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CAPITOLO II.

DANTE E VERGILIO

Il libro XI dell' Odissea e il libro VI dell'Eneide.

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Peccati e

Minosse.

pene. Copia e imitazione. - Caronte. — Cerbero.
Pier della Vigna e Polidoro. Le predizioni ne due poemi.

Non senza ragione Dante chiamò Vergilio lo suo Maestro e lo suo Autore, nè senza ragione affermò d'aver meditato il volume vergiliano con lungo studio e grande amore. Il libro VI dell' Eneide gli diede certamente molte fantasie e molte immagini e, secondo alcuni, anche l'idea generale della Commedia, veramente Divina. Enea va nell'antro della Sibilla Cumana, la quale gli fa varie predizioni e gl' insegna come scendere fra i morti a ritrovare l'ombra d' Anchise; obbedendo a lei, egli coglie il magico ramoscello d'oro, poi, da lei guidato, discende all'Inferno e vede le ombre dei trapassati, quali nel Tartaro, quali nei Campi Elisi. A un certo punto la via si diparte, da un lato porta all'abisso dei malvagi, dall' altro alla città di Plutone che ha tre cerchia di mura e intorno alla quale scorre il fiume Flegetonte; la soglia, i pilastri e le colonne della sua porta sono di un diamante che non può spezzarsi, la gran torre è di ferro e vi sta a guardia Tesifone insanguinata e torva; di là s'ode uscire suono di pianto, stridore di ferro e di catene. Questa città di Plutone diede forse a Dante l'idea della città di Dite.

Dopo quella, viene il Tartaro, voragine profonda due volte l'altezza dalla terra al cielo e vi soño, con orribili tormenti, straziate le anime colpevoli. Dalla parte opposta, la via mette ai Campi Elisi, che son contrade allietate di verzura, di sole, di stelle, ove selve ombrose, prati verdi e rivi e fonti rallegrano lo sguardo; qui le anime buone si dilettano in feste, balli e suoni. Fra i virtuosi, Enea trova il padre Anchise, che gli spiega come gli spiriti si purghino e tornino quindi sulla terra, e gli fa vedere le anime di coloro che illustreranno la gran

Roma futura, dai re di Alba a Giulio Cesare e ad Augusto. Benchè questo libro VI sia uno dei più belli ed anche dei più originali nel poema latino, vi si riconosce l'imitazione dal libro XI dell' Odissea, ove Ulisse racconta le sue avventure, quando giunto ai gelidi confini dove albergano i Cimmerii, scavata una fossa cubitale e fatti i sacrifici in onore dei trapassati, vide sorgere innanzi a sè dal più cupo dell' Erebo la gente morta, parlò con l'ombra d'Elpenore, con quella di Tiresia che gli predisse i suoi casi, rivide la madre e fu sgomento da Minosse, da Tizio, da Sisifo, finchè, spaventato dal frastuono d'un infinito popolo di spiriti, torno alle navi.

Omero fa apparire confusamente gli spiriti buoni ed i malvagi, tutti dolenti di aver perduta la vita; Vergilio distingue il Tartaro dove sono i rei, i Campi Elisi dove sono i virtuosi e una foresta, di cui da lungi s'odono suonare i gran rami, cui scorre a' piedi il fiume Lete, ove le anime van come le pecchie, di fiore in fiore, bevendo l'obblio della vita, dopo essersi con varie pene, per mille anni purgate delle colpe antiche. Dante distingue chiaramente i tre regni della dannazione, della penitenza e della beatitudine. I tormenti dei dannati e le punizioni delle anime purganti sono in parte simili nell'Eneide e nella Divina Commedia. Vergilio dice di alcuni spiriti malvagi: chi sassi rivolgono...., 1) e Dante punisce i prodighi e gli avari nell' Inferno facendo rotolare loro col petto gravissimi pesi. Il Poeta fiorentino castiga i lussuriosi facendoli preda di un' eterna bufera, gl' iracondi e gli accidiosi lasciandoli immersi nell' acqua paludosa di Stige, gli eretici entro tombe arroventate, i violenti con una pioggia di fuoco; e delle anime colpevoli il poeta latino scrive che

