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CANTO XXVII.

ARGOMENTO

Racconta Dante una sua visione; e come, di poi risvegliato, salì all' ultimo scaglione, sopra il quale come i Poeti si trovarono, Virgilio lo mise in libertà di far per innanzi quanto a lui pareva, senza sua ammonizione.

S1

come, quando i primi raggi vibra
Là dove 'I suo Fattore il sangue sparse,
Cadendo Ibero sotto l'alta Libra,
E l'onde in Gange da nona riarse;

Si stava il Sole: onde 'l giorno sen giva,
Quando l'Angel di Dio lieto ci apparse.
Fuor della fiamma stava in su la riva,
E cantava: Beati mundo corde,
In voce assai più che la nostra viva.
Poscia: Più non si va, se pria non morde,
Anime sante, il fuoco; entrate in esso,
Ed al cantar di là non siate sorde.
Si disse, come noi gli fummo presso;
Per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi,
Quale è colui che nella fossa è messo.
In su le man commesse mi protesi,
Guardando 'l fuoco; e immaginando forte
Umani corpi già veduti accesi.
Volsersi verso me le buone scorte;

E Virgilio mi disse: Figliuol mio, Qui puote esser tormento, ma non morte. Ricordati, ricordati.... e se io

Sovresso Gerion ti guidai salvo,

Che farò or che son più presso a Dio?
Credi per certo, che se dentro all' alvo
Di questa fiamma stessi ben mill'anni,
Non ti potrebbe far d'un capel calvo.
E se tu forse credi ch'io t'inganni,
Fatti vêr lei, e fatti far credenza

Con le tue mani al lembo de' tuoi panni.
Pon giù omai, pon giù ogni temenza;
Volgiti 'n quà, e vieni oltre sicuro;
Ed io pur fermo, e contro a coscienza.
Quando mi vide star pur fermo e duro,
Turbato un poco disse: Or vedi, figlio;
Tra Beatrice e te è questo muro.
Come al nome di Tisbe aperse 'l ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla
Allor che 'l gelso diventò vermiglio;
Così, la mia durezza fatta solla,

Mi volsi al savio Duca, udendo il nome Che nella mente sempre mi rampolla. Ond' ei crollò la fronte, e disse: Come? Volemci star di quà? Indi sorrise, Come al fanciul si fa, ch'è vinto al pome. Poi dentro al fuoco innanzi mi si mise, Pregando Stazio che venisse retro, Che pria per lunga strada ci divise. Com' io fui dentro, in un bogliente vetro Gittato mi sarei per rinfrescarmi; Tant' era ivi lo 'ncendio senza metro. Lo dolce Padre mio, per confortarmi, Pur di Beatrice ragionando andava, Dicendo: Gli occhi suoi già veder parmi.

Guidavaci una voce che cantava

Di là; e noi, attenti pure a lei, Venimmo fuor là ove si montava. Venite, benedicti Patris mei,

Sonò dentro a un lume, che li era, Tal, che mi vinse, e guardar nol potei. Lo Sol sen va, soggiunse, e vien la sera; Non v'arrestate, ma studiate il passo, Mentre che l'occidente non s'annera. Dritta salía la via per entro 'l sasso

Verso tal parte, ch'io toglieva i raggi Dinanzi a me del Sol ch'era già basso. E di pochi scaglion levammo i saggi, Che'l Sol corcar, per l'ombra che si spense, Sentimmo dietro ed io e gli miei Saggi. E pria che 'n tutte le sue parti immense Fosse orizzonte fatto d'un aspetto, E notte avesse tutte sue dispense, Ciascun di noi d'un grado fece letto; Chè la natura del monte ci affranse La possa del salir, più che 'l diletto. Quali si fanno ruminando manse

Le capre, state rapide e proterve Sopra le cime, avanti che sien pranse, Tacite all' ombra, mentre che Sol ferve, Guardate dal pastor, che 'n su la verga Poggiato s'è, e lor poggiato serve; E quale il mandrian, che fuori alberga, Lungo 'l peculio suo queto pernotta, Guardando perchè fiera non lo sperga; Tali eravamo tutti e tre allotta,

Io come capra, ed ei come pastori, Fasciati quinci e quindi dalla grotta. Poco potea parer lì del di fuori;

Ma per quel poco vedev' io le stelle Di lor solere e più chiare e maggiori. Si ruminando, e si mirando in quelle, ᎷᎥ prese 'l sonno; il sonno, che sovente, Anzi che 'l fatto sia, sa le novelle. Nell'ora, credo, che dell' oriente

