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Questi è Rinier; quest' è 'l pregio e l'onore
Della casa da Calboli, ove nullo
Fatto s'è reda poi del suo valore.
E non pur lo suo sangue è fatto brullo,
Tra 'Ï Pò e 'l monte e la marina e 'l Reno,
Del ben richiesto al vero ed al trastullo;
Chè dentro a questi termini è ripieno
Di venenosi sterpi, sì che tardi,
Per coltivare, omai verrebber meno.
Ov'è 'l buon Licio, ed Arrigo Manardi,
Pier Traversaro, e Guido di Carpigna?
Oh Romagnuoli tornati in bastardi!
Quando in Bologna un Fabbro si ralligna;
Quando 'n Faenza un Bernardin di Fosco,
Verga gentil di picciola gramigna.
Non ti maravigliar s'io piango, Tosco,

Quando rimembro con Guido da Prata
Ugolin d'Azzo, che vivette nosco;.
Federigo Tignoso, e sua brigata;

La casa Traversara, e gli Anastagi;
E l'una gente e l'altra è diretata;
Le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi
Che ne 'nvogliava amore e cortesía
Là dove i cuor son fatti si malvagi.
O Brettinoro, chè non fuggi via,

Poichè gita se n'è la tua famiglia
E molta gente, per non esser ria?
Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;

E mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
Che di figliar tai Conti più s'impiglia.
Ben faranno i Pagan, quando 'l Demonio
Lor sen girà; ma non però che puro
Giammai rimanga d'essi testimonio.
O Ugolin de' Fantoli, sicuro

È il nome tuo, dacchè più non s'aspetta
Chi far lo possa, tralignando, oscuro.
Ma va via, Tosco, omai; ch' or mi diletta
Troppo di pianger più, che di parlare:
Si m'ha nostra region la mente stretta.
Noi sapavám che quell' anime care

Ci sentivano andar; però, tacendo,
Facevan noi del cammin confidare.
Poi fummo fatti soli procedendo,

Folgore parve, quando l' aer fende,
Voce che giunse di contra, dicendo:
Anciderammi qualunque m' apprende.

E fuggio come tuon che si dilegua,
Se subito la nuvola scoscende.
Come da lei l'udir nostro ebbe tregua,
Ed ecco l'altra con sì gran fracasso,
Che somigliò tonar che tosto segua:
Io sono Aglauro, che divenni sasso.

Ed allor, per istringermi al Poeta,
Indietro feci e non innanzi 'l passo.
Già era l'aura d'ogni parte queta;

Ed el mi disse: Quel fu il duro camo Che dovría l'uom tener dentro a sua meta. Ma voi prendete l'esca, si che l'amo Dell' antico avversario a sè vi tira; E però poco val freno o richiamo. Chiamavi 'I Cielo, e 'ntorno vi si gira, Mostrandovi le sue bellezze eterne; E l'occhio vostro pure a terra mira: Onde vi batte chi tutto discerne,

CANTO XV.

ARGOMENTO

In questo canto dimostra Dante, che da un Angelo furono indirizzati per le scale che sagliono sul terzo balzo, dove si punisce l'ira; e che furono oppressi da un gran fumo, il quale fece che più oltre non poterono vedere.

Quanto,

uanto, tra l'ultimar dell' ora terza
El principio del dì, par della spera
Che sempre, a guisa di fanciullo, scherza;
Tanto pareva già invêr la sera

Essere al Sol del suo corso rimaso:
Vespero là, e qui mezza notte era.
E i raggi ne ferían per mezzo 'l naso,
Perchè per noi girato era si 'l monte,
Che già dritti andavamo invêr l'occaso;
Quand' io senti' a me gravar la fronte

Allo splendore assai più che di prima,
E stupor m' eran le cose non conte.
Ond' io levai le mani invêr la cima

