Sayfadaki görseller
PDF
ePub

quantunque io sappia, che tra vicini particolarmente (1) signoreggia l'invidia. Ma questo sospetto, via dal molto ch'è detto, il toglie ancora la differenza dell' età: poichè, come dice elegantemente colui, che nulla dice senza eleganza, I morti vanno esenti dall'odio e dalla invidia. Io tel giuro, e tu'l credi: l'ingegno e lo stile di lui mi diletta; nè io soglio mai, se non magnificamente, parlarne.

XI. Una cosa sola a chi me ne fece più scrupolosa ricerca una volta risposi; esser lui stato ineguale a se stesso; perchè nell'eloquenza volgare e' si leva più alto e più luminoso, che (2) ne'carmi sia, o nella prosa. Ciò che nè tu negherai, nè altro ciò importa, a giudicar sanamente (3), che lode e gloria di lui. Imperciocchè anche quando l'eloquenza massimamente fioriva (non dirò adesso ch'ella è morta e compianta ) chi fu mai sommo in ogni parte di quella? Leggi i libri delle Declamazioni di Se

(1) Questa materia è dispiegata molto bene nel Cony. Tratt. 1. (2) Nel Testo, quàm carminibus aut prosa: dove per carmi, a giudicio mio, intender s' hanno versi latini, e similmente prosa latina per prosa. Dee aver veduto il Petrarca l'egloghe e le prose latine di Dante, nè devongli esser parute (come in fatti non sono) degne di star a fronte delle Rime e della Commedia, nè del volgare sciolto ch'è nella Vita Nuoe ne' Trattati del Convito; e per questo dice ch' ei fu ineguale a se stesso, non essendo del pari riuscito nell' eloquenza latina e nella volgare. Laddove egli tacitamente ne insinua d'essere stato a se eguale ne' Carmi, e nella Prosa; e fors' anche eccellente nell' uno e nell'altro ; ancorchè ciò non sia riuscito nè a Platone, nè a Virgilio, nè a Sallustio, nè a Cicerone. Ma, per ciò che dice nella sua Storia il ch. Sig. Tiraboschi, non passò molto, ch'egli stesso conobbe il suo inganno.

va,

(3) Per questo forse, perchè più si loda di prudente colui, che si studia di farsi eccellente in un artificio, che in più; e perchè più facilmente si crede, ch' ei ne sia riuscito.

neca; ciò non si concede a Tullio, non a Virgilio, non a Sallustio, non a Platone. Chi vorrà lode d'ingegno ambire (1), che non gli sia stata concessa? Basta in un sol genere l'eccellenza. Che s'egli è così, tacciansi, prego, i fabbricatori della calunnia: e que' che per sorte a'calunniatori credettero, leggano, se loro aggrada, il giudicio mio. Deposte queste cose, che mi premevano, appresso di te, vengo alla seconda parte.

XII. Che tu mi ringrazj dell' esser io stato tanto sollecito della tua salute, il fai più per urbanità e per usanza comune, che perchè tu non sappia essere un tal complimento superfluo. Imperciocchè a chi mai si son rese grazie per aver egli avuto cura di se, o per aver bene amministrata alcuna sua cosa? In te, amico, si tratta del fatto mio. Quantunque nelle cose umane, dalla virtù in fuori, niente è più santo, niente più celeste, niente più a Dio conforme dell' amicizia, pur importa a mio giudicio il vedere, se tu cominci ad amare, o ad esser amato; poichè un po' più religiosamente sono da coltivarsi le amicizie, nelle quali rendiamo l'officio dell' amore, che quelle, in cui l'assumiamo. Or per tacer molte tue buone grazie e amorevolezze, nelle quali so d'esser al di sotto di te, io non potrò mai dimenticarmi di quella, che tu mi usasti (2) già tempo, quando viaggiando io fretto

(1) Com'ei disse nelle sue Rime, Par. 2. Son. 266.

Nè si fa ben per uom quel, che'l ciel nega.

