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Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri
A che e come concedette Amore
Che conosceste i dubbiosi desiri?
Ed ella a me: Nessun maggior dolore,
Che ricordarsi del tempo felice
Nella miseria; e ciò sa 'l tuo Dottore.
Ma se a conoscer la prima radice

Del nostro amor tu hai cotanto affetto,
Farò come colui che piange e dice.
Noi leggevamo un giorno, per diletto,
Di Lancilotto come Amor lo strinse:
Soli eravamo, e senza alcun sospetto.
Per più fiate gli occhi ci sospinse

Quella lettura, e scolorocci'l viso;
Ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso

Esser baciato da cotanto amante, Questi, che mai da me non fia diviso, La bocca mi baciò tutto tremante.

Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse; Quel giorno più non vi leggemmo avante. Mentre che l'uno spirto questo disse, L'altro piangeva si, che di pietade Io venni meno come s' io morisse, E caddi come corpo morto cade.

CANTO VI.

ARGOMENTO

Trovasi il Poeta, poi che in sè stesso fu ritornato, nel terzo cerchio, ove sono puniti i golosi, la cui pena è l'esser fitti nel fango, e parimente tormentati da grandissima pioggia con grandine mescolata, in guardia di Cerbero, il quale, latrando con tre bocche, di continuo gli offende ed affligge. Tra così fatti golosi trovando Ciacco, seco delle discordie di Fiorenza ragiona. Finalmente si parte per discendere nel quarto cerchio.

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tornar della mente, che si chiuse Dinanzi alla pietà de' due cognati, Che di tristizia tutto mi confuse, Nuovi tormenti e nuovi tormentati

Mi veggio intorno, come ch'io mi muova, E come ch'i' mi volga, e ch'io mi guati. Io sono al terzo cerchio della piova

Eterna, maledetta, fredda e greve;
Regola e qualità mai non l'è nuova.
Grandine grossa, ed acqua tinta e neve
Per l'aer tenebroso si riversa;
Pute la terra che questo riceve:
Cerbero, fiera crudele e diversa,
Con tre gole caninamente latra

Sovra la gente che quivi è sommersa.
Gli occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra,
El ventre largo, e unghiate le mani;
Graffia gli spirti, gli scuoja ed isquatra.
Urlar gli fa la pioggia come cani;

Dell' un de' lati fanno all'altro schermo; Volgonsi spesso i miseri profani. Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, Le bocche aperse, e mostrocci le sanne; Non avea membro che tenesse fermo.

E'l Duca mio, distese le sue spanne,

Prese la terra, e, con piene le pugna, La gittò dentro alle bramose canne. Qual è quel cane ch'abbajando agugna,

E si racqueta poi che 'l pasto morde, Chè solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer quelle facce lorde

Dello demonio Cerbero, che 'ntrona L'anime sì, ch'esser vorrebber sorde. Noi passavám su per l'ombre ch'adona La greve pioggia, e ponevám le piante Sopra lor vanità, che par persona. Elle giacean per terra tutte quante, Fuor ch'una ch'a seder si levò ratto Ch'ella ci vide passarsi davante. O tu, che se' per questo Inferno tratto, Mi disse, riconoscimi, se sai;

Tu fosti prima, ch' io disfatto, fatto. Ed io a lei L'angoscia che tu hai, Forse ti tira fuor della mia mente Sì, che non par ch'io ti vedessi mai. Ma dimmi chi tu se', che 'n si dolente

Luogo se' messa, ed a sì fatta pena, Chè s'altra è maggior, nulla è sì spiacente. Ed egli a me: La tua Città, ch'è piena D'invidia sì, che già trabocca il sacco, Seco mi tenne in la vita serena. Voi, cittadini, mi chiamaste Ciacco; Per la dannosa colpa della gola, Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco. Ed io anima trista non son sola,

Chè tutte queste a simil pena stanno Per simil colpa; e più non fe parola. Io gli risposi Ciacco, il tuo affanno

Mi pesa sì, ch'a lagrimar m'invita ; Ma dimmi, se tu sai, a che verranno Li cittadin della Città partita;

S'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione,
Perchè l'ha tanta discordia assalita.
Ed egli a me: Dopo lunga tenzone
Verranno al sangue, e la parte selvaggia
Caccerà l'altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
Infra tre Soli, e che l'altra sormonti
Con la forza di tal che testè piaggia.
Alto terrà lungo tempo le fronti,

Tenendo l'altra sotto gravi pesi,
Come che di ciò pianga e che n'adonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
Superbia, invidia ed avarizia sono
Le tre faville c'hanno i cori accesi.
Qui pose fine al lagrimabil suono.