Delle mie ciglia, e fecimi 'l solecchio,
Che del soverchio visibile lima.
Come quando dall' acqua o dallo specchio
Salta lo raggio in opposita parte,
Salendo su per lo modo parecchio
A quel che scende; e tanto si diparte
Dal cader della pietra in igual tratta,
Si come mostra esperienza e arte:
Così mi parve da luce, rifratla

Ivi dinanzi a me, esser percosso;
Per ch'a fuggir la vista mia fu ratta.
Che è quel, dolce Padre, a che non posso
Schermar lo viso, tanto che mi vaglia,
Diss' io, e pare invêr noi esser mosso?
Non ti maravigliar s' ancor t'abbaglia

La famiglia del Cielo, a me rispose:
Messo è che viene ad invitar ch' uom saglia.
Tosto sarà ch'a veder queste cose

Non ti fia grave; ma fieti diletto,
Quanto natura a sentir ti dispose.
Poi giunti fummo all' Angel benedetto,
Con lieta voce disse: Entrate quinci
Ad un scaléo vie men che gli altri eretto.
Noi montavamo, già partiti linci,

E Beati misericordes fue
Cantato retro; e, godi tu che vinci.
Lo mio Maestro ed io soli amendue
Suso andavamo; ed io pensai, andando,
Prode acquistar nelle parole sue;

E dirizzámi a lui si dimandando:
Che volle dir lo spirto di Romagna,
E divieto e consorto menzionando?
Per ch'egli a me: Di sua maggior magagna.
Conosce 'l danno; e però non s' ammiri
Se ne riprende, perchè men sen piagna.
Perchè s'appuntano i vostri desiri
Dove per compagnia parte si scema,
Invidia muove il mantaco a' sospiri.
Ma se l'amor della spera suprema
Torcesse 'n suso 'l desiderio vostro,
Non vi sarebbe al petto quella tema;

Chè, per quanto si dice più li nostro,
Tanto possiede più di ben ciascuno,
E più di caritade arde in quel chiostro.
lo son d'esser contento più digiuno,
Diss' io, che se mi fosse pria taciuto;
E più di dubbio nella mente aduno.
Com'esser puote ch'un ben distributo
I più posseditor faccia più ricohi
Di sè, che se da pochi è posseduto?
Ed egli a me: Perocchè tu rificchi
La mente pure alle cose terrene,
Di vera luce tenebre dispicchi.
Quello 'nfinito ed ineffabil bene,

Che lassù è, così corre ad amore,
Com'a lucido corpo raggio viene.
Tanto si dà, quanto truova d'ardore;
Si che quantunque carità si stende,
Cresce sovr' essa l'eterno valore.
E quanta gente più lassù s'intende,
Più v'è da bene amare, e più vi s'ama;
E, come specchio, l'uno all' altro rende.
E se la mia ragion non ti disfama,

Vedrai Beatrice; ed ella pienamente
Ti torrà questa e ciascun' altra brama.
Procaccia pur che tosto sieno spente,
Come son già le due, le cinque piaghe,
Che si richiudon per esser dolente.
Com' io voleva dicer: Tu m' appaghe,
Giunto mi vidi in su l'altro girone;
Sì che tacer mi fêr le luci vaghe.
Ivi mi parve in una visione

Estatica di subito esser tratto,
E vedere in un tempio più persone;
Ed una donna, in su l'entrar, con atto
Dolce di madre dicer: Figliuol mio,
Perchè hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti lo tuo padre ed io

Ti cercavamo. E come qui si tacque,
Ciò che pareva prima, disparío.
Indi m'apparve un'altra, con quell'acque
Giù per le gote, che 'l dolor distilla
Quando da gran dispetto in altrui nacque;
E dir: Se tu se' sire della villa,

Del cui nome ne' Dei fu tanta lite,
Ed onde ogni scienzia disfavilla,
Vendica te di quelle braccia ardite,
Ch' abbracciar nostra figlia, o Pisistráto.
El signor mi parea benigno e mite
Risponder lei, con viso temperato:

Ĉhe farem noi a chi mal ne desira,
Se quei che ci ama è per noi condannato?
Poi vidi genti accese in fuoco d'ira

