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mo che ricevette Dante con provisione. Eccoti primo in isborso liberale, a preferenza di quelli ch' avranno dato all' esule Poeta la minestra o la camera senz' un quattrino. Innanzi dunque di me vi fu chi intese primo diversamente dalla volgare esposizione. Ma pur quel primo rifugio io l'ho spiegato e lo spiego per principale; cioè in isperanza il più grande, il più cortese, il più consolante. E perche mo avrà taluno questa risposta per più ingegnosa che vera? E pur a questa o simigliante risposta forz'è si riduca chi la volgare opinione difende, per quanto egli s'affretti a ricoverar il Poeta in Verona subito che i (1) Bianchi furon da Firenze respinti li 20. Luglio 1304. Imperciocchè a lui pure può farsi l'interpellanza ; Non vi fu dunque chi gli dasse ricovero prima che Alboin accogliesse? Visse egli forse per trenta e più mesi a locanda? E se altri precedentemente l' accolse, come quegli fu il primo? Nè val lo scambio, che per tutto quel tempo (chi sa?) niun altro Signore gli abbia dato ricovero: poichè Cacciaguida non fa eccezione da principe a privato; e parla solo di rifugio, ed ospizio, che Dante poteva avere in qualunque Ghibellina città, e pres

(1) Al P. Lombardi, che finge Dante d' Arezzo partito, dov' era, consigliere de' Bianchi, e venuto a Verona, vivente ancor lo Scaligero Bartolommeo, pochi mesi prima dell'assalto da quelli dato a Firenze, può dirsi ciò che Simone a Davo nell'Andria; Che poco acconciamente egli abbia saputo i tempi distribuire a tai fatti: perciocchè non è verisimile, che'l nostro Allighieri nell' espettazione d'un tentativo sì grande, ch'esser poteva di tanto interesse per lui, e che per puro accidente non riuscì, egli abbia lasciato Arezzo e la Toscana, per fuggirsene precipitosamente in quest'ultimo angolo di Lombardia: non sat commode Divisa sunt temporibus tibi, Dave, hæc.

so di qualunque amico che potesse dargli del

pane. Laonde più cauti a declinar questo intoppo mi son paruti gli antichi Comentatori, che rifugiaronlo subito dopo l'esilio presso di Bartolommeo: e più cauti ancora Giannozzo Manetti e'l Boccaccio, che presso d'Alberto, sebbene per disavventura premorto alla cacciata di Dante.

Con la detta interpretazione molto bene s'accordano le parole di Cacciaguida; il quale dopo d'aver al nipote suo prenunziato l'esilio e 'l dolore in lasciar ogni cosa diletta più caramente, pane troppo salato e dure scale gli predice, dicendo: ( v. 58. )

Tu proverai, sì come sa di sale

Il pane altrui, e com'è duro calle

Lo scendere e'l salir per l'altrui scale.

Dio sa quanti rifugi ed ostelli, ancorchè disgustosi ed amari, avrà egli provati e patiti col vagar ch' ei fece prima per l'Italia quasi mendicando, com' esso attesta nel suo Convito. Poi gli predice, che si sarebbe appartato dagli altri Usciti: (v. 68. )

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sì ch'a te fia bello

(1) L'averti fatto parte per te stesso.

Il che non fu interamente, che dopo la morte d'Arrigo, quando da' Fiorentini fu confirmata nel 1315. la sua condanna perchè, quantunque dopo li 20. Luglio 1304. avesse lasciato le pratiche, le riassunse ancora (2) nel 1307,

(1) Così è coll' articolo nel Cod. di S. *.

(2) Vedi le Mem. del Sig. Pelli §. XI. pag. 84, d'onde apparisce, che Dante in detto anno era unito d'accordo con Torrigiano, Carboe ́ Vieri de' Cerchi, Caporali de' Bianchi, e con molti altri di sua

ne,

fazione.

e l'anno stesso le dismesse; nel qual anno ebbe ricovero dal March. (1) Malaspina; e ripigliolle di nuovo per la discesa d' Arrigo in Italia. Questa par certo la serie del vaticinio; prima l'esilio, poi l'amarezza del pane altrui, indi la totale sua dipartenza dagli Usciti, e in fine il primo suo rifugio nella casa Scaligera. Primo adunque in questo luogo significa principale, cioè il più grande, il più atto a terger le lagrime dell' afflitto Poeta, il quale non isperava di meno, che d'esser colla grazia, o colla forza di Cangrande rimesso nella sua patria. Quanto tardi poi sia egli ricorso a questo Signore, si dirà nella Dedica da esso Poeta fattagli del suo Paradiso.