Ed io a lui: Ancor vo' che m'insegni,
E che di più parlar mi facci dono.
Farinata e 'I Tegghiajo, che fur sì degni,
Jacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca,
E gli altri ch' a ben far poser gl'ingegni,
Dimmi ove sono, e fa ch'io gli conosca;

Chè gran desío mi stringe di sapere Se'l Ciel gli addolcia, o lo 'nferno gli attosca E quegli: Ei son tra l'anime più nere; Diversa colpa giù gli aggrava al fondo. Se tanto scendi, gli potrai vedere. Ma quando tu sarai nel dolce mondo, Pregoti ch' alla mente altrui mi rechi: Più non ti dico, e più non ti rispondo.

Gli diritti occhi torse allora in biechi;
Guardomm' un poco, e poi chinò la testa;
Cadde con essa a par degli altri ciechi.
E'l Duca disse a me: Più non si desta
Di quà dal suon dell'angelica tromba,
Quando verrà la nimica podesta.
Ciascun ritroverà la trista tomba,

Ripiglierà sua carne e sua figura,
Udirà quel che in eterno rimbomba.
Si trapassammo per sozza mistura
Dell'ombre e della pioggia a passi lenti,
Toccando un poco la vita futura.
Per ch'io dissi: Maestro, esti tormenti
Cresceranno ei dopo la gran sentenza,
O fien minori, o saran sì cocenti?
Ed egli a me: Ritorna a tua scienza,
Che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
Più sental bene, e così la doglienza.
Tuttochè questa gente maladetta

In vera perfezion giammai non vada, Di là, più che di quà, essere aspetta. Noi aggirammo a tondo quella strada, Parlando più assai ch'io non ridico: Venimmo al punto dove si digrada; Quivi trovammo Pluto, il gran nemico.

CANTO VII.

ARGOMENTO

Pervenuto Dante nel quarto cerchio, trova nell'entrata Pluto come guardiano e signor di esso cerchio. Quindi per le parole di Virgilio avendo ottenuto di passare avanti, vede i prodighi e gli avari puniti col volger l' uno contra l'altro gravissimi pesi. E di là passando nel quinto cerchio, trova nella palude Stige gl'iracondi e gli accidiosi, quelli percotendosi e molestandosi in varie guise, questi stando sommersi in essa palude; la quale avendo girata d'intorno, trovasi ultimamente appiè d'un'alta torre.

Pape Satan, pape Satan aleppe,

Cominciò Pluto con la voce chioccia. E quel Savio gentil, che tutto seppe, Disse per confortarmi: Non ti noccia

La tua paura; chè, poder ch'egli abbia, Non ti torrà lo scender questa roccia. Poi si rivolse a quella enfiata labbia, E disse: Taci, maladetto lupo; Consuma dentro te con la tua rabbia. Non è senza cagion l'andare al cupo: Vuolsi così nell'alto, ove Michele Fe la vendetta del superbo strupo. Quali dal vento le gonfiate vele Caggiono avvolte, poichè l'alber fiacca, Tal cadde a terra la fiera crudele. Così scendemmo nella quarta lacca,

Prendendo più della dolente ripa,
Che 'I mal dell'universo tutto 'nsacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
Nuove travaglie e pene, quante io viddi?
E perchè nostra colpa si ne scipa?
Come fa l'onda là sovra Cariddi,

Che si frange con quella in cui s'intoppa,
Così convien che qui la gente riddi.

Qui vidio gente più ch'altrove troppa,
E d'una parte e d'altra, con grand'urli,
Voltando pesi per forza di poppa.
Percotevansi incontro, e poscia pur li

Si rivolgea ciascun, voltando a retro,
Gridando: Perchè tieni? e perchè burli?
Così tornavan per lo cerchio tetro,

Da ogni mano, all' opposito punto, Gridandosi anche loro ontoso metro; Poi si volgea ciascun, quand'era giunto, Per lo suo mezzo cerchio, all' altra giostra. Ed io, ch'avea lo cor quasi compunto, Dissi: Maestro mio, or mi dimostra

Che gente è questa, e se tutti fur cherci Questi chercuti alla sinistra nostra. Ed egli a me: Tutti quanti fur guerci Si della mente in la vita primaja, Che con misura nullo spendio fêrci. Assai la voce lor chiaro l'abbaja,

Quando vengono ai duo punti del cerchio,
Ove colpa contraria gli dispaja.

