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le testimonianze del Petrarca stesso, il quale in parecchi luoghi, sì in verso che in prosa, ci ha lasciato prove evidenti che la sua Laura fu persona vera, amata d'amore; non istudio di rettorica, nè culto di sapienza o desiderio di gloria. Questo noi dobbiamo tenere per sicuro e a questo accontentarci. Noi non dobbiamo cercare a quale Laura storica possan convenire le qualità di questa Laura poetica. Il Petrarca con artistica inconsapevolezza ha trasformata la sua Laura vera, ed ora noi a traverso il lavorìo della fantasia innamorata non ne potremmo in niun modo discernere i contorni reali. E poichè del resto Laura non vive che della vita poetica che il Petrarca le ha dato, voler rifarne in qualche modo l'originale dietro scarse ed ingannevoli traccie, è toglier pregio ed effetto alla poesia, senza che l'arte o la storia se n'avvantaggino punto.

Ciò malgrado ancor nel cinquecento fu una febbre degli eruditi in cercar le vere vestigie di Laura. Nel secolo passato un abate De Sade, argomentandosi rivendicare una gloria di famiglia, mise insieme una bella ed utilissima serie di memorie a conforto della sua asserzione che la donna del Canzoniere era nata da Odiberto di Noves, maritata al baronetto Ugo De Sade, a cui dette undici figliuoli. Non sembrò vero agli scrittori di aver potuto trovare un nome, e Laura De Sade passò trionfalmente nella storia letteraria, circonfusa della gloria del Canzoniere. Se non che la critica moderna ha ridotto al suo proprio valore l'asserzione del De Sade, la quale vuol tenersi in conto d'una mera congettura, pur riconoscendo che, ove si voglia avventurare un'ipotesi, quella è certamente la meno infondata.

Fu detto che il Petrarca è il primo uomo moderno; ciò vuol intendersi con discrezione. Nel trecento il medioevo dominava ancora e doveva di necessità riflettersi nel Petrarca che fu una delle più grandi personificazioni di quel secolo. E così accadde per l'appunto; onde quel contrasto tra il vecchio e il nuovo, ch'è il peculiar distintivo del tempo, travaglia acre e continuo lo spirito del poeta. Da canto allo studio dei

classici, lo studio dei dottori della Chiesa; da canto all'amor della donna, il misticismo; insieme alla febbre ardente della bellezza e delle gioie terrene, il cupo pensiero dell'oltretomba. La lotta ch'è nell'animo del poeta e ne tormenta la vita ferve in ogni pagina del Canzoniere. Alle volte è il sentimento umano che vince e allora fremono i desideri dell'innamorato; allora egli accusa la durezza di Laura, si lagna che ella troppo di rado gli si lasci vedere; ripensa ai luoghi dove la vide, e le forme e le viste di lei, e si dibatte sotto il giogo dell'amore e vorrebbe scuoterlo o morire. Alle volte invece le due coscienze si consociano, i due sentimenti opposti si contemperano e l'amor suo di terreno si fa spírituale; allora Laura diventa per lui sprone a belle opere e fonte di santi e nobili pensieri, e gli apre la via che lo conduce al cielo. Ma talvolta il misticismo prende bruscamente il sopravvento e il povero poeta condanna il suo amore, disprezza le belle membra, che ha tanto desiderate, domanda a Dio inspirazione a una vita migliore, chiama perduto il tempo speso in amore e chiama cosa indegna l'aver posto in creatura mortale tanta fede quanta solo si conviene alla divinità.

Se non che mentre Laura era viva, egli aveva un bel sognarsela e un bel fantasticare; i pensieri soavi e le care immagini dovevano tosto sfatarsi dinanzi alla cruda realtà. Perocchè ella era sorda ai suoi sospiri e non sapeva i suoi vaneggiamenti. Ma quando. Laura venne à morire, il poeta potè scordare gl'inutili desiderii e le speranze deluse e lasciar libero il volo alla sua fantasia e immaginare nelle gioconde illusioni la carissima donna fatta pietosa, innamorata anch'essa e tutta occupata dell'amor suo. Per tal guisa nella seconda parte del Canzoniere Laura si trasfigura e, d'idolo ch'era, diventa veramente donna. Nella prima parte è schiva e fredda, compassata, statua più che persona; qui invece è amabile ed amorosa, scende a consolare il poeta, non sospira che di lui, ascolta attentamente la storia delle sue pene, gli asciuga il pianto con la mano tanto desiderata e gli dice parole d'ineffabile dolcezza. Così con la morte di Laura

