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na d'ignoranza, di errori, e di passioni disordinate, in cui si smarriscono, venuti in età, i più di quei che ci nascono. Il colle è l'apice del buon costume, della scien za al proprio stato richiesta, e della santa Religione; al quale pochi si sforzano di salire, e più pochi sono quelli, che, superati gli ostacoli, vi arrivino felicemente. La lonza è già la lussuria, il leone la superbia, e la lupa ognun la conosce per l'avarizia. Virgilio è la scienza morale; Dante è la figura dell' uomo ignorante, e perduto ne' va ni amori, desideroso però, d' istruirsi, e di ravvedersi. Le tre donne ponno esser immagine degli ajuti, che dà Iddio o che danno le scienze, acciocchè l'uomo per istudio suo, o per istruzione d' altrui sia indirizzato al suo fine.

Il male è in questo Senso Morale, che non si sa, che sia (1) il Veltro: poichè Cangrande dalla Scala per esso istoricamente significato, il qual dovea far, morir con doglia la lupa, ed anche (2) toglier di vita il leone, non potea certo levar egli dal mondo l'avarizia, nè la superbia; da' quali vizj non si può negar, senza offender la verità,

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mal

lonia, colla reggenza in quel tempo di Roma; la qual città era per governo, come uno specchio, cioè un ritratto ( Inf. XIV. 103. ) di quel veglio, da cui nascevano i fiumi.

(1) Chi'l disse Cristo, chi universale Signore, chi (come Pietro di Dante) un Principe virtuoso, che l'Autore per sua scienza'' astronomica prevedea dover esser nel 1344. o 45. Io non saprei chi dirlo, via da Cangrande nel senso istorico; poichè il morale in niuna maniera all'esser di lui si conviene. Non è già da credersi, che Dante Alighieri gli sia stato adulatore a tal segno, che gli abbia attribuito imprese alla forza umana impossibili.

(2) Questa particolarità che 'l Sig. di Verona Cangrande avesse ad esser uccisor della lupa, ed eziandio del leone, vedila dimostrata nel Cap. LIII. e LV.

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che non sia stato preso un po' troppo egli stesso, tanto che per cupidigia di dominare (ch' è superbia con avarizia congiunta) ei finì prima del tempo i suoi giorni. Un altro incomodo nella moralità di queste fiere s' incontra : che la più cercata a morte in tutto 'l Poema è la lupa; la meno il leone; la niente affatto è la lonza: e perchè mai costei, s'ella è la lussuria, non dee aver chi la sog gioghi e la uccida? Diremo forse col P. M. Lombardi, che l'uccisor della lonza aveva ad esser lo stesso Dante; ch' egli doveva prenderla e scorticarla, e portarne in trionfo la pelle (1)?

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Nè anco l'ordinanza e la forza morale delle medesime fiere sembra quì essere acconciamente distribuita: perciocchè la superbia, nel leone rappresentata, esser doveva (2) la prima, e la più feroce, è la più perniziosa, come quella ch'è il vizio capitalissimo di tutti i vizj. Ma

(1) Di questa non meno falsa, che ridicola interpretazione, vedi ciò che si è detto nella Nota (a) al Cap. XII. pag. 96. dell'Opusc. De' blandimenti funebri, Padova 1794. 4.

(2) Par. XXIX. 55. Principio del cader fu il maladetto

Superbir di colui, che tu vedesti ·

Da tutti i pesi del mondo costretto'.'

Così Beatrice in parlando degli Angeli precipitati dal Gielo. E' primo Padre alla question del Poeta, qual fosse stata in lui la cagion del gran disdegno: Par. XXVI. 115..

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Or, figliuol mio, non il gustar del legno

*

Fu per sè la cagion di tanto esilio,

Ma solamente il trapassar del segno..

cioè il non voler rimaner entro i limiti, il trapassarli, l'insuperbire. E la superbia medesimamente in noi figliuoli d'Adamo è la cagione principalissima d'ogni nostra sciagura. Con quant' ordine per contrario sieno queste fiere disposte secondo l'istorica verità, vedilo ne' Capitoli antecedenti.

queste inconvenienze appunto ci mostrano il senso morale imperfetto, e posto solo a dar nutrimento a' rozzi e semplici, che non ponno gustar della storia. Nulla di meno non è da sprezzarsi, comunque spiegar si possa, la detta moralità; poichè di essa, come di bella ed odorosa scorza di melarancia, o di cedro, si son dilettati anche gli uomini dotti, prima ch'io avessi la buona fortuna di porger loro la polpa e'l succo più dilettevole e sostanziale nel senso istorico all' intelligenza necessario dell' intero Poema (1).