Prima raggiò nel monte Citerea, Che di fuoco d'amor par sempre ardente, Giovane e bella in sogno mi parea

Donna vedere andar per una landa Cogliendo fiori, e cantando dicea : Sappia, qualunque 'l mio nome dimanda, Ch'io mi son Lia, e vo movendo 'ntorno Le belle mani a farmi una ghirlanda. Per piacermi allo specchio qui m' adorno; Ma mia suora Rachel mai non si smaga Dal suo miraglio, e siede tutto giorno. Ell' è de' suoi begli occhi veder vaga, Com' io dell' adornarmi con le mani: Lei lo vedere, e me l'ornare appaga. E già per gli splendori antelucani, Che tanto ai peregrin surgon più grati, Quanto, tornando, albergan men lontani, Le tenebre fuggian da tutti i lati,

El sonno mio con esse; ond' io levámi,
Veggendo i gran Maestri già levati.
Quel dolce pome, che per tanti rami
Cercando va la cura de' mortali,
Oggi porrà in pace le tue fami
Virgilio inverso me queste cotali

Parole usò; e mai non furo strenne,
Che fosser di piacere a queste iguali.

ΙΟ

Tanto voler sovra voler mi venne
Dell' esser su, ch' ad ogni passo poi
Al volo mi sentía crescer le penne.
Come la scala tutta sotto noi

Fu corsa, e fummo in sul grado superno,
In me ficcò Virgilio gli occhi suoi,
E disse: Il temporal fuoco e l'eterno
Veduto hai, figlio; e se' venuto in parte,
Ov' io per me più oltre non discerno.
Tratto t'ho qui con ingegno e con arte;
Lo tuo piacere omai prendi per duce;
Fuor se dell' erte vie, fuor se' dell' arte.
Vedi il Sole che 'n fronte ti riluce;

Vedi l'erbetta, i fiori e gli arboscelli
Che quella terra sol da sè produce.
Mentre che vegnon lieti gli occhi belli,
Che lagrimando a te venir mi fenno,
Seder ti puoi, e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più, nè mio cenno:
Libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
E fallo fora non fare a suo senno;
Per ch' io te sopra te corono e mitrio.

CANTO XXVIII.

ARGOMENTO

Essendo Dante asceso al Paradiso terrestre, si pone a ricercarne la vaga foresta; il cui cammino gli è impedito dal fiume Lete: su la cui riva essendosi fermato, vede Matelda, che andava cantando e cogliendo fiori. Questa, pregata da Dante, gli scioglie alcuni dubbj.

Va

ago già di cercar dentro e dintorno
La divina foresta spessa e viva,
Ch'agli occhi temperava il nuovo giorno,
Senza più aspettar lasciai la riva,

Prendendo la campagna lento lento
Su per lo suol che d'ogni parte oliva.
Un' aura dolce, senza mutamento

Avere in sè, mi fería per la fronte,
Non di più colpo, che soave vento;
Per cui le fronde, tremolando pronte,
Tutte quante piegavano alla parte
U' la prim' ombra gitta il santo monte,
Non però dal lor esser dritto sparte
Tanto, che gli augelletti per le cime
Lasciasser d'operare ogni lor arte;
Ma con piena letizia l'ôre prime,

Cantando, ricevíeno intra le foglie,
Che tenevan bordone alle sue rime

Tal, qual di ramo in ramo si raccoglie
Per la pineta in sul lito di Chiassi,
Quand' Eolo Scirocco fuor discioglie.
Già m'avean trasportato i lenti passi

Dentro all' antica selva tanto, ch'io
Non potea rivedere ond' io m'entrassi;
Ed ecco il più andar mi tolse un rio,

Che 'nvêr sinistra con sue picciol' onde Piegava l'erba che 'n sua ripa uscío. Tutte l'acque, che son di quà più monde, Parrieno avere in sè mistura alcuna, Verso di quella che nulla nasconde;

Avvegnachè si muova bruna bruna

Sotto l'ombra perpetua, che mai
Raggiar non lascia Sole ivi, nè Luna.
Co' piè ristetti, e con gli occhi passai
Di là dal fiumicel, per ammirare
La gran variazion de' freschi mai;
E là m'apparve, sì com' egli appare
Subitamente cosa che disvía

Per maraviglia tutt'altro pensare,
Una donna soletta, che si gía

Cantando, ed iscegliendo fior da fiore,
Ond' era pinta tutta la sua via.
Deh! bella donna, ch' a' raggi d'amore