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sono:

altre ne l'aura

Sospese al vento, altre nell' acqua immerse
Ed altre al foco. 2)

L'Alighieri congiunge di stretta e logica relazione la pena. ed il fallo e Vergilio afferma :

Chè quale è di ciascuna il genio e'l fallo

Tale è 'l castigo. 3)

Come Dante Vergilio, così Enea prega la Sibilla di essergli guida ne' regni eterni; e come Vergilio avverte Dante di

1) Eneide libro VI, v. 920.

2) Eneide libro VI, v. 1111, 1113.
3) Eneide libro VI, v. 1114, 1115.

lasciare ogni sospetto, poichè conviene che là ogni viltade sia morta, così la Sibilla ammonisce Enea che egli ha d'uopo d'animo e di cuore costante e fermo.

Non t'inganni l'ampiezza dell' entrare, 1)

grida Minosse a Dante, ed Enea sente dirsi : Lo scender nell' Averno è cosa agevole

Che notte e di ne sta l'entrata aperta. 2)

Troppo lungo sarebbe seguire passo passo ogni idea, ogni immagine che nella Divina Commedia ricorda il gran poema latino: vediamo soltanto alcune figure dantesche imitate dall' Eneide.

Vi sono varie specie di imitazione; chi manca del vero ingegno creatore, imitando copia, nel suo lavoro si ravvisano subito i tratti dell' originale, cui si ricorre colla mente, e non si accorda perciò al poeta il nome d'artista: copiare può esser prova d'abilità, non d'ingegno grande. Tuttavia il campo dell' immaginazione umana non è sconfinato, perchè la fantasia nulla può realmente inventare, può solo, accoppiando in modo vario elementi tolti dal vero, formarne un tutto nuovo, e deve inoltre, persino nelle favole, rispettare certe leggi di verosimiglianza. Si comprende quindi facilmente che, le idee di un autore, si trovino spesso ripetute da altri, i quali, malgrado questo, possono riuscire artisti e nuovi e grandi, se la loro imitazione è creatrice, se intorno all'idea prima, sia pure tolta altrui, sanno raggruppare nuove idee secondarie; se sanno dar vita al concetto con nuovi particolari, mostrarlo sott'altra luce, dipingerlo con altri colori. Il concetto primo è la rozza materia, il modo di esprimerlo e di colorirlo ne fa un lavoro d'arte. Sarebbe quasi altrettanto difficile ad uno scultore fare una statua senza prendere il marmo dalla natura, che ad un poeta scrivere un'opera letteraria senza toglier nulla da coloro che lo han preceduto. Dante ci mostra quale sia l'imitazione dei grandi.

La figura di Caronte sembra per colorito e per potenza un dipinto michelangiolesco, chè fra gli artisti italiani, nessuno mostra tanta affinità coll' Alighieri, quanto il Buonarroti: la Cappella Sistina fa pensare alla Divina Commedia. Pure questa figura di Caronte così bene scolpita, che ha così profonda impronta di originalità, è imitata dall' Eneide. Caronte, il tristo nocchiero che tragitta la

1) Inf. V, 20.

gente morta da una sponda all'altra dell' Acheronte, è descritto da Vergilio spaventoso e sozzo, con barba canuta, incolta ed irta, occhi accesi come bragie, un lordo manto annodato al collo e in mano un palo che gli fa da remo; è descritto vecchio, ma sempre vigoroso, vegeto come un Dio: È guardiano.

