico, e più non ti rispondo. Gli diritti occhi torse allora in biechi; Ripiglierà sua carne e sua figura, In vera perfezion giammai non vada, Di là, più che di quà, essere aspetta. Noi aggirammo a tondo quella strada, Parlando più assai ch'io non ridico: Venimmo al punto dove si digrada; Quivi trovammo Pluto, il gran nemico. CANTO VII. ARGOMENTO Pervenuto Dante nel quarto cerchio, trova nell'entrata Pluto come guardiano e signor di esso cerchio. Quindi per le parole di Virgilio avendo ottenuto di passare avanti, vede i prodighi e gli avari puniti col volger l' uno contra l'altro gravissimi pesi. E di là passando nel quinto cerchio, trova nella palude Stige gl'iracondi e gli accidiosi, quelli percotendosi e molestandosi in varie guise, questi stando sommersi in essa palude; la quale avendo girata d'intorno, trovasi ultimamente appiè d'un'alta torre. Pape Satan, pape Satan aleppe, Cominciò Pluto con la voce chioccia. E quel Savio gentil, che tutto seppe, Disse per confortarmi: Non ti noccia La tua paura; chè, poder ch'egli abbia, Non ti torrà lo scender questa roccia. Poi si rivolse a quella enfiata labbia, E disse: Taci, maladetto lupo; Consuma dentro te con la tua rabbia. Non è senza cagion l'andare al cupo: Vuolsi così nell'alto, ove Michele Fe la vendetta del superbo strupo. Quali dal vento le gonfiate vele Caggiono avvolte, poichè l'alber fiacca, Tal cadde a terra la fiera crudele. Così scendemmo nella quarta lacca, Prendendo più della dolente ripa, Che si frange con quella in cui s'intoppa, Qui vidio gente più ch'altrove troppa, Si rivolgea ciascun, voltando a retro, Da ogni mano, all' opposito punto, Gridandosi anche loro ontoso metro; Poi si volgea ciascun, quand'era giunto, Per lo suo mezzo cerchio, all' altra giostra. Ed io, ch'avea lo cor quasi compunto, Dissi: Maestro mio, or mi dimostra Che gente è questa, e se tutti fur cherci Questi chercuti alla sinistra nostra. Ed egli a me: Tutti quanti fur guerci Si della mente in la vita primaja, Che con misura nullo spendio fêrci. Assai la voce lor chiaro l'abbaja, Quando vengono ai duo punti del cerchio, Questi fur cherci che non han coperchio Dovrei io ben riconoscere alcuni Questi risurgeranno del sepulcro Col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. Mal dare e mal tener lo mondo pulcro Ha tolto loro, e posti a questa zuffa: O che già fu, di quest' anime stanche Questa Fortuna, di che tu mi tocche, Fece li cieli, e diè lor chi conduce, Similemente agli splendor mondani Di gente in gente, e d'uno in altro sangue, Oltre la difension de' senni umani. Per che una gente impera, e l'altra langue, Seguendo lo giudicio di costei, Che è occulto come in erba l'angue. Vostro saver non ha contrasto a lei: Ella provvede, giudica e persegue Suo regno, come il loro gli altri Dei. Le sue permutazion non hanno triegue; Necessità la fa esser veloce; Si spesso vien chi vicenda consegue. Quest'è colei ch'è tanto posta in croce Quando mi mossi, e 'l troppo star si vieta. Questo tristo ruscel, quando è disceso Troncandosi co' denti a brano a brano. Ed anche vo' che tu per certo credi Nell'aer dolce che dal Sol s'allegra, Grand'arco tra la ripa secca e 'l mezzo, Con gli occhi vôlti a chi del fango ingozza: Venimmo appiè d'una torre al dassezzo. Ed egli a me: Su per le sucide onde Già puoi scorgere quello che s'aspetta, Se 'l fumino del pantan nol ti nasconde. Corda non pinse mai da sè saetta Che si corresse via per l'aer snella, Com'i' vidi una nave piccioletta Venir per l'acqua verso noi in quella, Sotto 'l governo d'un sol galeoto Che gridava: Or se' giunta, anima fella? Flegiás, Flegiás, tu gridi a vôto, Disse lo mio Signore, a questa volta; Lo Duca mio discese nella barca, Dinanzi mi si fece un pien di fango, Ma tu chi se', che si se' fatto brutto? Ch'io ti conosco, ancor sie lordo tutto. Allora stese al legno ambe le mani; Per che'l Maestro accorto lo sospinse, Quei fu al mondo persona orgogliosa; Far di costui alle fangose genti, Noi pur giugnemmo dentro all'alte fosse Dal Ciel piovuti, che stizzosamente Pruovi, se sa; chè tu qui rimarrai, Nel suon delle parole maladette; E se l'andar più oltre m'è negato, Mi disse: Non temer, chè 'l nostro passo Non ci può torre alcun; da Tal n'è dato. Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso Conforta e ciba di speranza buona; Ch'io non ti lascerò nel mondo basso. Così sen va, e quivi m'abbandona Lo dolce Padre, ed io rimango in forse; Chè 'l nò e 'l si nel capo mi tenzona. Udir non poté quello ch'a lor porse; Ma ei non stette là con essi guari, Chè ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porte quei nostri avversari Nel petto al mio Signor, che fuor rimase, E rivolsesi a me con passi rari. Gli occhi alla terra, e le ciglia avea rase D'ogni baldanza, e dicea ne' sospiri: Chi m'ha negate le dolenti case? Ed a me disse: Tu, perch'io m'adiri, Non sbigottir; ch' io vincerò la pruova, Qual ch'alla difension dentro s'aggiri. Questa lor tracotanza non è nuova, Chè già l'usaro a men segreta porta, La qual senza serrame ancor si truova. Sovr'essa vedestù la scritta morta; E già di quà da lei discende l'erta, Passando per li cerchj senza scorta, Tal che per lui ne fia la terra aperta. CANTO IX. ARGOMENTO Dopo alcuni impedimenti, e lo aver veduto le infernali Furie ed altri mostri, con lo ajuto d'un Angelo entra il Poeta nella città di Dite, entro la quale trova essere puniti gl' increduli dentro alcune tombe ardentissime; ed egli insieme con Virgilio passa oltre tra le sepolture e le mura della Città. uel color che viltà di fuor mi pinse, Veggendo 'l Duca mio tornare in volta, Più tosto dentro il suo nuovo ristrinse. Attento si fermò, com'uom ch'ascolta, Chè l'occhio nol potea menare a lunga, Per l'aer nero e per la nebbia folta. Pure a noi converrà vincer la punga, Cominciò ei; se non... tal ne s'offerse. Oh quanto tarda a me ch'altri quì giunga! Io vidi ben sì com'ei ricoperse Lo cominciar con l'altro che poi venne, Discende mai alcun del primo grado, Faccia 'l cammino alcun, pel quale io vado. Ver'è ch'altra fiata quaggiù fui, Congiurato da quella Eriton cruda, Che richiamava l'ombre a' corpi sui. Di poco era di me la carne nuda, Ch'ella mi fece 'ntrar dentro a quel muro, Per trarne un spirto del cerchio di Giuda. Quell'è 'l più basso luogo e 'l più oscuro, E'l più lontan dal Ciel che tutto gira: Ben so 'l cammnin; però ti fa sicuro. Questa palude, che gran puzzo spira, Cinge d'intorno la Città dolente, U' non potemo entrare omai senz'ira. Ed altro disse; ma non l'ho a mente, Perocchè l'occhio m' avea tutto tratto Vêr l'alta torre, alla cima rovente, Ove in un punto vidi dritte ratto Tre Furie infernal, di sangue tinte, Serpentelli e ceraste avean per crine, Quella che piange dal destro, è Aletto; Volgiti 'ndietro, e tien lo viso chiuso; Mi volse, e non si tenne alle mie mani, Mirate la dottrina che s'asconde Sotto 'l velame degli versi strani. E già venía su per le torbid' onde Un fracasso d'un suon pien di spavento, Per cui tremavan amendue le sponde; Non altrimenti fatto che d'un vento Impetuoso per gli avversi ardori, Che fier la selva, e senza alcun rattento Li rami schianta, abbatte, e porta i fiori, Dinanzi polveroso va superbo, E fa fuggir le fiere e gli pastori. Gli occhi mi sciolse, e disse: Or drizza 'l nerbo Biscia, per l'acqua si dileguan tutte, Fuggir cosi dinanzi ad un ch'al passo Menando la sinistra innanzi spesso; Giunse alla porta, e con una verghetta Cominciò egli in su l'orribil soglia, Ond'esta oltracotanza in voi s'alletta? Perchè ricalcitrate a quella voglia, A cui non puote 'l fin mai esser mozzo, E che più volte v'ha cresciuta doglia? Che giova nelle Fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo. Poi si rivolse per la strada lorda, E non fe motto a noi; ma fe sembiante D'uomo cui altra cura stringa e morda, Che quella di colui che gli è davante; E noi movemmo i piedi invêr la terra, Si come ad Arli, ove 'l Rodano stagna, Cosi facevan quivi d'ogni parte, Tutti gli lor coperchj eran sospesi, E fuor n'uscivan si duri lamenti, Che ben parean di miseri e d'offesi. Ed io: Maestro, quai son quelle genti Che, seppellite dentro da quell' arche, Si fan sentir coi sospiri dolenti? Ed egli a me: Qui son gli eresiarche Color seguaci d'ogni setta, e molto Più che non credi son le tombe carche. Simile qui con simile è sepolto, Ei monimenti son più e men caldi. E poi ch'alla man destra si fu vôlto, Passammo tra i martíri e gli alti spaldi. CANTO X. ARGOMENTO Bramando Dante di vedere e parlare con alcuni di quei dannati miscredenti, ne viene da Virgilio condotto a Farinata degli Uberti e a Cavalcante de' Cavalcanti; ove da Farinata ode, tra le altre cose, predirsi la cacciata sua di Firenze, e con ammirazione intende che i dannati hann o cognizione delle cose future, e non già delle presenti, se non sono avvisati e ragguagliati da quelli che vi vanno alla giornata. Ora ra sen va per uno stretto calle, Tra 'l muro della terra e gli martiri, Lo mio Maestro, ed io dopo le spalle. O virtù somma, che per gli empj giri Mi volvi, cominciai, come a te piace, Parlami, e soddisfammi a' miei desiri. La gente, che per li sepolcri giace, Potrebbesi veder? Già son levati Tutti i coperchj, e nessun guardia face. Ed egli a me: Tutti saran serrati, Quando di Josaphat qui torneranno Coi corpi che lassù hanno lasciati. Suo cimitero da questa parte hanno Con Epicuro tutti i suoi seguaci, Che l'anima col corpo morta fanno. Però alla dimanda, che mi faci, Quinc' entro soddisfatto sarai tosto, Di quella nobil patria natío, D'una dell'arche; però m'accostai, Vedi là Farinata, che s'è dritto; Dalla cintola in su tutto 'l vedrai. Io avea già 'l mio viso nel suo fitto; Ed ei s'ergea col petto e con la fronte, Come avesse lo 'nferno in gran dispitto; |