Questi fur cherci che non han coperchio
Piloso al capo, e Papi e Cardinali,
In cui usò avarizia il suo soperchio.
Ed io: Maestro, tra questi cotali

Dovrei io ben riconoscere alcuni
Che furo immondi di cotesti mali.
Ed egli a me: Vano pensiero aduni;
La sconoscente vita, che i fe sozzi,
Ad ogni conoscenza or gli fa bruni.
In eterno verranno agli due cozzi:

Questi risurgeranno del sepulcro

Col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. Mal dare e mal tener lo mondo pulcro

Ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
Qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
De' ben che son commessi alla Fortuna,
Per che l'umana gente si rabbuffa;
Chè tutto l'oro ch'è sotto la Luna,

O che già fu, di quest' anime stanche
Non poterebbe farne posar una.
Maestro, dissi lui, or mi di' anche:

Questa Fortuna, di che tu mi tocche,
Che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?
E quegli a me: Oh creature sciocche,
Quanta ignoranza è quella che v'offende!
Or vo' che tutti mia sentenza imbocche.
Colui, lo cui saver tutto trascende,

Fece li cieli, e diè lor chi conduce,
Si ch'ogni parte ad ogni parte splende,
Distribuendo ugualmente la luce.

Similemente agli splendor mondani
Ordinò general ministra e duce,
Che permutasse a tempo li ben vani

Di gente in gente, e d'uno in altro sangue, Oltre la difension de' senni umani. Per che una gente impera, e l'altra langue, Seguendo lo giudicio di costei,

Che è occulto come in erba l'angue. Vostro saver non ha contrasto a lei:

Ella provvede, giudica e persegue Suo regno, come il loro gli altri Dei. Le sue permutazion non hanno triegue; Necessità la fa esser veloce;

Si spesso vien chi vicenda consegue.

Quest'è colei ch'è tanto posta in croce
Pur da color che le dovrían dar lode,
Dandole biasmo a torto e mala voce.
Ma ella s'è beata, e ciò non ode;
Con l'altre prime creature lieta
Volve sua spera, e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior piéta;
Già ogni stella cade, che saliva

Quando mi mossi, e 'l troppo star si vieta.
Noi ricidemmo 'l cerchio all'altra riva,
Sovr'una fonte che bolle, e riversa
Per un fossato che da lei diriva.
L'acqua era buja molto più che persa;
E noi in compagnia dell'onde bige
Entrammo giù per una via diversa.
Una palude fa, c'ha nome Stige,

Questo tristo ruscel, quando è disceso
Al piè delle maligne piagge grige.
Ed io, che di mirar mi stava inteso,
Vidi genti fangose in quel pantano,
Ignude tutte e con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
Ma con la testa e col petto e co' piedi,

Troncandosi co' denti a brano a brano.
Lo buon Maestro disse: Figlio, or vedi
L'anime di color cui vinse l'ira;

Ed anche vo' che tu per certo credi
Che sotto l'acqua ha gente che sospira,
E fanno pullular quest'acqua al summo,
Come l'occhio ti dice u' che s'aggira.
Fitti nel limo dicon: Tristi fummo

Nell'aer dolce che dal Sol s'allegra,
Portando dentro accidioso fummo;
Or ci attristiam nella belletta negra.
Questo inno si gorgoglian nella strozza,
Chè dir nol posson con parola intégra.
Cosi girammo della lorda pozza

Grand'arco tra la ripa secca e 'l mezzo, Con gli occhi vôlti a chi del fango ingozza: Venimmo appiè d'una torre al dassezzo.

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Ed egli a me: Su per le sucide onde

Già puoi scorgere quello che s'aspetta, Se 'l fumino del pantan nol ti nasconde. Corda non pinse mai da sè saetta

Che si corresse via per l'aer snella, Com'i' vidi una nave piccioletta Venir per l'acqua verso noi in quella, Sotto 'l governo d'un sol galeoto Che gridava: Or se' giunta, anima fella? Flegiás, Flegiás, tu gridi a vôto,

Disse lo mio Signore, a questa volta;
Più non ci avrai, se non passando il loto.
Quale colui che grande inganno ascolta
Che gli sia fatto, e poi se ne rammarca,
Tal si fe Flegias nell'ira accolta.

