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SONETTO XVI (34).

Salii col pensiero al cielo dov'è Laura; ivi nel terzo cerchio la rividi più bella e più benigna. Mi prese per mano e mi disse: qui verrai anche tu se il mio desiderio non falla; io son quella che ti diede tanti affanni e morii prima del tempo. La mia beatitudine non può essere compresa da umano intelletto; tu solo manchi alla mia perfetta felicità e quelle membra che tanto hai amato e son rimaste in terra. Perchè tacque e lasciò la mia mano? Che a così soavi parole poco mancò ch'io non rimanessi in cielo.

Schema: A B B A, A B B A, C D E, C D E.

Levommi il mio pensier in parte, ov'era
Quella ch' io cerco e non ritrovo in terra :
Ivi, fra lor che 'l terzo cerchio serra,
La rividi più bella e meno altera.

Per man mi prese e disse: In questa spera
Sarai ancor meco, se 'l desir non erra:
I' son colei che ti die' tanta guerra,
E compie' mia giornata innanzi sera.
Mio ben non cape in intelletto umano:
Te solo aspetto, e quel che tanto amasti,
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo.

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Deh perchè tacque ed allargò la mano?
Ch'al suon di detti sì pietosi e casti
Poco mancò ch' io non rimasi in cielo.

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In questo sonetto è notevole non pure l'esservi Laura rappresentata come tutta amante e desiderosa del poeta, si eziandio come dotata di sentimenti al tutto proprii di questa terra e conformi all'indole femminile. Chè non contenta ella di confessare che alla sua beatitudine celeste manca la compagnia del P., memore dell' affetto onde viva egli l'avea proseguita, non si perita desiderare anche colassù il bel velo che tanto gli era piaciuto, quasi che nel cielo avesse ad essere men perfetto e men dolce l'amore senza le belle membra che in terra furono oggetto di tanto desiderio. Questo sentimento, direi quasi, di vanità femminile, scambio di togliere aggiunge pregio al sonetto, nel quale Laura non è una fredda figura d'angelo smarrita nelle nubi dell'astrattezza, del misticismo, della metafisica platonica; anzi è una figura mirabilmente umanizzata e per ciò solo nell'arte nostra, ch'è umana cosa, e specchio d'umani affetti, in ogni parte perfetta.

SONETTO XVII (38).

Laura che mi mostrava la gloriosa via del cielo, tornando al suo fattore ha chiuso in pochi sassi il lume della mia vita e la sua spoglia terrena. Onde son divenuto quasi una fiera, che vo errando solitario, stanco, vergognoso e piangente pel mondo, divenuto per me un selvaggio deserto. Così cerco ogni luogo dove la vidi e tu solo o amore m'accompagni e mi guidi. Io non la trovo già; ma vedo le sue sante orme tutte rivolte al cielo, lontano dalla via della perdizione.

Schema: A B B A, A B. B A, C D C, D C D.

Quel Sol che mi mostrava il cammin destro
Di gire al ciel con glorïosi passi,

Tornando al Sommo Sole, in pochi sassi
Chiuse 'l mio lume e 'l suo carcer terrestro:

Ond' io son fatto un animal silvestro,

Che co' piè vaghi, solitari e lassi

Porto 'l cor grave, e gli occhi umidi e bassi Al mondo, ch'è per me un deserto alpestro. Così vo ricercando ogni contrada

Ov' io la vidi; e sol tu che m'affligi,

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Amor, vien meco e mostrimi ond' io vada. Lei non trov' io; ma suoi santi vestigi, Tutti rivolti alla superna strada, Veggio, lunge da' laghi averni e stigi.

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SONETTO XVIII (42).

Ritorna zefiro e riconduce il bel tempo e i fiori e l'erba, e il canto degli augelli e la variopinta primavera. Ridono i prati, si rasserena il cielo, e amore signoreggia tutta la natura. Ma per me infelice, tornano più dolorosi i sospiri che dal mio cuore trae quella che è fuggita in cielo, e le bellezze e le feste della natura sono un deserto per me.

Schema: A B B A, A B B A, C D C, D C D.

Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena,
E i fiori e l'erbe, sua dolce famiglia,
E garrir Progne e pianger Filomena,
E primavera candida e vermiglia.
Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena;
Giove s'allegra di mirar sua figlia;
L'aria, l'acqua e la terra è d'amor piena;
Ogni animal d'amar si riconsiglia.
Ma per me, lasso! tornano i più gravi
Sospiri, che del cor profondo tragge
Quella ch'al ciel se ne portò le chiavi :
E cantar augelletti, e fiorir piagge,
E 'n belle donne oneste atti soavi,
Sono un deserto, e fere aspre e selvagge.

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SONETTO XIX (43).

Quell' usignolo che piange così soavemente forse i suoi figli e la sua consorte empie l'aria de' suoi pietosi canti; e sembra che tutta la notte faccia eco al mio dolore e mi rammenti la mia sventura; che d'altri non posso lagnarmi, non pensando io che morte potesse operare in divina creatura. È facile ingannare chi non sospetta! Chi avrebbe pensato si spegnessero quegli occhi più splendidi del sole? Così la mia sorte vuole ch'io vivendo in lagrime impari come son caduche le mortali bellezze.

Schema: A B A B, A BA B, C D C, EDE.

Quel rosignuol che si soave piagne
Forse suoi figli o sua cara consorte,
Di dolcezza empie il cielo e le campagne
Con tante note sì pietose e scorte;
E tutta notte par che m'accompagne
E mi rammente la mia dura sorte:
Ch'altri che me non ho di cui mi lagne;
Chè 'n Dee non credev' io regnasse Morte.
Oh che lieve è ingannar chi s'assecura!
Que' duo bei lumi, assai più che 'l Sol chiari
Chi pensò mai veder far terra oscura?
Or conosch' io che mia fera ventura
Vuol che vivendo e lagrimando impari
Come nulla quaggiù diletta e dura.

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