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meglio di questi molti insulsi e smoderati (1) laudatori so, che è quell' incognito indistinto per essi, che molce loro le orecchie, ma, per esser i canali dell' ingegno otturati, nell' animo lor non discende. Son eglino appunto del gregge, che nota Cicerone ne' Rettorici, quando dice: Leggono buone orazioni o poemi, approvano gli oratori e' poeti, e pur non intendono, perchè si commovano, e approvino ciò che non ponno saper dove sia, nè che sia, nè come sia fatto ciò, che loro più di tutto diletta. Se ciò accadde in Demostene e Tullio, e in Omero e Virgilio intra gli uomini letterati, e nelle scuole, che pensi tu accader possa in questo nostro questo nostro (2) nelle taverne e nel foro? Quanto a me io l'ammiro, e conosco suo il merito, non lo disprezzo: e forse ho diritto di dire; che s' egli fosse vissuto fino a questa età, egli avrebbe pochi, a' quali egli fosse più amico, che a me: così dico, se quanto mi diletta ei per l'ingegno, tanto mi dilettasse (3) per li costumi : siccome all' incontro niuno, cui egli fosse più infesto, quanto questi inettissimi laudatori, i quali affatto che lodare, o che biasimare del pari non sanno; e

(1) Anche di qui può sospettarsi, che le lodi, che davano a Dante costoro, fossero a detrimento del nome e della fama del Petrarca. Gl'idioti per altro non peccano in lodar una cosa ben fatta, quantunque ne iguorino l'artificio: gl'intendenti sì, che la biasimano per interesse O per invidia.

(2) Il peggio è, che Dante fu disgraziato anche nelle Accademie, e nelle Chiese, dove leggevasi il suo poema.

(3) Per li modi, mi penso, di presunzione e di maldicenza, onde lo accusa Cio: Villani; di che vedi, se ti piace, ciò che si è detto nel Cap. XVIII. non già per li vizj, de' quali Dante è incolpato da Pietro nel Cap.

gli scritti di lui (ingiuria la più gravosa, che ad un poeta spezialmente si possa fare) lacerano e corrompono, (1) in pronunziarli li quali io forse, se non mi chiamasse altrove (2) la cura delle cose mie, vorrei a tutta possa da questo ludibrio vendicare.

VIII. Ora (poichè altro non posso) mi querelo e mi sdegno, che l'egregia fronte dello stile di lui dalle inerti lingue di costoro sia sputacchiata e lordata: dove non tacerò una cosa, ch'esige il luogo; che questo non fu l'ultimo motivo per me (3) d'abbandonare lo stile suo,

XXVII. che di questi il Petrarca non parla, nè potea, se anche fossero stati veri, parlarne.

(1) Gl'idioti gli avrà, credo, il saggio Poeta facilmente iscusati, sapendo lai che anche Dio s' infinge su la loro ignoranza nel cantar e pronunziar le sue lodi; non così i goffi comentatori, e i critici inetti.

(2) Di quì l' Ab. de Sade arguisce, che 'l Petrarca, anche zelante dell'onor del Poeta, non imprese mai ad illustrare il libro di lui. Ciò che io confermo con questa ragione, che la fatica del Petrarca, s'ei l'avesse fatta, sarebbe stata letterale, su la vera lezione, cioè, della divina Com→ media, per vindicarla dalla corruzione del volgo: ma io che ho letto in Firenze i Comenti a lui attribuiti, posso ingenuamente asserire d'averli veduti simili agli altri, senza riconoscervi dentro la minima briga di rettificar le parole, o d'insegnarne la vera pronunzia: dunque non sono

suoi.

(3) Gran danno fece alla lingua e alla poesia volgare la divina Commedia, s'ella fu in alcun modo cagione, che Mess. Francesco Petrarca, vedendola cotanto applaudita, udendola cantare troppo scorretta, si mosse a scriver il suo poema dell' Africa in lingua latina, credendosi per questa via di riuscir non meno eccellente di Dante. E la fortuna in vero a que' tempi gli arrise, che la sua fama n'andò alle stelle, ed ei ne fu coronato d' alloro; ma che? In poco tempo quel suo poema smontò di pregio laddove, se fosse steso in Toscano, sarebbe studiato e letto con utilità e piacere dai dotti e dagl' idioti, al giorno d'oggi egli è ambito e gustato solo dalle tignuole.

al quale io da giovanetto unicamente attendeva. Imperciocchè ho temuto non avvenisse agli scritti miei ciò ch'io vedeva negli scritti altrui, e principalmente di questo tale, di cui parliamo: nè sperai nelle cose mie le lingue del volgo più snelle, nè più molli le aspirazioni e gli ac centi, di quello che fossero ne' componimenti di que', che la lunghezza del tempo e 'l prescritto favore avessero fatti celebri ne' teatri, e nelle strade più frequentate delle città. E ch'io non abbia temuto in vano, il dimostra, quando in queste istesse poche cose, che fanciullescamente in quel tempo mi sono sfuggite di mano, assiduamente le lingue del volgo mi lacerano; indegnandomi io, che dopo d'aver totalmente in odio le cose che un tempo fa m'eran care, in ciascun giorno contro mia voglia, e indispettito col mio ingegno, sono aggirato (1) ne' portici: da per tutto (2) schiere d'indotti, da per tutto il Dameta mio ne' trivj, solito con istridente.