Lo Duca mio discese nella barca,
E poi mi fece entrare appresso lui;
E sol quand' io fui dentro parve carca.
Tosto che 'l Duca ed io nel legno fui,
Segando se ne va l'antica prora
Dell'acqua più che non suol con altrui,
Mentre noi correvám la morta gora,

Dinanzi mi si fece un pien di fango,
E disse: Chi se' tu, che vieni anzi ora?
Ed io a lui: S'io vegno, non rimango;

Ma tu chi se', che si se' fatto brutto?
Rispose: Vedi che son un che piango.
Ed io a lui: Con piangere e con lutto,
Spirito maladetto, ti rimani;

Ch'io ti conosco, ancor sie lordo tutto. Allora stese al legno ambe le mani;

Per che'l Maestro accorto lo sospinse,
Dicendo: Via costà con gli altri cani.
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
Baciommi'l volto, e disse: Alma sdegnosa,
Benedetta colei che 'n te s'incinse.

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
Bontà non è, che sua memoria fregi;
Cosi è l'ombra sua qui furiosa.
Quanti si tengon or lassù gran Regi,
Che qui staranno come porci in brago,
Di se lasciando orribili dispregi!.
Ed io: Maestro, molto sarei vago
Di vederlo attuffare in questa broda,
Prima che noi uscissimo del lago.
Ed egli a me: Avanti che la proda
Ti si lasci veder, tu sarai sazio;
Di tal disío converrà che tu goda.
Dopo ciò poco vidi quello strazio

Far di costui alle fangose genti,
Chè Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: A Filippo Argenti.
E il Fiorentino spirito bizzarro
In sè medesmo si volgea co' denti.
Quivi 'l lasciammo; chè più non ne narro.
Ma negli orecchi mi percosse un duolo;
Per ch' io avanti intento l'occhio sbarro.
E' buon Maestro disse: Omai, figliuolo,
S'a
'appressa la città c'ha nome Dite,
Coi gravi cittadin, col grande stuolo.
Ed io: Maestro, già le sue meschite
Là entro certo nella valle cerno
Vermiglie, come se di fuoco uscite
Fossero. Ed ei mi disse: Il fuoco eterno,
Ch'entro l'affuoca, le dimostra rosse,
Come tu vedi in questo basso 'nferno.

Noi pur giugnemmo dentro all'alte fosse
Che vallan quella terra sconsolata;
Le mura mi parean che ferro fosse.
Non senza prima far grande aggirata,
Venimmo in parte, dove 'l nocchier, forte,
Uscite, ci gridò, qui è l'entrata.
Io vidi più di mille in su le porte

Dal Ciel piovuti, che stizzosamente
Dicean: Chi è costui, che senza morte
Va per lo regno della morta gente?
E' savio mio Maestro fece segno
Di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno,
E disser: Vien tu solo, e quei sen vada,
Che si ardito entrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:

Pruovi, se sa; chè tu qui rimarrai,
Che scôrto l'hai per si buja contrada.
Pensa, Lettore, s'io mi sconfortai

Nel suon delle parole maladette;
Chè non credetti ritornarci mai.
O caro Duca mio, che più di sette
Volte m' hai sicurtà renduta, e tratto
D'alto periglio che 'ncontra mi stette,
Non mi lasciar, diss'io, così disfatto;

E se l'andar più oltre m'è negato,
Ritroviam l'orme nostre insieme ratto.
E quel Signor, che li m'avea menato,

Mi disse: Non temer, chè 'l nostro passo Non ci può torre alcun; da Tal n'è dato. Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso

Conforta e ciba di speranza buona; Ch'io non ti lascerò nel mondo basso. Così sen va, e quivi m'abbandona

Lo dolce Padre, ed io rimango in forse; Chè 'l nò e 'l si nel capo mi tenzona. Udir non poté quello ch'a lor porse; Ma ei non stette là con essi guari, Chè ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porte quei nostri avversari Nel petto al mio Signor, che fuor rimase, E rivolsesi a me con passi rari. Gli occhi alla terra, e le ciglia avea rase D'ogni baldanza, e dicea ne' sospiri: Chi m'ha negate le dolenti case? Ed a me disse: Tu, perch'io m'adiri, Non sbigottir; ch' io vincerò la pruova, Qual ch'alla difension dentro s'aggiri. Questa lor tracotanza non è nuova,

Chè già l'usaro a men segreta porta, La qual senza serrame ancor si truova. Sovr'essa vedestù la scritta morta;

E già di quà da lei discende l'erta, Passando per li cerchj senza scorta, Tal che per lui ne fia la terra aperta.