(2) L'anno del Giubileo 1350, allorchè, andando lui a Roma, passò per Firenze. Anche di quì si conferma ciò, che si è detto di sopra nell' Annotaz. 8.

loso (1) per mezzo l'Italia nel cuor del verno, tu non coi soli affetti, che sono in certo modo i passi dell' anima, ma col moto eziandio del corpo, per desiderio mirabile di persona non per anco veduta, prestamente mi prevenisti, mandatomi innanzi un non ignobile (2) carme. E così il volto prima dell' ingegno tuo, e poi quello del corpo a me, cui tu avevi decretato d'amare, mostrasti. Quel giorno era già sera, e poco ci si vedea, quando tornando io là, d'onde m'era da tanti anni partito, ed essendo entrato finalmente nelle patrie mura, tu mi sorprendesti con officioso (oltre il mio merito) e riverente saluto, ed abbracciandomi rinovasti quel congresso poetico con Anchise del Re Arcadio (3), Il quale ardea di giovanil desio

Di favellargli, e stringergli la destra:

che sebben io non andassi, come quegli, più altero di tutti, ma più dimesso, non men vivo però fu l'ardore dell'animo tuo. Allora tu non m'introducesti nella rocca di Fineo, ma ne' sacri penetrali della tua amicizia: nè io ti donai l'insigne faretra, e le Licie saette, ma la mia perpetua e sincera benevolenza; nella qual sola io non vorrò mai (benchè in molte cose inferiore) nè a Niso ceder, nè a Pizia, nè a Lelio. Sta sano.

(1) Per l'Appennino, ch' Italia parte.

(2) Questo Carme non m'è incontrato di ritrovarlo.
(3) En. VIII. 163.

[blocks in formation]

De'vizj a Dante imputati da Gio. Boccaccio,
e da altri.

Uno de' miei studj particolari in Firenze, egli fu quello d'investigar colla possibile diligenza, se si verificasse la quasi comune opinione degli Espositori di Dante; ch'egli, cioè, sia stato di vita scorretta e macchiata di vizj anche più abominevoli. Devo però dichiarare ad onor della verità, che per quanto io abbia rintracciato nelle antiche e nelle moderne memorie, non m'è riuscito di ri trovarne fondamento alcuno di vaglia. Ho ben discoperto al contrario nuovi argomenti a confermar i buoni costumi di lui, e a confonderne i detrattori. L'uno è l'Epistola data di sopra nel Cap. XV. L'altro è l'essermi assicurato, che tutta la maldicenza degli Scrittori è fondata su la loro ignoranza in ordine alle allegorie del Poeta, e su l'aver essi supposte per vere tre o quattro cose, che pur sono falsissime. La prima, ch'egli dica nel principio della Commedia d'essere stato combattuto e vinto dalla lussuria, dalla superbia, e dalla avarizia. La seconda, che Beatrice veracemente il riprenda nel Purgatorio d'aver lasciato lo studio della Filosofia per darsi al piacere de' folli amori. La terza, che nelle Rime, massime nelle Canzoni, ei si dimostri appassionato nell'amor delle femmine. La quarta finalmente, ch'egli si manifesti colpevole di tutti que' vizj, de' quali compiagne e deplora nel suo Inferno l'atrocità della pena.

Di queste supposizioni la prima, cioè che nel maggior suo Poema si dica egli medesimo e si manifesti vizioso, è una vera menzogna; poichè nell'opera istessa si dice egli e si manifesta ancora ignorante: ma niun dirà vero questo; dunque nè men quello. Nè pur la seconda può esser vera, nè la terza, perchè poco dopo la morte della sua donna intraprese egli lo studio della Filosofia, nè lasciollo mai più: e se parve al Boccaccio, e ad altri ch'egli amasse nelle sue Rime, o lodasse, via da Beatrice, dell' altre fanciulle, si dimostrerà, non con argomenti fantastici, ma colle parole stesse dell'Autore, ch'egli amò e celebrò sotto cotali figure la Sapienza, ovvero la Filosofia. Di questa verità n'ebbe alcu no barlume il Buti, il quale scrisse nel suo Comento (1): » Fu ancora lo prefato nostro Autore passionato nella giova nezza sua di quella passione, che comunemente si chiama amore, comelli dimostra in alcuna delle sue canzoni (2) morali dico in alcuna, poichal mio parere in moltaltre ebbe altro intendimento allegorico, come ben si può accorgere chi perspicacemente legge quelle ». Della qual perspicacia non essendo stati capaci gli altri suoi Espositori, n'ebbe mala fama l'Autore. Ma così è, o Signori, che il nostro Dante fu malmenato e avvilito dalla grossezza di quegli stessi, che presero ad illustrarlo. Per quello adunque ch'accenna il Buti, ecco l'Autor liberato dall'infamia d'aver cantato in molte delle sue Canzoni, ma io dico in tutte le da lui scritte dopo la morte della sua donna, lascivi amori.

(1) Cod. O. I. X. della Riccardiana a due colonne ecc.

(2) Dir doveva, amorose,

« ÖncekiDevam »