Con pietre un giovinetto ancider, forte
Gridando a sè pur: Martíra, martíra.
E lui vedea chinarsi, per la morte

Che l'aggravava già, invêr la terra;
Ma degli occhi facca sempre al Ciel porte,
Orando all' alto Sire in tanta guerra,
Che perdonasse a' suoi persecutori,
Con quello aspetto che pietà disserra.
Quando l'anima mia tornò di fuori
Alle cose che son fuor di lei vere,
Io riconobbi i miei non falsi errori.
Lo Duca mio, che mi potea vedere

Far sì com'uom che dal sonno si slega,
Disse: Che hai, che non ti puoi tenere,

Ma se' venuto più che mezza lega
Velando gli occhi, e con le gambe avvolte,
A guisa di cui vino o sonno piega?
O dolce Padre mio, se tu m'ascolte,

Io ti dirò, diss' io, ciò che m'apparve
Quando le gambe mie furon si tolte.
Ed ei: Se tu avessi cento larve

Sopra la faccia, non mi sarien chiuse Le tue cogitazion, quantunque parve. Ciò che vedesti, fu perchè non scuse

D'aprir lo cuore all' acque della pace,
Che dall' eterno fonte son diffuse.
Non dimandai, che hai, per quel che face
Chi guarda pur con l'occhio che non vede,
Quando disanimato il corpo giace;
Ma dimandai, per darti forza al piede:
Cosi frugar conviene i pigri, lenti
Ad usar lor vigilia quando riede.
Noi andavám per lo vespero attenti

Oltre, quanto potea l'occhio allungarsi,
Contra i raggi serotini e lucenti;
Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
Verso di noi come la notte oscuro;
Nè da quello era luogo da cansarsi:
Questo ne tolse gli occhi e l'aer puro.

CANTO XVI.

ARGOMENTO

Mostra Dante in questo canto, che nel fumo erano puniti gl' iracondi; tra i quali trova Marco Lombardo, il quale gli dimostra l'error di coloro che stimano che ogni nostro operare venga destinato dagl' influssi dei cieli.

Bujo d'Inferno, e di notte privata

D'ogni pianeta sotto pover cielo,
Quant' esser può di nuvol tenebrata,
Non fece al viso mio si grosso velo,

Come quel fummo ch'ivi ci coperse,
Nè, al sentir, di così aspro pelo;
Chè l'occhio stare aperto non sofferse:
Onde la Scorta mia saputa e fida
Mi s'accostò, e l'omerò m' offerse.
Si come cieco va dietro a sua guida

Per non smarrirsi, e per non dar di cozzo
In cosa che 'l molesti, o forse ancida,
M' andava io per l'aere amaro e sozzo,
Ascoltando mio Duca, che diceva
Pur: Guarda che da me tu non sie mozzo.
Io sentía voci, e ciascuna pareva
Pregar per pace e per misericordia
L'Agnél di Dio, che le peccata leva.
Pur Agnus Dei eran le loro esordia;
Una parola in tutti era ed un modo,
Si che parea tra esse ogni concordia.
Quei sono spirti, Maestro, ch'i' odo?

Diss'io. Ed egli a me: Tu vero apprendi; E d'iracondia van solvendo 'l nodo. Or tu chi se', che 'l nostro fummo fendi, E di noi parli pur come se túe Partissi ancor lo tempo per calendi?

Così per una voce detto fue.

Onde 'l Maestro mio disse: Rispondi,
E dimanda se quinci si va súe.
Ed io: O creatura, che ti mondi,

Per tornar bella a Colui che ti fece,
Maraviglia udirai se mi secondi.
I'ti seguiterò quanto mi lece,

Rispose; e, se veder fummo non lascia,
L'udir ci terrà giunti in quella vece.
Allora incominciai: Con quella fascia

Che la morte dissolve men vo suso,
E venni qui per la 'nfernale ambascia;
E se Dio m'ha in sua grazia richiuso

Tanto, ch'e' vuol ch'io veggia la sua Corte
Per modo tutto fuor del modern' uso,
Non mi celar chi fosti anzi la morte,

Ma dilmi, e dimmi s'io vo bene al varco; E tue parole fien le nostre scorte. Lombardo fui, e fui chiamato Marco;

Del mondo seppi; e quel valore amai, Al quale ha or ciascun disteso l'arco: Per montar su, dirittamente vai.