Ti scaldi, s'io vo' credere a' sembianti,
Che soglion esser testimon del cuore,
Vegnati voglia di trarreti avanti,

Diss' io a lei, verso questa riviera, Tanto ch'io possa intender che tu canti. Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette La madre lei, ed ella primavera. Come si volge con le piante strette

A terra, ed intra sè, donna che balli,
E piede innanzi piede appena mette;
Volsesi 'n su' vermigli ed in su' gialli

Fioretti, verso me, non altrimenti
Che vergine che gli occhi onesti avvalli;
E fece i prieghi miei esser contenti,

Si appressando sè, che 'l dolce suono
Veniva a me co' suoi intendimenti.
Tosto che fu là dove l'erbe sono

Bagnate già dall' onde del bel fiume, Di levar gli occhi suoi mi fece dono. Non credo che splendesse tanto lume Sotto le ciglia a Venere trafitta

Dal figlio, fuor di tutto suo costume. Ella ridea, dall' altra riva dritta,

Traendo più color con le sue mani, Che l'alta terra senza seme gitta. Tre passi ci facea 'l fiume lontani;

Ma Ellesponto, là 've passò Xerse, Ancora freno a tutti orgogli umani, Più odio da Leandro non sofferse,

Per mareggiare intra Sesto ed Abído, Che quel da me, perch' allor non s'aperse. Voi siete nuovi; e forse perch' io rido, Cominciò ella, in questo luogo eletto All' umana natura per suo nido, Maravigliando tienvi alcun sospetto;

Ma luce rende il salmo Delectasti, Che puote disnebbiar vostro intelletto. E tu che se' dinanzi, e mi pregasti,

Di' s'altro vuoi udir; ch'io venni presta Ad ogni tua question, tanto che basti. L'acqua, diss' io, e 'l suon della foresta Impugnan dentro a me novella fede

Di cosa ch'io udi' contraria a questa. Ond' ella: Io dicerò come procede

Per sua cagion ciò ch' ammirar ti face,
E purgherò la nebbia che ti fiede.
Lo Sommo Bene, che solo a sè piace,
Fece l'uom buono; e 'l ben di questo loco
Diede per arra a lui d'eterna pace.
Per sua diffalta qui dimorò poco;

Per sua diffalta in pianto ed in affanno
Cambiò onesto riso e dolce giuoco.

Perchè 'l turbar che sotto da sè fanno
L'esalazion dell'acqua e della terra,
Che quanto posson dietro al calor vanno,
All'uomo non facesse alcuna guerra,
Questo monte salío vêr lo ciel tanto,
E libero è da indi, ove si serra.
Or perchè in circuito tutto quanto
L'aer si volge con la prima volta,

Se non gli è rotto il cerchio d'alcun canto,
In questa altezza, che tutta è disciolta
Nell' aer vivo, tal moto percuote,
E fa sonar la selva, perch'è folta:
E la percossa pianta tanto puote,

Che della sua virtute l'aura impregna,
E quella poi, girando, intorno scuote;
E l'altra terra, secondo ch'è degna
Per se o per suo ciel, concepe e figlia
Di diverse virtù diverse legna.
Non parrebbe di là poi maraviglia,
Udito questo, quando alcuna pianta
Senza seme palese vi s' appiglia.
E saper dèi che la campagna santa,

Ove tu se', d'ogni semenza è piena,
E frutto ha in sè, che di là non si schianta.
L'acqua, che vedi, non surge di vena
Che ristori vapor che giel converta,
Come fiume ch' acquista o perde lena;
Ma esce di fontana salda e certa,

Che tanto dal voler di Dio riprende, Quant' ella versa da due parti aperta. Da questa parte con virtù discende,

Che toglie altrui memoria del peccato;
Dall' altra d'ogni ben fatto la rende.
Quinci Letè, così dall' altro lato

Eunoè si chiama; e non adopra,
Se quinci e quindi pria non è gustato.
A tutt' altri sapori esso è di sopra;

E avvegna ch'assai possa esser sazia
La sete tua, perch' io più non ti scuopra,
Darotti un corollario ancor per grazia;
Nè credo che 'l mio dir ti sia men caro,
Se oltre promission teco si spazia.
Quelli ch' anticamente poetaro
L'età dell'oro e suo stato felice,
Forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l'umana radice;

Qui primavera sempre, ed ogni frutto; Nettare è questo, di che ciascun dice. Io mi rivolsi addietro allora tutto

A' miei Poeti, e vidi che con riso Udito avevan l'ultimo costrutto; Poi alla bella donna tornai 'l viso.

