CANTO XXVII. ARGOMENTO Racconta Dante una sua visione; e come, di poi risvegliato, salì all' ultimo scaglione, sopra il quale come i Poeti si trovarono, Virgilio lo mise in libertà di far per innanzi quanto a lui pareva, senza sua ammonizione. S1 come, quando i primi raggi vibra Si stava il Sole: onde 'l giorno sen giva, E Virgilio mi disse: Figliuol mio, Qui puote esser tormento, ma non morte. Ricordati, ricordati.... e se io Sovresso Gerion ti guidai salvo, Che farò or che son più presso a Dio? Con le tue mani al lembo de' tuoi panni. Mi volsi al savio Duca, udendo il nome Che nella mente sempre mi rampolla. Ond' ei crollò la fronte, e disse: Come? Volemci star di quà? Indi sorrise, Come al fanciul si fa, ch'è vinto al pome. Poi dentro al fuoco innanzi mi si mise, Pregando Stazio che venisse retro, Che pria per lunga strada ci divise. Com' io fui dentro, in un bogliente vetro Gittato mi sarei per rinfrescarmi; Tant' era ivi lo 'ncendio senza metro. Lo dolce Padre mio, per confortarmi, Pur di Beatrice ragionando andava, Dicendo: Gli occhi suoi già veder parmi. Guidavaci una voce che cantava Di là; e noi, attenti pure a lei, Venimmo fuor là ove si montava. Venite, benedicti Patris mei, Sonò dentro a un lume, che li era, Tal, che mi vinse, e guardar nol potei. Lo Sol sen va, soggiunse, e vien la sera; Non v'arrestate, ma studiate il passo, Mentre che l'occidente non s'annera. Dritta salía la via per entro 'l sasso Verso tal parte, ch'io toglieva i raggi Dinanzi a me del Sol ch'era già basso. E di pochi scaglion levammo i saggi, Che'l Sol corcar, per l'ombra che si spense, Sentimmo dietro ed io e gli miei Saggi. E pria che 'n tutte le sue parti immense Fosse orizzonte fatto d'un aspetto, E notte avesse tutte sue dispense, Ciascun di noi d'un grado fece letto; Chè la natura del monte ci affranse La possa del salir, più che 'l diletto. Quali si fanno ruminando manse Le capre, state rapide e proterve Sopra le cime, avanti che sien pranse, Tacite all' ombra, mentre che Sol ferve, Guardate dal pastor, che 'n su la verga Poggiato s'è, e lor poggiato serve; E quale il mandrian, che fuori alberga, Lungo 'l peculio suo queto pernotta, Guardando perchè fiera non lo sperga; Tali eravamo tutti e tre allotta, Io come capra, ed ei come pastori, Fasciati quinci e quindi dalla grotta. Poco potea parer lì del di fuori; Ma per quel poco vedev' io le stelle Di lor solere e più chiare e maggiori. Si ruminando, e si mirando in quelle, ᎷᎥ prese 'l sonno; il sonno, che sovente, Anzi che 'l fatto sia, sa le novelle. Nell'ora, credo, che dell' oriente Prima raggiò nel monte Citerea, Che di fuoco d'amor par sempre ardente, Giovane e bella in sogno mi parea Donna vedere andar per una landa Cogliendo fiori, e cantando dicea : Sappia, qualunque 'l mio nome dimanda, Ch'io mi son Lia, e vo movendo 'ntorno Le belle mani a farmi una ghirlanda. Per piacermi allo specchio qui m' adorno; Ma mia suora Rachel mai non si smaga Dal suo miraglio, e siede tutto giorno. Ell' è de' suoi begli occhi veder vaga, Com' io dell' adornarmi con le mani: Lei lo vedere, e me l'ornare appaga. E già per gli splendori antelucani, Che tanto ai peregrin surgon più grati, Quanto, tornando, albergan men lontani, Le tenebre fuggian da tutti i lati, El sonno mio con esse; ond' io levámi, Parole usò; e mai non furo strenne, ΙΟ Tanto voler sovra voler mi venne Fu corsa, e fummo in sul grado superno, Vedi l'erbetta, i fiori e gli arboscelli CANTO XXVIII. ARGOMENTO Essendo Dante asceso al Paradiso terrestre, si pone a ricercarne la vaga foresta; il cui cammino gli è impedito dal fiume Lete: su la cui riva essendosi fermato, vede Matelda, che andava cantando e cogliendo fiori. Questa, pregata da Dante, gli scioglie alcuni dubbj. Va ago già di cercar dentro e dintorno Prendendo la campagna lento lento Avere in sè, mi fería per la fronte, Cantando, ricevíeno intra le foglie, Tal, qual di ramo in ramo si raccoglie Dentro all' antica selva tanto, ch'io Che 'nvêr sinistra con sue picciol' onde Piegava l'erba che 'n sua ripa uscío. Tutte l'acque, che son di quà più monde, Parrieno avere in sè mistura alcuna, Verso di quella che nulla nasconde; Avvegnachè si muova bruna bruna Sotto l'ombra perpetua, che mai Per maraviglia tutt'altro pensare, Cantando, ed iscegliendo fior da fiore, Ti scaldi, s'io vo' credere a' sembianti, Diss' io a lei, verso questa riviera, Tanto ch'io possa intender che tu canti. Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette La madre lei, ed ella primavera. Come si volge con le piante strette A terra, ed intra sè, donna che balli, Fioretti, verso me, non altrimenti Si appressando sè, che 'l dolce suono Bagnate già dall' onde del bel fiume, Di levar gli occhi suoi mi fece dono. Non credo che splendesse tanto lume Sotto le ciglia a Venere trafitta Dal figlio, fuor di tutto suo costume. Ella ridea, dall' altra riva dritta, Traendo più color con le sue mani, Che l'alta terra senza seme gitta. Tre passi ci facea 'l fiume lontani; Ma Ellesponto, là 've passò Xerse, Ancora freno a tutti orgogli umani, Più odio da Leandro non sofferse, Per mareggiare intra Sesto ed Abído, Che quel da me, perch' allor non s'aperse. Voi siete nuovi; e forse perch' io rido, Cominciò ella, in questo luogo eletto All' umana natura per suo nido, Maravigliando tienvi alcun sospetto; Ma luce rende il salmo Delectasti, Che puote disnebbiar vostro intelletto. E tu che se' dinanzi, e mi pregasti, Di' s'altro vuoi udir; ch'io venni presta Ad ogni tua question, tanto che basti. L'acqua, diss' io, e 'l suon della foresta Impugnan dentro a me novella fede Di cosa ch'io udi' contraria a questa. Ond' ella: Io dicerò come procede Per sua cagion ciò ch' ammirar ti face, Per sua diffalta in pianto ed in affanno Perchè 'l turbar che sotto da sè fanno Se non gli è rotto il cerchio d'alcun canto, Che della sua virtute l'aura impregna, Ove tu se', d'ogni semenza è piena, Che tanto dal voler di Dio riprende, Quant' ella versa da due parti aperta. Da questa parte con virtù discende, Che toglie altrui memoria del peccato; Eunoè si chiama; e non adopra, E avvegna ch'assai possa esser sazia Qui primavera sempre, ed ogni frutto; Nettare è questo, di che ciascun dice. Io mi rivolsi addietro allora tutto A' miei Poeti, e vidi che con riso Udito avevan l'ultimo costrutto; Poi alla bella donna tornai 'l viso. E come Ninfe che si givan sole Per le selvatiche ombre disiando, Qual di fuggir, qual di veder lo Sole; Allor si mosse contra 'l fiume, andando Su per la riva, ed io pari di lei, Picciol passo con picciol seguitando. Non eran cento tra i suoi passi e i miei, Quando le ripe igualmente diêr volta Per modo, ch'a Levante mi rendei. Nè anche fu così nostra via molta, Quando la donna a me tutta si torse, Dicendo: Frate mio, guarda ed ascolta. Ed ecco un lustro subito trascorse Da tutte parti per la gran foresta, Per l'aer luminoso: onde buon zelo Sentite prima, e più lunga fiata. E desioso ancora a più letizie, Freddi o vigilie mai per voi soffersi, Falsava nel parere il lungo tratto Che l'obbietto comun, che 'l senso inganna, Al buon Virgilio; ed esso mi rispose Che si moviéno incontro a noi si tardi, La donna mi sgridò: Perchè pur ardi E ciò che vien diretro a lor non guardi? Genti vidio allor, com'a lor duci, Venire appresso, vestite di bianco; S'io riguardava in lei, come specchio anco. Quand'io dalla mia riva ebbi tal posta, Di sette liste, tutte in quei colori, Che la mia vista; e, quanto a mio avviso, Nelle figlie d'Adamo, e benedette Si come luce luce in ciel seconda, Ognun era pennuto di sei ali; Le penne piene d'occhi; e gli occhi d'Argo, A descriver lor forme più non spargo Come li vide dalla fredda parte Venir con vento, con nube e con igne; E quai li troverai nelle sue carte, Tali eran quivi; salvo