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VITA

DI

DANTE ALLIGHIERI

SCRITTA

DA PIERANTONIO SERASSI

Nacque Dante negli anni di Cristo 1265,

poco dopo la tornata de' Guelfi in Firenze, stati in esilio per la sconfitta di Monteaperto. Nella fanciullezza sua nutrito nobilmente, e dato a' precettori delle lettere, subito apparve in lui un ingegno grandissimo, e molto atto a cose eccellenti. Il padre suo Aldighiero degli Elisei perdette nella sua puerizia: nientedimeno confortato da' parenti, e da Brunetto Latini valentissimo uomo, secondo quel tempo, non solamente alla letteratura, ma agli studj liberali si diede; niente lasciando indietro, che appartener potesse a rendere l'uomo singolare ed illustre. Nè per tutto questo si racchiuse in ozio, nè privossi del secolo; ma vivendo e conversando con gli altri giovani di sua età, costumato ed accorto e valoroso ad ogni esercizio giovanile si trovava; intantochè in quella battaglia memorabile e grandissima, che fu a Campaldino, ei giovane e bene stimato si trovò nell'armi combattendo valorosamente a cavallo nella prima schiera, dove portò gravissimo pericolo. Dopo questa battaglia tornato Dante a casa, agli studj più ferventemente che prima si diede, e nondimanco niente tralasciò delle conversazioni urbane e civili. In sua giovanezza prese moglie, e fu una gentildonna della famiglia de' Donati, chiama

ta per nome Madonna Gemma, dalla qua

le ebbe più figliuoli. Ben è vero che sin da' più teneri anni erasi innamorato perdutamente di Beatrice, figliuola di Folco Portinari, donzella di singolari virtù

e di rara bellezza; la quale avendo nel più bel fiore dell'età sua abbandonato questa vita mortale, lasciò Dante in un estremo cordoglio; nè mai, sinchè visse, si potè dimenticare di lei: anzi, per eternarne la memoria, la introdusse sotto nome di Bice nella sua grand' Opera. Intanto cominciò ad essere adoperato negli uffici della Repubblica; e pervenuto al trentesimoquinto anno, fu creato de' Priori, non per sorte, come s'usò dappoi, ma per elezione, come in quel tempo si costumava di fare. Da questo priorato nacque la cacciata sua, e tutte le cose avverse ch'egli dovette sostenere nella sua vita, secondochè egli medesimo scrive in una sua lettera. Perciocchè essendosi in Firenze acceso il foco delle fazioni Bianca e Nera, e trovandosi perciò la città tutta sollevata e sospesa, si tenne certo trattato per la parte de' Neri, che per opera di Papa Bonifazio VIII. si facesse venir Carlo di Valois, de' Reali di Francia, a pacificare i cittadini, e a riformare lo stato della Repubblica. Il che scopertosi dall'altra parte de' Bianchi, misero la città a romore; e, prese l'armi, n'andarono a' Priori, accusando questa deliberazione fatta con privato consiglio, e dimandando castigo d'un si prosontuoso eccesso. Quelli che aveano tenuto il trattato, temendo ancora essi, pigliarono l'armi; e appresso a' Priori si dolsero degli avversarj, che senza autorità pubblica si fossero armati e fortificati, affermando che sotto varj colori tentavano di cacciarli ; e però dimanda