si calma il dissidio che lacerava il cuore al poeta, il quale ora può serenamente contemplare nelle sue estasi la cara donna, tutta data all'amor suo, con affetti e sentimenti tutt'umani, senz'ombra di sensuale nè di mistico. E conversa con lei e, ripensando il passato, stima bella e loda e benedice la sua durezza, non attribuendola ad altro che al verace amore che ella nutriva per lui. Ciò appar chiarissimo a chi legga l'ultima parte del Trionfo della morte, dove il poeta introduce Laura stessa a confortarlo in così fatta guisa.

I Trionfi sono l'ultimo lavoro poetico del Petrarca e sentono alquanto dell'imitazione della Divina Commedia, di cui il Boccaccio nel 1359 mandò all'autore un esemplare scritto di proprio pugno. Il concetto dei Trionfi è morale, e la forma è allegorica, perchè rappresentano per mezzo di simboli e personificazioni vari stati e condizioni dell'uomo. Non c'è nè larghezza di disegno, nè splendore d'immagini, e le figure non hanno vita, ma sono ombre. Solo dove campeggia Laura il grande lirico riprende anima e calore è torna uguale a se stesso.

Il titolo di Trionfi viene ai sei poemetti da ciò, che nel primo si mostra come l'amore trionfa dell'uomo in giovinezza; nel secondo la castità, in più maturi anni, sottentra all'amore; di poi la morte disfà l'uomo e trionfa della castità; la fama, che ne conserva la memoria, trionfa poi della morte; il tempo, che la spegne, trionfa della fama; finalmente la divinità, ch'è l'eterno, trionfa del tempo.

Le rime d'argomenti morali e storici sono in tutto un paio di dozzine di sonetti e cinque canzoni; e tra queste, per tacere de' sonetti, i più dei quali non hanno speciale importanza, famosissime e lodatissime le due che cominciano:

« Italia mia, benchè il parlar sia indarno »

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Spirto gentil, che quelle membra reggi ». Quella prima fu scritta nell'inverno 1344-45 per la guerra allora combattuta intorno a Parma. Piena d'alta carità di patria, ornata d'immagini elevate, condotta

con un fare maestoso e grave e con uno stile schietto, a volte vigoroso, a volte tenero e delicato, squisitamente elaborata nell'insieme e armonicamente ordinata nelle parti, essa è ancor la più bella canzone patriottica della nostra letteratura. Il concetto che la informa è d'incitare i Signori italiani a trarsi di dosso la soma delle soldatesche mercenarie. Molti erroneamente l'ascrissero al 1328, in occasione della calata di Lodovico il Bavaro; alcun altro invece la sostenne scritta nell'anno 1370.

Anche intorno alla canzone Spirto gentil v'è forte controversia. Fu creduta dai più composta nel 1347 e indirizzata a Cola di Rienzo, elevato ai 20 di maggio di quell'anno alla dignità tribunizia. Alcuni però la sostennero scritta nel 1335 per la preconizzata elezione di Stefano Colonna il giovine alla dignità senatoria. Altri mise fuori altre congetture e benchè Cola di Rienzo abbia ancora la maggior probabilità, nullameno la questione non è punto definita. Questa poesia, meno snodata dell'altra, procede con un tono assai più grave e solenne; e se c'è ugual magnificenza d'immagini e splendor di dettato, v'è forse meno calore ed efficacia; v'è più arte insomma che inspirazione.

D'argomento morale e in forma allegorica è la canzone della Gloria:

« Una donna più bella assai che il sole » volta a sollecitare la corona poetica. Un'altra:

"O aspettata in ciel, beata e bella

è indirizzata a Giacomo Colonna, vescovo di Lombes, affichè colla sua eloquenza muova gl'Italiani a secondar la crociata bandita dal re di Francia nel 1333. Una quinta finalmente:

« Quel ch'ha nostra natura in sè più degno

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fu scritta nel 1341 in onore di Azzo da Correggio e dei suoi fratelli che, tolta Parma agli Scaligeri, ne furon gridati Signori.

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