Zampogna sparger miserabil carme.

Ma già ho detto assai, e forse troppo, d'una cosa non grande ch'io non dovea sì sul serio trattare, mentre questa stessa ora, che non tornerà mai più, era per me ad altre cure dovuta: se non che la scusa tua m'è paruta non so che di simile avere all'accusa di costoro. Imperciocchè soglion molti l'odio, come ho detto, altri il dispregio obbiettarmi di questo galantuomo, dal nominar

(1) E perchè non dice nelle taverne?

(2) Manco male per lui, che non eran ciurme di folloni, di lanisti, di tavernieri; come diransi al Num. X. quelli che cantavano il Dante.

il quale io mi son oggi (1) a bella posta astenuto, acciocchè il volgo che tutto ode, e nulla intende, non istrepitasse gridando, che io lo infamo.

IX. Altri poi mi obbiettan l'invidia: quelli appunto che me invidiano, e'l nome mio: perchè sebbene io non lo di che esser molto invidiato, nulla di meno ciò che una volta io non credea, e molto tardi me l'ho conosciuto, io non son certo senza invidiosi. E per molti anni addietro, quando veramente io era più soggetto agli affetti, non in parole, o in qualunque scrittura, ma in carme da me mandato ad uomo assai ragguardevole, assicurato dalla coscienza ebbi ardire di professare, ch'io non invidio in alcuna cosa veruno. Ma diasi, ch'io non sia degno d'esser creduto: qual verisimiglianza v'ha finalmente ch'io porti invidia a colui, che in tali arti impiegò tutta la sua età, nelle quali io ho impiegato il fiore appena e le primizie della mia adolescenza, sicchè l'artificio che fu per lui, se non l'unico, certamente l'estremo, è stato per me un giuoco e un solazzo a dirozzamento d'ingegno? Qual luogo, di grazia, può aver quì (2) l'in-` vidia? O qual sospetto può esservi?

X. Ma poichè tra le lodi dicesti, ch'egli avrebbe potuto usar (3) altro stile, s'egli avesse voluto; per Ercole io credo (si grande è l'opinione che ho dell'ingegno suo)

(1) Vedi quanta era la fama di Dante, la quale teneva in suggezione il Petrarca.

(2) E pur io scuserei, per iscusar anche me, chi al sospetto aderis se dell' Ab. de Sade, che l' invidia potesse avervi avuto alcun luogo. (3) Vuol dire altro idioma, cioè il latino.

ch'egli avrebbe potuto ogni cosa, alla quale e' si fosse арplicato: or a quali egli abbia atteso, è gia (1) manifesto. E diasi ancora, ch'ei v'abbia atteso, ed abbia potuto, e ne sia riuscito; che monta in fine? Me ne verrebbe per ciò materia d'invidia, e non piuttosto di compiacenza? Ma a chi finalmente invidierà colui, che (2) non invidia a Virgilio? Quando per avventura io non gl'invidj l'applauso e'l rauco mormorio de' folloni, de tavernieri, e macellaj, e degli altri, che (3) biasimano quelli, che non hanno in animo di lodare, de' cui elogi con lo stesso Virgilio e con Omero (4) ho piacer di star senza: o quando non si debba credere, che mi sia più caro un Mantovano d'un cittadin Fiorentino, perchè (5) l'origine per se stessa, se altro non vi s'aggiunga, non ha merito:

(1) Li più scritti di Dante in fatti, massimamente poetici, sono volgari.

(2) Oh questa ragione è stupenda!

(3) Di qui è chiaro, che i fautori di Dante non erano liberali in lodar il Petrarca, e piuttosto il biasimavano: e per questo forse egli calca incontra di loro la penna.

(4) Pare contraddizione col favor popolare, che aveva, pure o poco o molto, il Petrarca, com'egli ha detto in altro luogo, e non è: poichè datosi egli alla poesia latina, non riscuoteva egli per quella applauso alcu no dal volgo, che non ne intendeva parola: e qui dice che si compiace d'esserne privo, come eran privi Omero e Virgilio: ma intendi, che al tempo del Petrarca non erano questi sommi poeti dalla gente volgare lodati; poichè a' tempi loro, e finchè visse la lingua latina e la greca, erano da quella pur lodatissimi.

(5) Il senso è ironico; poichè l'origine è anzi meritevole per se stessa, senz'altro aggiunto, d'amore: siccome ci viene rappresentato al vivo dal nostro Poeta (Pg. VII. 1.) nelle oneste e liete accoglienze che iteratamente si fanno Sordello e Virgilio, solo per essersi riconosciuti ambedue per cittadini di Mantova.

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