VITA

vano anch'essi che costoro fossero puniti, siccome turbatori della quiete pubblica. L'una parte e l'altra di fanti e di partigiani fornite si erano; la paura, il terrore e il pericolo era grandissimo: onde i Priori vedendo la città in armi in travagli, per consiglio di Dante for-' tificatisi, mandarono a' confini i princi pali delle due sette: i Neri al castello della Pieve nel territorio di Perugia, e i Bianchi a Serazzana. Questo diede gravezza assai a Dante; e contuttochè egli si scusi come uomo di niun partito, nientedimanco fu riputato ch' ei pendesse in parte Bianca, e che gli spiacesse il concilio tenuto di chiamar Carlo di Valois a Firenze, come materia di scandalo e di guai alla città. Si accrebbe poi a dismisura l'odio contro di lui allorchè videsi la parte Bianca ritornar quasi subito a Firenze, e l'altra rimanersi indegnamente di fuori. In un tale tumulto venne Carlo, il quale essendo, per riverenza del Papa e della Casa di Francia, onorevolmente ricevuto nella città, di subito rimise dentro i cittadini confinati, e appresso per varie cagioni cacciò la parte Bianca. Intanto si fece cesso contro de' Priori passati; e dal Conte de' Gabrielli, allor Podestà di Firenze, fu citato Dante, che si trovava a Roma ambasciatore al Papa per offerire la concordia e la pace de' cittadini: il quale non comparendo, fu condannato e sbandito, e pubblicati i suoi beni, contuttochè prima dalla contraria fazione rubati e guasti. Sentita Dante la sua.rovina, subito partì di Roma; e, camminando con gran celerità, ne venne a Siena. Quivi intesa più chiaramente la sua disgrazia, non vedendo alcun riparo, si accozzò cogli altri usciti, i quali fermaron la sedia loro ad Arezzo; e quivi fatto campo grosso, crearono loro Capitano il Conte Alessandro da Romena; feron dodici Consiglieri, del numero de' quali fu Dante: e di speranza in speranza stettero infino all'anno mille trecento quattro; e allora fatto sforzo grandissimo d'ogni loro amistà, ne vennero per rientrare in Firenze con grandissima moltitudine, la quale non solamente da Arezzo, ma da Bologna e da Pistoja con loro giunta si era: e giugnendo improvvisi, subito presero una

pro

porta di Firenze, e vinsero parte della terra; ma finalmente bisognò se n'andassero senza frutto alcuno. Fallita dunque questa tanta speranza, non parendo a Dante più da perder tempo, parti d'Arezzo, e andossene a Verona, dove ricevuto molto cortesemente da' Signori della Scala, con loro fece dimora alcun tempo, e ridussesi tutto a umiltà, cercando con buone opere e con buoni portamenti riacquistare la grazia di poter tornare in Firenze per ispontanea rivocazione di chi reggeva la terra; e sopra questa parte s'affaticò assai, e scrisse più volte non solamente a particolari cittadini del reggimento, ma ancora al popolo. Ma vedendo più di giorno in giorno venir vana la speranza, abbandonata l'Italia, se ne andò a Parigi; e quivi tutto si diede allo studio della filosofia e teología, ritornando ancora in sè delle altre scienze ciò che forse per altri impedimenti avuti se n'era partito. Ed in ciò il tempo studiosamente spendendo, avvenne che fu eletto Imperadore Arrigo di Luzimburgo; per la cui elezione prima, e poi per la passata sua, essendo tutta Italia sollevata in isperanza di grandissime novità, Dante non potè tener il proposito suo dell'aspettare la grazia; ma levatosi coll'animo altiero, co. minciò a dir male di quelli che reggevano la terra, appellandoli scellerati e cattivi, minacciando loro la debita vendetta per la potenza dell' Imperadore, contro la quale diceva essere manifesto che essi non avrebbon potuto avere scampo alcuno. Pure il tenne tanto la riverenza della patria, che venendo I'Imperadore contro Firenze, e ponendosi a campo presso alla porta, non vi volle essere, secondo ch'ei scrive, contuttochè confortatore fosse stato di sua venuta. Morto poi l' Imperadore Arrigo, il quale nella seguente state mancò a Buonconvento, ogni speranza al tutto fu perduta da Dante; perocchè egli medesimo si avea tolta la via della grazia per lo sparlare e scrivere contro a' cittadini che governavano la Repubblica; e forza non ci restava, per la quale più sperar potesse. Sicchè, deposta ogni speranza, povero assai trapassò il resto di sua vita, dimorando in varj luoghi per