CANTO IX.

ARGOMENTO

Dopo alcuni impedimenti, e lo aver veduto le infernali Furie ed altri mostri, con lo ajuto d'un Angelo entra il Poeta nella città di Dite, entro la quale trova essere puniti gl' increduli dentro alcune tombe ardentissime; ed egli insieme con Virgilio passa oltre tra le sepolture e le mura della Città.

uel color che viltà di fuor mi pinse, Veggendo 'l Duca mio tornare in volta, Più tosto dentro il suo nuovo ristrinse. Attento si fermò, com'uom ch'ascolta,

Chè l'occhio nol potea menare a lunga, Per l'aer nero e per la nebbia folta. Pure a noi converrà vincer la punga,

Cominciò ei; se non... tal ne s'offerse. Oh quanto tarda a me ch'altri quì giunga! Io vidi ben sì com'ei ricoperse

Lo cominciar con l'altro che poi venne,
Che fur parole alle prime diverse.
Ma nondimen paura il suo dir dienne,
Perch'io traeva la parola tronca
Forse a peggior sentenza ch'e' non tenne.
In questo fondo della trista conca

Discende mai alcun del primo grado,
Che sol per pena ha la speranza cionca?
Questa question fec'io; e quei: Di rado
Incontra, mi rispose, che di nui

Faccia 'l cammino alcun, pel quale io vado. Ver'è ch'altra fiata quaggiù fui,

Congiurato da quella Eriton cruda, Che richiamava l'ombre a' corpi sui. Di poco era di me la carne nuda,

Ch'ella mi fece 'ntrar dentro a quel muro, Per trarne un spirto del cerchio di Giuda. Quell'è 'l più basso luogo e 'l più oscuro,

E'l più lontan dal Ciel che tutto gira: Ben so 'l cammnin; però ti fa sicuro. Questa palude, che gran puzzo spira,

Cinge d'intorno la Città dolente,

U' non potemo entrare omai senz'ira. Ed altro disse; ma non l'ho a mente,

Perocchè l'occhio m' avea tutto tratto Vêr l'alta torre, alla cima rovente, Ove in un punto vidi dritte ratto

Tre Furie infernal, di sangue tinte,
Che membra femminili avean ed atto,
E con idre verdissime eran cinte;

Serpentelli e ceraste avean per crine,
Onde le fiere tempie eran avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
Della Regina dell'eterno pianto,
Guarda, mi disse, le feroci Erine.
Quest'è Megera, dal sinistro canto;

Quella che piange dal destro, è Aletto;
Tesifone è nel mezzo: e tacque a tanto.
Con l'unghie si fendea ciascuna il petto,
Batteansi a palme, e gridavan si alto,
Ch'i' mi strinsi al Poeta per sospetto.
Venga Medusa, si 'l farem di smalto,
Gridavan tutte, riguardando in giuso;
Mal non vengiammo in Teseo l'assalto

Volgiti 'ndietro, e tien lo viso chiuso;
Chè se'l Gorgon si mostra, e tu 'l vedessi,
Nulla sarebbe del tornar mai suso.
Cosi disse 'l Maestro; ed egli stessi

Mi volse, e non si tenne alle mie mani,
Chè con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi ch'avete gl'intelletti sani,

Mirate la dottrina che s'asconde Sotto 'l velame degli versi strani. E già venía su per le torbid' onde

Un fracasso d'un suon pien di spavento, Per cui tremavan amendue le sponde; Non altrimenti fatto che d'un vento

Impetuoso per gli avversi ardori,

Che fier la selva, e senza alcun rattento Li rami schianta, abbatte, e porta i fiori, Dinanzi polveroso va superbo,

E fa fuggir le fiere e gli pastori.