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E come Ninfe che si givan sole

Per le selvatiche ombre disiando, Qual di fuggir, qual di veder lo Sole; Allor si mosse contra 'l fiume, andando Su per la riva, ed io pari di lei, Picciol passo con picciol seguitando. Non eran cento tra i suoi passi e i miei, Quando le ripe igualmente diêr volta Per modo, ch'a Levante mi rendei. Nè anche fu così nostra via molta,

Quando la donna a me tutta si torse, Dicendo: Frate mio, guarda ed ascolta. Ed ecco un lustro subito trascorse

Da tutte parti per la gran foresta,
Talchè di balenar mi mise in forse.
Ma perchè balenar, come vien, resta,
E quel, durando, più e più splendeva,
Nel mio pensar dicea: Che cosa è questa?
Ed una melodía dolce correva

Per l'aer luminoso: onde buon zelo
Mi fe riprender l'ardimento d' Eva,
Che là dove ubbidía la terra e 'l cielo,
Femmina sola, e pur testè formata,
Non sofferse di star sotto alcun velo;
Sotto 'l qual se divota fosse stata,
Avrei quelle ineffabili delizie

Sentite prima, e più lunga fiata.
Mentr' io m'andava tra tante primizie
Dell'eterno piacer tutto sospeso,

E desioso ancora a più letizie,
Dinanzi a noi tal, quale un fuoco acceso,
Ci si fe l'aer sotto i verdi rami;
E'l dolce suon per canto era già 'nteso.
O sacrosante Vergini, se fami,

Freddi o vigilie mai per voi soffersi,
Cagion mi sprona ch'io mercè ne chiami.
Or convien ch' Elicona per me versi,
E Urania m'ajuti col suo coro
Forti cose a pensar, mettere in versi.
Poco più oltre, sette alberi d'oro

Falsava nel parere il lungo tratto
Del mezzo ch'era ancor tra noi e loro;
Ma quando i' fui si presso di lor fatto,

Che l'obbietto comun, che 'l senso inganna,
Non perdea per distanza alcun suo atto;
La virtù, ch'a ragion discorso ammanna,
Si com' elli eran candelabri apprese,
E nelle voci del cantare: Osanna.
Di sopra fiammeggiava il bello arnese
Più chiaro assai che Luna per sereno
Di mezza notte nel suo mezzo mese.
Io mi rivolsi, d'ammirazion pieno,

Al buon Virgilio; ed esso mi rispose
Con vista carca di stupor non meno.
Indi rendei l'aspetto all' alte cose,

Che si moviéno incontro a noi si tardi,
Che foran vinte da novelle spose.

La donna mi sgridò: Perchè pur ardi
Si nell'aspetto delle vive luci,

E ciò che vien diretro a lor non guardi? Genti vidio allor, com'a lor duci,

Venire appresso, vestite di bianco;
E tal candor giammai di quà non fuci.
L'acqua splendeva dal sinistro fianco,
E rendea a me la mia sinistra costa,

S'io riguardava in lei, come specchio anco.

Quand'io dalla mia riva ebbi tal posta,
Che solo il fiume mi facea distante,
Per veder meglio a' passi diedi sosta;
E vidi le fiammelle andare avante,
Lasciando dietro a sè l'aer dipinto,
E di tratti pennelli avean sembiante;
Si che di sopra rimanea distinto

Di sette liste, tutte in quei colori,
Onde fa l'arco il Sole, e Delia il cinto.
Questi ostendali dietro eran maggiori

Che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
Dieci passi distavan quei di fuori.
Sotto così bel ciel, com' io diviso,
Ventiquattro seniori a due a due
Coronati venían di fiordaliso.
Tutti cantavan: Benedetta túe

Nelle figlie d'Adamo, e benedette
Sieno in eterno le bellezze tue.
Poscia che i fiori e l'altre fresche erbette,.
A rimpetto di me dall' altra sponda,
Libere fur da quelle genti elette,

Si come luce luce in ciel seconda,
Vennero appresso lor quattro animali,
Coronati ciascun di verde fronda.

Ognun era pennuto di sei ali;

Le penne piene d'occhi; e gli occhi d'Argo,
Se fosser vivi, sarebber cotali.