CAPO LII

Cangrande, Capitanio della Lega,
vaticinato da Beatrice.

Finiti, lode a Dio, e dedicati i Blandimenti funebri, de' quali, per le cose che in se hanno di Dante, avrò a fare alcuna volta menzione; ripigliar volendo la storia dell'antico Signor di Verona Cangrande, e continuarla uniforme a ciò che cantò di lui il divino Poeta, dico: che in tanta fama di valore salì e di prudenza, che da' Principi Ghibellini collegati insieme a comune difesa fu eletto a Capitan della Lega contro la forza de' Guel

(1) Questo Marchese o fu sempre Ghibellino, o aveva mutato parte, quando il Poeta ricoverossi presso di lui. Non si trova mai, che Dante dopo l'esilio si sia fidato de' Guelfi.

fi in Soncino il dì 16. Dicembre 1318. Allora fu ch' egli autorevolmente impugnò lo stendardo dell' Aquila, come Duce in Italia di tutti i seguaci dell' Imperio e allora verificossi la profezia di Beatrice, ch'è nel Canto ultimo del Pg. v. 37. e segg.

Non sarà tutto tempo senza reda

L'aguglia, che lasciò le penne al carro:
Perchè divenne mostro, e poscia preda;
Ch'io veggio certamente, e però 'l narro,
A darne tempo già stelle propinque
Sicure d' ogn' intoppo e d' ogni sbarro,
Nel quale un cinquecento diece e cinque (1)
Messo di Dio anciderà la fuja,

E quel gigante, che con lei delinque.

Ma com'è credibile, che nel 1300. (quando fu fatta questa profezia) non avesse erede l'aguglia, cioè l'aquila Imperiale, mentre imperava allora Alberto I.? Non era egli forse legittimo Imperadore? Era certamente, ma non ne compieva i doveri, poichè per cupidigia di farsi grande in Alemagna, lasciava egli in abban, come Ridolfo suo padre, l' Italia e Roma. Quindi l' acerbo rimprovero e la grave imprecazione, che gli fa Sordello nel Purg. VI. 97. dicendogli:

dono

(1) DXV. Dux.

(1) O Alberto Tedesco, ch' abbandoni

Costei, ch'è fatta indomita e selvaggia,

(1) Prima però di rampognar Alberto, sei versi innanzi, egli esclama: Ahi gente, che dovresti esser devota,

E lasciar seder Cesar nella sella,

Se bene intendi ciò, che Dio ti nota;
Guarda, com' esta fiera è fatta fella,
Per non esser corretta dagli sproni,

Poi che ponesti mano alla predella.

Questa gente è la stessa, di cui ragiona Cacciaguida nel Par. xv1. 58.
Se la gente, ch' al mondo più traligna,

Non fosse stata a Cesare noverca,

Ma come madre a suo figliuol benigna ;

Tal fatto è Fiorentino, &c.

Et a questa Curia Romana, la quale dovrebbe acquetarsi a ciò the Dio le notifica nella sacra Scrittura in favore di Cesare, e lasciarto seder nella sella, ch'è Roma, a ben cavalcare l'Italia. Guarda, dice Sordello, come questa fiera, cioè cavalla indomita, è divenuta maliziosa e cattiva, perchè non tenuta in dovere dagli sproni dell'Imperadore, dapoi che tu, volendola tener a tua posta, mettesti mano alla predella, o, com'è nel comento (*) a Pietro di Dante attribuito, alla bredella. Quasi dica: Tu che ricusi di fare il voler di Dio a te abbastanza notificato, col lasciar a Cesare la reggenza temporale di Roma, vedi come l'Italia n'è divenuta perversa; non essendo giovato a niente l'averle tu posta la mano alla briglia, mentre non fu cor→ retta dall'autorità e dalla forza del suo legittimo cavalcatore. Laonde l'Autor nel Convito, Tratt. II. Sicchè quasi dire si può dello Imperadore, volendo il suo ufficio figurare con una immagine, che el-, li sia il cavalcatore della umana volontà: lo qual cavallo come vada senza il cavalcatore per lo campo, assai è manifesto, e spezialmente nella misera Italia, che senza mezzo alcuno alla sua governazione è rimasa E nella Monar. Lib. III. Cap. 15. Has igitur conclusiones et media.... humana cupiditas postergaret, nisi homines, tamquam equi, sua bestialitate vagantes, in chamo et fræno compescerentur in via,,.

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(*),, Albertus neglexit, ut etiam dictus ejus pater, venire in Italiam, et sic acceperunt Imperium per bredellan freni, sed in sella. i. in Roma non apprehenderunt. i. non venerunt in Italiam ad coro

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