Così rispose; e soggiunse: Io ti prego Che per me preghi quando su sarai. Ed io a lui: Per fede mi ti lego

Di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio Dentro da un dubbio, s'i' non me ne spiego. Prima era scempio, ed ora è fatto doppio Nella sentenzia tua, che mi fa certo Qui ed altrove quello ov'io l'accoppio. Lo mondo è ben così tutto diserto D'ogni virtute, come tu mi suone, E di malizia gravido e coverto; Ma prego che m'additi la cagione,

Si ch'io la vegga, e ch'io la mostri altrui; Chè nel Ciel uno, ed un quaggiù la pone. Alto sospir, che duolo strinse in hui,

Mise fuor prima; e poi cominciò: Frate Lo mondo è cieco; e tu vien ben da lui. Voi, che vivete, ogni cagion recate

Pur suso al Ciel così, come se tutto
Movesse seco di necessitate.

Se così fosse, in voi fora distrutto

Libero arbitrio, e non fora giustizia
Per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo Cielo i vostri movimenti inizia:

Non dico tutti; ma, posto ch' io 'l dica,
Lume v'è dato a bene ed a malizia,
E libero voler, che se affatica

Nelle prime battaglie col Ciel, dura;
Poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza ed a miglior natura
Liberi soggiacete; e quella cria

La mente in voi, che 'l Ciel non ha in sua cura. Però, se'l mondo presente disvía,

In voi è la cagione, in voi si cheggia;
Ed io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a Lui, che la vagheggia
Prima che sia, a guisa di fanciulla
Che piangendo e ridendo pargoleggia,

L'anima semplicetta, che sa nulla,

Salvo che, mossa da lieto Fattore,
Volentier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore:
Quivi s'inganna; e dietro ad esso corre,
Se guida o fren non torce 'l suo amore.
Onde convenne leggi per fren porre;

Convenne rege aver, che discernesse
Della vera cittade alien la torre.
Le leggi son; ma chi pon mano ad esse?
Nullo; perocchè 'l pastor che precede,
Ruminar può, ma non ha l' unghie fesse.
Per che la gente, che sua guida vede

Pur a quel ben ferire ond' ella è ghiotta,
Di quel si pasce, e più oltre non chiede.
Ben puoi veder che la mala condotta
È la cagion che 'l mondo ha fatto reo,

E non natura che 'n voi sia corrotta. Soleva Roma, che 'l buon mondo feo,

Duo Soli aver, che l'una e l'altra strada Facean vedere, e del mondo e di Deo. L'un l'altro ha spento, ed è giunta la spada Col pasturale, e l'un coll' altro insieme Per viva forza mal convien che vada; Perocchè, giunti, l'un l'altro non teme. Se non mi credi, pon mente alla spiga; Ch'ogni erba si conosce per lo seme. In sul paese ch' Adice e Pò riga,

Solea valore e cortesía trovarsi, Prima che Federigo avesse briga: Or può sicuramente indi passarsi,

Per qualunque lasciasse, per vergogna Di ragionar coi buoni, ad appressarsi. Ben v'en tre vecchi ancora, in cui rampogna L'antica età la nuova, e par lor tardo Che Dio a miglior vita li ripogna : Currado da Palazzo, e 'l buon Gherardo, E Guido da Castel, che me' si noma Francescamente il semplice Lombardo. Di' oggimai, che la Chiesa di Roma,