Lombardía, per Toscana e per Romagna, sotto il sussidio di varj signori: per infino che finalmente si ridusse a Ravenna, ove da Guido Novello di Polenta, signore di quella città, fu onorevolmente ricevuto; e con piacevoli conforti sollevato lo abbattuto animo, copiosamente le cose opportune donandogli, seco per più anni il tenne, anzi sino all'ultimo della vita di lui. Mori Dante li 14 di settembre del 1321, nel cinquantesimosesto anno dell'età sua, con grandissimo dolore del sopraddetto Guido e di tutti i cittadini Ravegnani, dopo di avere, secondo la religione Cristiana, ogni ecclesiastico sagramento umilmente e con vera divozione ricevuto. Fece il magnifico Cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamenti poetici sopra a funebre letto adornare; e quello fatto portare sopra gli omeri de' suoi cittadini più solenni insino al luogo de' Frati Minori di Ravenna con quello onore che a sì fatto corpo degno stimava, in un' arca di pietra, che ancor si vede, il fece porre. Fu Dante uomo molto pulito, di statura convenevole, di grato aspetto, e pieno di gravità. Il colore era bruno, i capelli e la barba spessi e neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso. Parlaya assai rado e tardo; ma nelle sue risposte fu molto sottile e piacevole. Franco Sacchetti racconta, che andando Dante per qualche sua faccenda, udi un fabbro, che al suono dell'incudine cantava scioccamente una canzone di lui, smozzicando e appiccando i versi in guisa, che a Dante pareva ricevere grandissima ingiuria. Onde entrato nella bottega, cominciò a gettar per la via le masserizie e i ferramenti di quel goffo. Del che maravigliandosi il fabbro, e dicendogli che diavol faceva, e se era impazzato, Dante gli dimandò altresì che faceva egli; e il fabbro disse: Fo l'arte mia; e voi guastate i miei ferri, gettandoli per la via. Al che Dante rispose: Se tu non vuogli che io guasti le cose tue, non guastar tu le mie. Disse il fabbro: Oh! che vi guast' io? Disse Dante: Tu canti il mio libro, e non lo di' com' io lo feci; io non ho altr'arte, e tu me la guasti. Ancora racconta, che passeggiando Dante per Firenze, scon

trò un asinajo che andava dietro a' suoi asini cantando il libro di lui; e quando avea cantato un pezzo, toccava l'asino, e diceva: Arri. Il che udendo Dante, gli diede una grande batacchiata su le spalle, dicendo: Cotesto arri non vi mis' io. Colui non sapeva nè chi si fosse Dante, nè perchè gli desse; se non che, dilungatosi un poco, si volse a Dante, cavando la lingua e facendogli con la mano la fica, dicendo: Togli. Dante, veduto costui, disse: Io non ti darei una delle mie per cento delle tue. La quale certo fu savia risposta assai a un così vile uomo. Dilettossi Dante ancora di musica e di suoni; e di sua mano egregiamente disegnava, e scriveva con caratteri bellissimi. Praticò ne' suoi verdi anni con giovani innamorati, e fu anch' egli, come dicemmo, preso da simile passione, non per libidine, ma per gentilezza di cuore; e sin dalla più fresca età versi d'amore a scrivere cominciò, come si può vedere in una sua operetta volga

re,

che si chiama Vita Nuova. Lo studio suo principalmente fu poesía, non isterile nè povera nè fantastica, ma fecondata e irricchita e stabilita da vera scienza e da molte discipline; onde soverchiò di gran lunga quanti innanzi a lui scrissero in rima. La sua Commedia è veramente maravigliosa, e merita il titolo di divina per l'ampiezza l'ampiezza e gravità della materia, per la grandezza del suo dire prudente, sentenzioso e magnifico, per la varietà e copia mirabile delle scienze e delle cognizioni che vi s'incontrano. Questa sua principale Opera cominciò Dante avanti la cacciata sua, e di poi in esilio la finì, come per essa Opera si può vedere apertamente. Scrisse ancora canzoni morali e sonetti. Le canzoni sue sono perfette e limate e leggiadre, e piene d'alte sentenze; e tutte hanno generosi cominciamenti, siccome quella che comincia:

Amor, che muovi tua virtù dal cielo, Come il Sol lo splendore; dove fa comparazione filosofica e sottile intra gli effetti del Sole e gli effetti d'Amore. E l'altra che comincia:

Tre donne intorno al cor mi son venute. E l'altra che comincia:

Donne, che avete intelletto d'Amore.

E così in molte altre canzoni è sottile, limato e scientifico. Nei sonetti non è di tanta virtù. Queste sono l' Opere sue volgari. In latino scrisse in prosa e in versi. In prosa un libro chiamato Monarchia, il quale è scritto in un modo disadorno, e senza niuna gentilezza di

dire. Scrisse ancora un altro libro intitolato De vulgari eloquio, che fu poi traslato in italiano e pubblicato dal Trissino. Ancora scrisse molte epistole in prosa. In versi scrisse alcune egloghe, e 'l principio del libro suo in versi eroici; ma, non gli riuscendo lo stile, non lo seguì.

DELL' INFERNO

CANTO I.