A descriver lor forme più non spargo
Rime, Lettor; ch'altra spesa mi strigne
Tanto, che 'n questa non posso esser largo.
Ma leggi Ezzechiel, che li dipigne

Come li vide dalla fredda parte

Venir con vento, con nube e con igne; E quai li troverai nelle sue carte,

Tali eran quivi; salvo ch' alle penne Giovanni è meco, e da lui si diparte. Lo spazio dentro a lor quattro contenne Un carro in su due ruote trionfale,

Ch' al collo d'un Grifon tirato venne; Ed esso tendea su l'una e l'altr' ale

Tra la mezzana e le tre e tre liste, Sì ch'a nulla, fendendo, facea male. Tanto salivan, che non eran viste :

Le membra d'oro avea, quant' era uccello; E bianche l'altre, di vermiglio miste. Non che Roma di carro così bello

Rallegrasse Affricano, ovvero Augusto, Ma quel del Sol saría pover con ello; Quel del Sol, che sviando fu combusto, Per l'orazion della Terra devota,

Quando fu Giove arcanamente giusto.
Tre donne in giro dalla destra ruota

Venien danzando: l'una tanto rossa,
Ch'a pena fora dentro al fuoco nota;
L'altr'era come se le carni e l'ossa
Fossero state di smeraldo fatte;
La terza parea neve testè mossa:
Ed or parevan dalla bianca tratte,

Or dalla rossa; e dal canto di questa
L'altre toglién l'andare e tarde e ratte.
Dalla sinistra quattro facean festa,

In porpora vestite, dietro al modo
D'una di lor, ch' avea tre occhi in testa.
Appresso tutto il pertrattato nodo

Vidi due vecchi in abito dispari,
Ma pari in atto, ognuno onesto e sodo.

L'un si mostrava alcun de' famigliari

Di quel sommo Ippocráte, che Natura Agli animali fe, ch'ella ha più cari; Mostrava l'altro la contraria cura,

Con una spada lucida ed acuta, Talchè di quà dal rio mi fe paura. Poi vidi quattro in umile paruta, E diretro da tutti un veglio solo Venir dormendo con la faccia arguta. E questi sette col primajo stuolo Erano abituati; ma di gigli Dintorno al capo non faceano brolo, Anzi di rose e d'altri fior vermigli:

Giurato avría poco lontano aspetto, Che tutti ardesser di sopra dai cigli. E quando 'l carro a me fu a rimpetto, Un tuon s'udì; e quelle genti degne Parvero aver l'andar più interdetto, Fermandos' ivi con le prime insegne.

CANTO XXX.

ARGOMENTO

Contiensi come Beatrice, discesa dal Cielo, riprende Dante della ignoranza e poca prudenza sua, avendo egli, dopo la di lei morte, tenuta altra via da quella, alla quale ella per sua salute l'avea indirizzato.

Quando

uando 'l settentrion del primo cielo,
Che nè occaso mai seppe nè orto,
Nè d'altra nebbia, che di colpa velo;
E che faceva li ciascuno accorto

Di suo dover, come 'l più basso face
Qual timon gira per venire a porto;
Fermo s'affisse: la gente verace,

Venuta prima tra 'l Grifone ed esso, Al carro volse sè, come a sua pace; E un di loro, quasi da Ciel messo, Veni, sponsa, de Libano, cantando, Gridò tre volte; e tutti gli altri appresso. Quale i beati al novissimo bando

Surgeran presti ognun di sua caverna, La rivestita carne alleviando; Cotali in su la divina basterna

Si levâr cento, ad vocem tanti senis,
Ministri e messaggier di vita eterna.
Tutti dicean: Benedictus qui venis;

E, fior gittando di sopra e dintorno:
Manibus o date lilia plenis.
Io vidi già nel cominciar del giorno
La parte oriental tutta rosata,

E l'altro ciel di bel sereno adorno;
E la faccia del Sol nascere ombrata,
Si che, per temperanza di vapori,
L'occhio lo sostenea lunga fiata:
Così dentro una nuvola di fiori,

Che dalle mani angeliche saliva,
E ricadea in giù dentro e di fuori,
Sovra candido vel cinta d'oliva
Donna m'apparve sotto verde manto,
Vestita di color di fiamma viva.