Per confondere in sè duo reggimenti, Cade nel fango, e sè brutta e la soma. O Marco mio, diss' io, bene argomenti; Ed or discerno perchè dal retaggio Li figli di Levi furono esenti. Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio Di ch'è rimaso della gente spenta, In rimproverio del secol selvaggio? O tuo parlar m'inganna, o el mi tenta, Rispose a me; chè, parlandomi Tosco, Par che del buon Gherardo nulla senta. Per altro soprannome i' nol conosco,

S'io nol togliessi da sua figlia Gaja. Dio sia con voi, chè più non vegno vosco. Vedi l'albór, che per lo fummo raja,

Già biancheggiare; e me convien partirmi, L'Angelo è ivi, prima ch'egli paja. Così parlò, e più non volle udirmi.

CANTO XVII.

ARGOMENTO

Usciti i due Poeti dal fumo, e ritornati alla luce, Dante è astratto nella immaginazione d'alcuni esempi d'ira. Poi è condotto dall'Angelo per le scale, onde si va al quarto balzo, sopra il quale si purga il peccato dell'accidia.

Ricorditi, Lettor, se mai nell'alpe

Ti colse nebbia, per la qual vedessi
Non altrimenti che per pelle talpe;
Come, quando i vapori umidi e spessi
A diradar cominciansi, la spera
Del Sol debilemente entra per essi;
E fia la tua immagine leggiera

In giugnere a veder com' io rividi

Lo Sole in pria, che già nel corcare era.
Sì, pareggiando i miei co' passi fidi

Del mio Maestro, uscí' fuor di tal nube,
Ai raggi morti già nei bassi lidi.
O immaginativa, che ne rube

Talvolta si di fuor, ch' uom non s'accorge,
Perchè d'intorno suonin mille tube,
Chi muove te, se 'l senso non ti porge?
Muoveti lume che nel Ciel s' informa,
Per sè, o per voler che giù lo scorge.
Dell'empiezza di lei, che mutò forma
Nell' uccel che a cantar più si diletta,
Nell'immagine mia apparve l'orma.
E qui fu la mia mente si ristretta

Dentro da sè, che di fuor non venía
Cosa che fosse allor da lei recetta.
Poi piovve dentro all' alta fantasía

Un crocifisso dispettoso e fiero
Nella sua vista, e cotal si moría:
Intorno ad esso era 'l grande Assuero,
Ester sua sposa, e 'l giusto Mardochéo,
Che fu al dire ed al far così 'ntero.
E come questa immagine rompéo

Sè per sè stessa, a guisa d'una bulla
Cui manca l'acqua sotto qual si feo,
Surse in mia visione una fanciulla,

Piangendo forte, e diceva: O Regina, Perchè per ira hai voluto esser nulla? Ancisa t'hai per non perder Lavina;

Or m'hai perduta: i'sono essa che lutto, Madre, alla tua pria ch' all' altrui ruina. Come si frange il sonno, ove di butto

Nuova luce percuote 'l viso chiuso, Che, fratto, guizza pria che muoja tutto; Così l'immaginar mio cadde giuso

Tosto che 'l lume il volto mi percosse, Maggiore assai che quello ch'è in nostr'uso. I' mi volgea per veder ov'io fosse,

Quand' una voce disse: Quì si monta;
Che da ogni altro intento mi rimosse,
E fece la mia voglia tanto pronta
Di riguardar chi era che parlava,
Che mai non posa se non si raffronta.
Ma come al Sol, che nostra vista grava,
E per soverchio sua figura vela,
Così la mia virtù quivi mancava.

Questi è divino spirito, che ne la
Via d'andar su ne drizza senza prego,
E col suo lume sè medesmo cela.
Si fa con noi, come l'uom si fa sego;

Chè quale aspetta prego, e l'uopo vede,
Malignamente già si mette al nego.
Ora accordiamo a tanto invito il piede;
Procacciam di salir pria che s'abbui;
Chè poi non si poría, se'l di non riede.
Così disse 'l mio Duca; ed io con lui
Volgemmo i nostri passi ad una scala:
E tosto ch' io al primo grado fui,
Sentimi presso quasi un muover d'ala,
E ventarmi nel viso, e dir: Beati
Pacifici, che son senza ira mala.
Già eran sopra noi tanto levati

Gli ultimi raggi che la notte segue, Che le stelle apparivan da più lati. O virtù mia, perchè si ti dilegue?