ch' alle penne Giovanni è meco, e da lui si diparte. Lo spazio dentro a lor quattro contenne Un carro in su due ruote trionfale, Ch' al collo d'un Grifon tirato venne; Ed esso tendea su l'una e l'altr' ale Tra la mezzana e le tre e tre liste, Sì ch'a nulla, fendendo, facea male. Tanto salivan, che non eran viste : Le membra d'oro avea, quant' era uccello; E bianche l'altre, di vermiglio miste. Non che Roma di carro così bello Rallegrasse Affricano, ovvero Augusto, Ma quel del Sol saría pover con ello; Quel del Sol, che sviando fu combusto, Per l'orazion della Terra devota, Quando fu Giove arcanamente giusto. Venien danzando: l'una tanto rossa, Or dalla rossa; e dal canto di questa In porpora vestite, dietro al modo Vidi due vecchi in abito dispari, L'un si mostrava alcun de' famigliari Di quel sommo Ippocráte, che Natura Agli animali fe, ch'ella ha più cari; Mostrava l'altro la contraria cura, Con una spada lucida ed acuta, Talchè di quà dal rio mi fe paura. Poi vidi quattro in umile paruta, E diretro da tutti un veglio solo Venir dormendo con la faccia arguta. E questi sette col primajo stuolo Erano abituati; ma di gigli Dintorno al capo non faceano brolo, Anzi di rose e d'altri fior vermigli: Giurato avría poco lontano aspetto, Che tutti ardesser di sopra dai cigli. E quando 'l carro a me fu a rimpetto, Un tuon s'udì; e quelle genti degne Parvero aver l'andar più interdetto, Fermandos' ivi con le prime insegne. CANTO XXX. ARGOMENTO Contiensi come Beatrice, discesa dal Cielo, riprende Dante della ignoranza e poca prudenza sua, avendo egli, dopo la di lei morte, tenuta altra via da quella, alla quale ella per sua salute l'avea indirizzato. Quando uando 'l settentrion del primo cielo, Di suo dover, come 'l più basso face Venuta prima tra 'l Grifone ed esso, Al carro volse sè, come a sua pace; E un di loro, quasi da Ciel messo, Veni, sponsa, de Libano, cantando, Gridò tre volte; e tutti gli altri appresso. Quale i beati al novissimo bando Surgeran presti ognun di sua caverna, La rivestita carne alleviando; Cotali in su la divina basterna Si levâr cento, ad vocem tanti senis, E, fior gittando di sopra e dintorno: E l'altro ciel di bel sereno adorno; Che dalle mani angeliche saliva, E lo spirito mio, che già cotanto Tempo era stato che alla sua presenza Non era di stupor tremando affranto, Sanza degli occhi aver più conoscenza, Per occulta virtù, che da lei mosse, D'antico amor sentì la gran potenza. Tosto che nella vista mi percosse L'alta virtù, che già m'avea trafitto Prima ch'io fuor di puerizia fosse, Volsimi alla sinistra, col rispitto Col quale il fantolin corre alla mamma Quando ha paura, o quando egli è afflitto, Per dicere a Virgilio: Men che dramma Di sangue m'è rimasa, che non tremi; Di sè, Virgilio dolcissimo padre, Non piangere anco, non piangere ancora; Chè pianger ti convien per altra spada.. Quasi ammiraglio, che 'n poppa ed in prora Viene a veder la gente che ministra Per gli altri legni, ed a ben far la 'ncuora; In su la sponda del carro sinistra, Quando mi volsi al suon del nome mio, Di subito: In te, Domine, speravi; Per lo dosso d'Italia si congela, Anzi'l cantar di que' che notan sempre Ella, pur ferma in su la detta eoscia Si che notte nè sonno a voi non fura Si fa 'l terren col mal seme, e non colto, Quant' egli ha più di buon vigor_terrestro. Alcun tempo 'l sostenni col mio volto; Mostrando gli occhi giovinetti a lui, Meco'l menava in dritta parte vôlto. Si tosto come in su la soglia fui Di mia seconda etade, e mutai vita, E bellezza e virtù cresciuta m' era, Con le quali ed in sogno ed altrimenti Fuorchè mostrargli le perdute genti. Per questo visitai l'uscio de' morti; E a colui che l'ha quassù condotto, Li prieghi miei piangendo furon porti. L'alto fato di Dio sarebbe rotto, Se Lete si passasse, e tal vivanda Fosse gustata senza alcuno scotto Di pentimento che lagrime spanda. |