E passeggiero a questa riva imposto
Caron demonio, spaventoso e sozzo,
A cui lunga dal mento, incolta ed irta
Pende canuta barba. Ha gli occhi accesi,
Come di bragia. Ha con un groppo al collo
Appeso un lordo ammanto, e con un palo
Che gli fa remo, e con la vela regge
L' affumicato legno, onde tragitta
Sull' altra riva ognor la gente morta.
Vecchio è d'aspetto e d'anni, ma di forze,
Come Dio, vigoroso e verde è sempre. 1)

Dante dipinge Caronte bianco per antico pelo (trascurando l'idea della vecchiezza forte e vegeta) cogli occhi cerchiati da ruote di fiamma, occhi di bragia; questo nocchiero della livida palude s'avvicina sulla navicella, nella quale coi cenni raccoglie le anime e batte irosamente col remo chiunque si metta a suo agio.

Ed ecco verso noi venir per nave

Un vecchio, bianco per antico pelo. 2)

Al nocchier della livida palude

Che intorno agli occhi avea di fiamme ruote. 3)

Caron dimonio, con occhi di bragia

Loro accennando, tutte le raccoglie;

Batte col remo qualunque s'adagia. 4)

Egli accetta tutte le anime, il Caronte vergiliano invece, rifiuta le insepolte, che debbono andar vagando cento anni sul lido prima di passare, e le tiene lunge col remo, mentre le altre entrano nel suo legno. Tutti gli spiriti perduti sono desiderosi di tragittare:

Chè la divina giustizia li sprona
Sì, che la tema si volge in disio. 5)

I primi avanti orando

Chiedean passaggio e con le sporte mani
Mostravano il desio dell' altra ripa. 6)

1) Eneide libro VI, 441-452.

2) Inf. III, 82-83.

3) Inf. III, 98-99.

4) Inf. III, 109-111.

5) Inf. III, 125-126.

6) Eneide libro VI, 461-463.

Ambedue questi nocchieri d' inferno sono cupi, severi, irosi, ambedue negano di tragittare il vivente. Fermati, grida Caronte nell' Eneide, o tu che vai così baldanzoso, di' chi sei, che cosa cerchi e perchè vieni, qui han ricetto le ombre e non le genti vive, che il mio legno non può accogliere. Se v' accettai Ercole, Teseo e Piritoo, ebbi a pentirmene, chè l'uno, incatenò il custode tartareo, gli altri osarono rapire la regina di Dite dalla casa maritale.1) Il Caronte dantesco, mentre si accosta alla riva, sfoga la bile in un grido di minaccia: « Guai a voi, anime prave! » e par lieto di annunziar loro i tormenti eterni nelle tenebre, tra il gelo e il fuoco, con parole che riempiono di sgomento il lettore stesso, sicchè egli prova, quasi un riflesso del terrore che fa impallidire que' perduti e batter loro i denti. Poi il tristo nocchiero intima a Dante di separarsi dai morti, e quando vede che il Poeta non si muove, lo avverte: Tu approderai in altro modo che su questa mia barca, ti tragitterà legno più lieve; come nel primo grido, una gioia malvagia, qui senti un' amarezza di rabbia impotente, contro la forza superiore che trasporterà l'Alighieri di là dell' Acheronte.

La Sibilla acquieta il vecchio nocchiero:

Nulla di queste insidie (gli rispose
La profetessa) a macchinar si viene

Enea Troiano

E questi di pietà famoso e d'armi,
Che per disio del padre infino al fondo
De l'Erebo discende; e se l'esempio
Di tanta carità non ti commove,
Questo almen riconosci. E fuor del seno

D'oro il tronco traendo, altro non disse. 2)

Egli depone l' orgoglio e l' ira e li accoglie nella barca. Solenni parole, in cui spira un'aura di maestà sovrana, son quelle con cui Vergilio fa tacere Caronte: Così si vuole colà, dove ciò che si vuole si può; non dimandare di più; e colui acquieta le lanose gote. Ambedue queste figure di Caronte sono ammirabili; quella dantesca più sobria, è forse più possente ne' suoi rapidi tocchi: ti colpiscono quegli occhi che splendono di luce infernale accerchiati di fuoco fra la canizie incolta; ti conturba profondamente l' iroso grido del nocchiero alle anime; e il quietarsi delle gote lanose quante idee ti suscita nella

1) Eneide lib. VI, 568-581.

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