Fra me stesso dicea; chè mi sentiva La possa delle gambe posta in tregue. Noi eravamo ove più non saliva

La scala su, ed eravamo affissi
Pur come nave ch'alla piaggia arriva :
Ed io attesi un poco s' io udissi
Alcuna cosa nel nuovo girone;
Poi mi rivolsi al mio Maestro, e dissi:
Dolce mio Padre, di', quale offensione
Si purga qui nel giro dove semo?
Se i piè si stanno, non stea tuo sermone.
Ed egli a me: L'amor del bene scemo
Di suo dover quiritta si ristora;
Qui si ribatte 'I mal tardato remo.
Ma perchè più aperto intendi ancora,
Volgi la mente a me, e prenderai
Alcun buon frutto di nostra dimora.
Nè creator, nè creatura mai,

Cominciò ei, figliuol, fu senza amore,
O naturale o d'animo; e tu 'I sai.
Lo natural fu sempre senza errore;

Ma l'altro puote errar per malo obbietto, O per troppo o per poco di vigore. Mentre ch' egli è ne' primi ben diretto, E ne' secondi sè stesso misura, Esser non può cagion di mal diletto; Ma quando al mal si torce, o con più cura, O con men che non dee, corre nel bene, Contra Fattore adovra sua fattura. Quinci comprender puoi ch'esser conviene Amor sementa in voi d'ogni virtute, E d'ogni operazion che merta pene. Or perchè mai non può dalla salute Amor del suo subietto volger viso, Dall'odio proprio son le cose tute; E perchè intender non si può diviso, Ne per se stante, alcuno esser dal primo, Da quello odiare ogni affetto è deciso. Resta, se dividendo bene stimo,

Che'l mal che s'ama è del prossimo; ed esso
Amor nasce in tre modi in vostro limo.
È chi, per esser suo vicin soppresso,
Spera eccellenza; e sol per questo brama
Ch'el sia di sua grandezza in basso messo:

È chi podere, grazia, onore e fama
Teme di perder, perch' altri sormonti;
Onde s'attrista sì, che 'l contraro ama:

Ed è chi per ingiuria par ch'adonti

Sì, che si fa della vendetta ghiotto; E tal convien che 'l male altrui impronti. Questo triforme amor quaggiù di sotto

Si piange: or vo' che tu dell' altro intende,
Che corre al ben con ordine corrotto.
Ciascun confusamente un bene apprende,
Nel qual si quieti l'animo, e desira;
Per che di giunger lui ciascun contende.
Se lento amor in lui veder vi tira,

O a lui acquistar, questa cornice
Dopo giusto pentér ve ne martíra.
Altro ben è, che non fa l'uom felice;
Non è felicità, non è la buona
Essenzia, d'ogni ben frutto e radice.
L'amor ch' ad esso troppo s'abbandona,
Di sovra a noi si piange per tre cerchi;
Ma come tripartito si ragiona,
Tacciolo, acciocchè tu per te ne cerchi.

CANTO XVIII.

ARGOMENTO

Dimostra Dante in questo canto quel che sia propriamente amore; e dopo alcuni esempj di celerità contra il peccato dell'accidia, racconta come da certi suoi pensieri ne nacquero più altri, e da quelli il sonno.