(1) Dico dell' intero Poema, perchè nella mirabil visione, da cui principia Dante la divina Commedia, da quando egli si trova nella selva fino all'entrar nell' Inferno, che fu per lo spazio d'una notte, e d'un dì, sono epilogati gli avvenimenti principali a lui appartenenti di ventidue mesi, dal Marzo 1300. al Gennaro 1302. che sono il mal governo della Repubblica Fiorentina, la dissensione per le nuove fazioni, i suoi studj, il suo Priorato, le potenze nemiche che lo ruinarono, (quella massime da lui detta la lupa ) l'esilio, e le conseguenze di quello. Dal suo ingresso poi nell' Inferno sino al termine della visione sono sviluppati i fatti sopraddetti, ed in oltre i casi principali di Firenze, della Francia, de' Papi, degli amici e nemici suoi, all'interesse suo relativi: così chè quella prima vision della selva, del colle, delle fiere ec. ella è come il modello della gran tavola esposta nel teatro della Commedia .

CAPO LVIII

Dante avea preso a scrivere il suo poema in versi Latini, come dalla seg. Epistola dedicatoria dell' Inferno (1).

Egregio, et magnifico viro Domino Uguiccioni de Fagiola inter Italicos proceres quamplurimum præminenti Fr. Hilarius humilis Monachus de Corvo in faucibus Macræ salutem in eo, qui est omnium vera salus. Sicut Salvator noster evangelizat: bonus homo de bono thesauro cordis sui profert bonum, in quo duo inserta videntur, ut scilicet per ea, quæ foras eveniunt, intrinseca cognoscamus in aliis, et ut per verba, quæ ob hoc data sunt nobis, nostra manifestemus interna. A fructu enim eorum, ut scriptum est, cognoscetis eos, quod licet de peccatoribus hoc dicatur, multo universalius de iustis intelligere possumus, quum isti semper proferendi, et illi semper abscondendi persuasionem quodammodo recipiant. Nec solum gloriæ desiderium persuadet, ut bona, quæ intus habemus, fructificent de foris, quin ipsum Dei deterret imperium, ne si qua nobis de gratia sunt concessa, maneant otiosa. Nam Deus, et natura otiosa despiciunt. Propter quod arbor illa, quæ in ætate sua fructum denegat, igni damnatur. Vere igitur iste homo, cujus opus cum suis expositionibus a me factis destinare intendo, inter alios Italos hoc, quod dicitur de prolatione interni thesauri, a pueritia reservasse (f.legendum RESERASSE)

(1) Si legge appresso il ch. Lorenzo Mehus nella Vita d'Ambrogio Camaldolese pag. CCCXXI.

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est,

videtur, quum secundum quod accepi ab aliis, quod mirabile ante pubertatem inaudita loqui tentavit, et mirabilius quæ vix ipso latino possunt per viros excellentissimos explicari, conatus est vulgari aperire sermone. Vulgari dico, non simplici, sed musico. Et ut laudes ipsius in suis operibus esse sinantur, ubi sine dubio apud sapientes clarius elucescunt, breviter ad propositum veniam. Ecce igitur quod quum iste homo ad partes ultramontanas ire intenderet, et per Lunensem Dioecesim transitum faceret, sive loci devotione, sive alia caussa moi ad locum Monasterii supradicti se transixlit, quem ego quum viderem, adhuc et mihi, et aliis fratribus meis ignotum interrogavi, quid peteret. Et quum ipse verbum non redderet, sed loci tantum constructioñem inspiceret, iterum interrogavi quid peteret, aut quæreret. Tunc ille circumspectis mecum fratribus dixit pacem. Hinc magis, ac magis exarsi ad cognoscendum de illo, cujus conditionis. homo hic esset, traxique illum seorsum ab aliis, et habito secum deinde colloquio ipsum cognovi, quem quamvis illum ante diem minime vidissem, fama ejus ad me per longa primo tempora venerat. Postquam vero vidit me totaliter sibi attentum, affectumque meum ad sua verba cognovit, libellum quemdam de sinu proprio satis familiariter reseravit, et liberaliter mihi obtulit. Ecce, dixit, mea pars operis mei, quod forte numquam vidisti. Talia vobis monumenta relinquo, ut mei memoriam firmius teneatis, et quum exhibuisset, quem libellum ego in gremium gratanter accepi, operui, et in ejus præsentia oculos cum effectione defixi. Quum-. que verba vulgaria percepissem, et quodammodo me me admirari ostenderem, cunctationis meæ caussam petivit, cui me super qualitate sermonis admirari respondi, tum quod

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