E lo spirito mio, che già cotanto

Tempo era stato che alla sua presenza Non era di stupor tremando affranto, Sanza degli occhi aver più conoscenza, Per occulta virtù, che da lei mosse, D'antico amor sentì la gran potenza. Tosto che nella vista mi percosse

L'alta virtù, che già m'avea trafitto Prima ch'io fuor di puerizia fosse, Volsimi alla sinistra, col rispitto

Col quale il fantolin corre alla mamma Quando ha paura, o quando egli è afflitto, Per dicere a Virgilio: Men che dramma

Di sangue m'è rimasa, che non tremi;
Conosco i segni dell'antica fiamma.
Ma Virgilio n' avea lasciati scemi

Di sè, Virgilio dolcissimo padre,
Virgilio a cui per mia salute diemi;
Nè quantunque perdéo l'antica madre,
Valse alle guance nette di rugiada,
Che lagrimando non tornassero adre.
Dante, perchè Virgilio se ne vada,

Non piangere anco, non piangere ancora; Chè pianger ti convien per altra spada.. Quasi ammiraglio, che 'n poppa ed in prora Viene a veder la gente che ministra

Per gli altri legni, ed a ben far la 'ncuora; In su la sponda del carro sinistra,

Quando mi volsi al suon del nome mio,
Che di necessità qui si registra,
Vidi la donna, che pria m'apparío
Velata sotto l' angelica festa,
Drizzar gli occhi vêr me di quà dal rio.
Tuttochè 'l vel che le scendea di testa,
Cerchiato dalla fronda di Minerva,
Non la lasciasse parer manifesta;
Regalmente nell' atto ancor proterva
Continuò, come colui che dice,
El più caldo parlar dietro riserva:
Guardami ben; ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d'accedere al monte?
Non sapei tu che qui è l'uom felice?
Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
Ma veggendomi in esso, io trassi all'erba:
Tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
Com' ella parve a me, perchè d'amaro
Sente il sapor della pietate acerba.
Ella si tacque, e gli Angeli cantaro

Di subito: In te, Domine, speravi;
Ma oltre pedes meos non passaro.
Sì come neve tra le vive travi

Per lo dosso d'Italia si congela,
Soffiata e stretta dalli venti Schiavi;
Poi liquefatta, in sè stessa trapela,
Purchè la terra, che perde ombra, spiri,
Si che par fuoco fonder la candela:
Così fui senza lagrime e sospiri

Anzi'l cantar di que' che notan sempre
Dietro alle note degli eterni giri.
Ma poi che 'ntesi nelle dolci tempre
Lor compatire a me, più che se detto
Avesser: Donna, perchè sì lo stempre?
Lo giel che m'era 'ntorno al cuor ristretto,
Spirito ed acqua fessi, e con angoscia
Per la bocca e per gli occhi usci del petto.

Ella, pur ferma in su la detta eoscia
Del carro stando, alle sustanzie pie
Volse le sue parole così poscia :
Voi vigilate nell'eterno die,

Si che notte nè sonno a voi non fura
Passo che faccia 'l secol per sue vie;
Onde la mia risposta è con più cura,
Che m'intenda colui che di là piagne,
Perchè sia colpa e duol d'una misura.
Non pur per ovra delle ruote magne,
Che drizzan ciascun seme ad alcun fine,
Secondo che le stelle son compagne;
Ma per larghezza di grazie divine,
Che si alti vapori hanno a lor piova,
Che nostre viste là non van vicine,
Questi fu tal nella sua vita nuova
Virtualmente, ch'ogni abito destro
Fatto averebbe in lui mirabil pruova.
Ma tanto più maligno e più silvestro

Si fa 'l terren col mal seme, e non colto, Quant' egli ha più di buon vigor_terrestro. Alcun tempo 'l sostenni col mio volto; Mostrando gli occhi giovinetti a lui, Meco'l menava in dritta parte vôlto. Si tosto come in su la soglia fui

Di mia seconda etade, e mutai vita,
Questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a spirto era salita,

E bellezza e virtù cresciuta m' era,
Fu' io a lui men cara e men gradita;
E volse i passi suoi per via non vera,
Immagini di ben seguendo false,
Che nulla promission rendono intera.
Nè l'impetrare spirazion mi valse,

Con le quali ed in sogno ed altrimenti
Lo rivocai: si poco a lui ne calse.
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
Alla salute sua eran già corti,

Fuorchè mostrargli le perdute genti. Per questo visitai l'uscio de' morti;

E a colui che l'ha quassù condotto, Li prieghi miei piangendo furon porti. L'alto fato di Dio sarebbe rotto,

Se Lete si passasse, e tal vivanda Fosse gustata senza alcuno scotto Di pentimento che lagrime spanda.

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