Gli occhi mi sciolse, e disse: Or drizza 'l nerbo
Del viso su per quella schiuma antica,
Per indi ove quel fummo è più acerbo.
Come le rane, innanzi alla nimica

Biscia, per l'acqua si dileguan tutte,
Fin ch'alla terra ciascuna s'abbíca,
Vid' io più di mille anime distrutte

Fuggir cosi dinanzi ad un ch'al passo
Passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell'aer grasso,

Menando la sinistra innanzi spesso;
E sol di quell'angoscia parea lasso.
Ben m'accorsi ch'egli era del Ciel Messo,
E volsimi al Maestro; e quei fe segno
Ch'io stessi cheto, ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!

Giunse alla porta, e con una verghetta
L'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.
O cacciati del Ciel, gente dispetta,

Cominciò egli in su l'orribil soglia, Ond'esta oltracotanza in voi s'alletta? Perchè ricalcitrate a quella voglia,

A cui non puote 'l fin mai esser mozzo, E che più volte v'ha cresciuta doglia? Che giova nelle Fata dar di cozzo?

Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo. Poi si rivolse per la strada lorda,

E non fe motto a noi; ma fe sembiante D'uomo cui altra cura stringa e morda, Che quella di colui che gli è davante;

E noi movemmo i piedi invêr la terra,
Sicuri appresso le parole sante.
Dentro v'entrammo senza alcuna guerra;
Ed io, ch'avea di riguardar disío
La condizion che tal fortezza serra,
Come fui dentro, l'occhio attorno invío,
E veggio ad ogni man grande campagna,
Piena di duolo e di tormento rio.

Si come ad Arli, ove 'l Rodano stagna,
Si come a Pola presso del Quarnaro,
Che Italia chiude e i suoi termini bagna,
Fanno i sepolcri tutto 'l loco varo;

Cosi facevan quivi d'ogni parte,
Salvo che 'l modo v'era più amaro;
Chè tra gli avelli fiamme erano sparte,
Per le quali eran si del tutto accesi,
Che ferro più non chiede verun'arte.

Tutti gli lor coperchj eran sospesi,

E fuor n'uscivan si duri lamenti, Che ben parean di miseri e d'offesi. Ed io: Maestro, quai son quelle genti Che, seppellite dentro da quell' arche, Si fan sentir coi sospiri dolenti? Ed egli a me: Qui son gli eresiarche Color seguaci d'ogni setta, e molto Più che non credi son le tombe carche. Simile qui con simile è sepolto,

Ei monimenti son più e men caldi. E poi ch'alla man destra si fu vôlto, Passammo tra i martíri e gli alti spaldi.

CANTO X.

ARGOMENTO

Bramando Dante di vedere e parlare con alcuni di quei dannati miscredenti, ne viene da Virgilio condotto a Farinata degli Uberti e a Cavalcante de' Cavalcanti; ove da Farinata ode, tra le altre cose, predirsi la cacciata sua di Firenze, e con ammirazione intende che i dannati hann o cognizione delle cose future, e non già delle presenti, se non sono avvisati e ragguagliati da quelli che vi vanno alla giornata.

Ora

ra sen va per uno stretto calle, Tra 'l muro della terra e gli martiri, Lo mio Maestro, ed io dopo le spalle. O virtù somma, che per gli empj giri

Mi volvi, cominciai, come a te piace, Parlami, e soddisfammi a' miei desiri. La gente, che per li sepolcri giace, Potrebbesi veder? Già son levati Tutti i coperchj, e nessun guardia face. Ed egli a me: Tutti saran serrati,

Quando di Josaphat qui torneranno Coi corpi che lassù hanno lasciati. Suo cimitero da questa parte hanno Con Epicuro tutti i suoi seguaci, Che l'anima col corpo morta fanno. Però alla dimanda, che mi faci,

Quinc' entro soddisfatto sarai tosto,
Ed al disio ancor che tu mi taci.
Ed io: Buon Duca, non tegno nascosto
A te mio cor, se non per dicer
poco;
E tu m'hai non pur ora a ciò disposto.
O Tosco, che per la Città del foco
Vivo ten vai così parlando onesto,
Piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto

Di quella nobil patria natío,
Alla qual forse fui troppo molesto.
Subitamente questo suono uscio

D'una dell'arche; però m'accostai,
Temendo, un poco più al Duca mio.
Ed ei mi disse: Volgiti; che fai?

Vedi là Farinata, che s'è dritto; Dalla cintola in su tutto 'l vedrai. Io avea già 'l mio viso nel suo fitto; Ed ei s'ergea col petto e con la fronte, Come avesse lo 'nferno in gran dispitto;

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