Posto

osto avea fine al suo ragionamento
L'alto Dottore, ed attento guardava
Nella mia vista, s'io parea contento;
Ed io, cui nova sete ancor frugava,

Di fuor taceva, e dentro dicea: Forse
Lo troppo dimandar, ch'io fo, li
grava.
Ma quel Padre verace, che s'accorse
Del timido voler che non s'apriva,
Parlando, di parlare ardir mi porse.
Ond' io: Maestro, il mio veder s'avviva
Si nel tuo lume, ch'io discerno chiaro
Quanto la tua ragion porti o descriva.
Però ti prego, dolce Padre caro,

Che mi dimostri amore, a cui riduci
Ogni buono operare, e 'l suo contraro.
Drizza, disse, vêr me l'agute luci

Dello 'ntelletto, e fieti manifesto L'error de' ciechi che si fanno duci. L'animo, ch'è creato ad amar presto, Ad ogni cosa è mobile che piace, Tosto che dal piacere in atto è desto. Vostra apprensiva da esser verace

Tragge intenzione, e dentro a voi la spiega Sì, che l'animo ad essa volger face. E se, rivolto, invêr di lei si piega,

Quel piegare è amor, quello è natura
Che per piacer di nuovo in voi si lega.
Poi come 'l fuoco muovesi in altura,

Per la sua forma ch'è nata a salire
Là dove più in sua materia dura;
Così l'animo preso entra in disire,
Ch'è moto spiritale, e mai non posa,
Finchè la cosa amata il fa gioire.

Or ti puote apparer quant'è nascosa
La veritade alla gente ch'avvera
Ciascuno amore in sè laudabil cosa:
Perocchè forse appar la sua matera

Sempr' esser buona; ma non ciascun segno
È buono, ancorchè buona sia la cera.
Le tue parole e 'l mio seguace ingegno,

Rispos' io lui, m'hanno amor discoverto; Ma ciò m'ha fatto di dubbiar più pregno: Chè s'amore è di fuori a noi offerto, E l'animo non va con altro piede, Se dritto o torto va, non è suo merto. Ed egli a me: Quanto ragion qui vede, Dir ti poss' io; da indi in là t'aspetta Pure a Beatrice, ch'è opra di fede. Ogni forma sustanzial, che setta

È da materia, ed è con lei unita, Specifica virtude ha in sè colletta; La qual senza operar non è sentita,

Ne si dimostra ma che per effetto,
Come per verde fronda in pianta vita.
Però, là onde vegna lo 'ntelletto

Delle prime notizie, uomo non sape,
E de' primi appetibili l'affetto,
Che sono in voi, si come studio in ape
Di far lo mele; e questa prima voglia
Merto di lode o di biasmo non cape.
Or perchè a questa ogni altra si raccoglia,
Innata v'è la virtù che consiglia,
E dell' assenso de' tener la soglia.
Quest' è 'l principio, là onde si piglia
Cagion di meritare in voi, secondo
Che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando andaro al fondo,
S'accorser d' esta innata libertate;
Però moralità lasciaro al mondo.
Onde poniam che di necessitate

Surga ogni amor che dentro a voi s'accende;
Di ritenerlo è in voi la potestate.

La nobile virtù Beatrice intende

Per lo libero arbitrio; e però guarda

Che l'abbi a mente, s'a parlar ten prende. La Luna, quasi a mezza notte tarda,

Facea le stelle a noi parer più rade,
Fatta com'un secchion che tutto arda;
E correa contra il ciel per quelle strade
Che il Sole infiamma allor che quel da Roma
Tra' Sardi e' Corsi il vede quando cade:
E quell' Ombra gentil, per cui si noma
Pietola più che villa Mantovana,

Del mio carcar diposto avea la soma.
Per ch'io, che la ragione aperta e piana
Sovra le mie questioni avea ricolta,
Stava com' uom che sonnolento vana.
Ma questa sonnolenza mi fu tolta
Subitamente da gente che dopo
Le nostre spalle a noi era già vôlta.
E quale Ismeno già vide ed Asopo,
Lungo di sè di notte, furia e calca,
Purchè i Tebán di Bacco avesser uopo;
Tale per quel giron suo passo falca,

Per quel ch'io vidi di color, venendo,
Cui buon volere e giusto amor cavalca.
Tosto fur sovra noi, perchè correndo
Si movea tutta quella turba magna;
E due dinanzi gridavan piangendo:

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