ARGOMENTO

Mostra il Poeta, che essendo smarrito in una oscurissima selva, ed impedito da alcune fiere di salire ad un colle, fu sopraggiunto da Virgilio, il quale gli promette di fargli vedere le pene dell'Inferno, di poi il Purgatorio, e che in ultimo sarebbe da Beatrice condotto nel Paradiso. Ed egli seguitò Virgilio.

Nel

el mezzo del cammin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura,
Chè la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
Questa selva selvaggia ed aspra e forte,
Che nel pensier rinnova la paura!
Tanto è amara, che poco è più morte.
Ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
Dirò dell'altre cose ch' io v'ho scorte.
I' non so ben ridir com'io v'entrai;

Tant'era pien di sonno in su quel punto,
Che la verace via abbandonai.

Ma po' ch' io fui al piè d'un colle giunto,
La ove terminava quella valle
Che m'avea di paura il cor compunto,
Guardai in alto, e vidi le sue spalle
Vestite già de' raggi del pianeta
Che mena dritto altrui per ogni calle.
Allor fu la paura un poco queta,

Che nel lago del cor m'era durata
La notte ch'i' passai con tanta piéta.
E come quei che, con lena affannata
Uscito fuor del pelago alla riva,

Si volge all'acqua perigliosa, e guata; Così l'animo mio, che ancor fuggiva,

Si volse 'ndietro a rimirar lo passo, Che non lasciò giammai persona viva. Poi ch' ebbi riposato 'l corpo lasso, Ripresi via per la piaggia diserta;

Si che 'l piè fermo sempre era 'l più basso. Ed ecco, quasi al cominciar dell' erta, Una lonza leggiera e presta molto, Che di pel maculato era coperta. E non mi si partía dinanzi al volto; Anzi 'mpediva tanto 'l mio cammino, Ch'i' fui, per ritornar, più volte vôlto. Temp'era dal principio del mattino,

El Sol montava in su con quelle stelle
Ch' eran con lui quando l' Amor divino
Mosse da prima quelle cose belle;

Sì ch'a bene sperar m' era cagione
Di quella fera la gajetta pelle,
L'ora del tempo e la dolce stagione ;
Ma non sì, che paura non mi desse
La vista, che m'apparve, d'un leone.

Questi parea che contra me venesse
Con la test' alta e con rabbiosa fame,
Si che parea che l'aer ne temesse.
Ed una lupa che di tutte brame
Sembiava carca nella sua magrezza,
E molte genti fe già viver grame.
Questa mi porse tanto di gravezza,

Con la paura ch' uscía di sua vista,
Ch'i' perdei la speranza dell'altezza.

E quale è quei che volentieri acquista,
E giunge 'l tempo che perder lo face,
1
Che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista;
Tal mi fece la bestia senza pace,

Che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
Mi ripingeva là dove 'l Sol tace.
Mentre ch'io ritornava in basso loco,
Dinanzi agli occhi mi si fu offerto
Chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto:
Miserere di me, gridai a lui,

Qual che tu sii, od ombra od uomo certo. Risposemi: Non uom; uomo già fui, E li parenti miei furon Lombardi, E Mantovani per patria amendui. Nacqui sub Julio, ancorché fosse tardi, E vissi a Roma sotto'l buono Augusto Al tempo degli Dei falsi e bugiardi. Poeta fui, e cantai di quel giusto Figliuol d'Anchise, che venne da Troja Poi che 'l superbo Ilion fu combusto. Ma tu perchè ritorni a tanta noja?

Perchè non sali il dilettoso monte,
Ch'è principio e cagion di tutta gioją?
Oh! se' tu quel Virgilio, e quella fonte
Che spande di parlar sì largo fiume?
Risposi lui con vergognosa fronte.

O degli altri poeti onore e lume,
Vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore,

Che m'han fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
Tu se' solo colui, da cu' io tolsi
Lo bello stile che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia, per cu' io mi volsi:
Ajutami da lei, famoso Saggio,
Ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi.
A te convien tener altro viaggio,
Rispose, poichè lagrimar mi vide,
Se vuoi campar d'esto loco selvaggio.
Chè questa bestia, per la qual tu gride,
Non lascia altrui passar per la sua via;
Ma tanto lo 'mpedisce, che l' uccide.
Ed ha natura si malvagia e ria,

Che mai non empie la bramosa voglia,
E dopo 'l pasto ha più fame, che pria.
Molti son gli animali a cui s' ammoglia;
E più saranno ancora, infin che 'l Veltro
Verrà, che la farà morir di doglia.

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