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Tal fra le Perse torme infuriava

L'ira de' greci petti e la virtute.
Ve' cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti

La fuga i carri e le tende cadute,
E correr fra' primieri

Pallido e scapigliato esso tiranno;
Ve' come infusi e tinti.

Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,

L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi

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e feroci, come i barbari Persiani. torme, dal lat. turma che, in senso proprio, era una compagnia di soldati a cavallo. In italiano vale più spesso branco d'animali, e qui forse conserva un senso dispregiativo, come pare al Castagnola. L'ira de' greci petti e la virtute. Erodoto, lib. VII, p. 223 e seg., narra le prodezze de' Lacedemoni in questa zuffa. Dice, fra l'altre cose: «Ci fu poi tra Elleni e Persiani una fiera lotta e un serra serra incredibile intorno al corpo di Leonida; ma finalmente riuscì alla virtù dei Greci di sottrarlo di mano ai nemici, che essi misero in fuga per quattro volte » (trad. Ricci). Pur da Erodoto (VIII, 24, 25) sappiamo che i Persiani morti alle Termopili furono 20,000 e 4000 i Greci, compresi i molti Iloti che combattevano al fianco degli Spartani.

v. 108-120 intralciare. « Nella prima edizione aveva stampato intralciare; poi sostituì ingombrare; infine tornò alla lezione originaria. » Mestica. Nelle annotazioni alle Dieci canzoni, Bologna, 1824, il Leopardi difende con esempi l'uso di ingombrare per trattenere, contrastare, impacciare, impedire. Vedi gli Studi filologici di G. Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1845, a pag. 219, e quivi la nota di Pietro Pellegrini. In questi due versi l'uso della costruzione inversa (la fuga, i carri, ec.) e l'andamento duro e stentato del secondo, fanno sentire mirabilmente un moto stentato e impacciato. E correr, ec., esso tiranno, cioè lo stesso Serse. Che questo re fuggisse allora pallido e scapigliato, non si trova in Erodoto; ma la cosa non è inverisimile, considerato che, prima d'esser presi alle spalle, i Greci misero più volte in fuga i nemici, e che due fratelli di Serse caddero nella pugna (VII, 225). Giustino (lib. II) racconta che gli Spartani assalirono il pretorio del re, ma lui non poterono trovare (regem non inveniunt); e di Serse medesimo fa questo ritratto primus in fuga, postremus in prælio semper visus est; in periculis timidus, sicubi metus abesset, inflatus. infusi, ec. « Qui vale aspersi o bagnati. Il Casa: « E ben conviene Or penitenzia e duol l'anima lave De' color atri e dal terrestre limo Ond' ella è per mia colpa infusa e grave.» Leopardi (annot. cit.). A poco a poco, ec. Osserva anche qui come la studiata lentezza di questo verso (tutto composto di piedi giambi), faccia sentire il venir meno di que' guerrieri. Oh viva, ec. Il Leopardi avea messo prima, evviva evviva; modo che difende lungamente nelle citate annotazioni. Ciò non ostante lo mutò poi in viva, e

Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell' imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro

Amor trascorra o scemi.

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La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle

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Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
O benedetti, al suolo,

E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall' uno all'altro polo.

Deh foss' io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest' alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i moribondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,

felicemente, sì per l'armonia, come per la nobiltà dello stile.
finchè.

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- 135

- Mentre,

v. 121-127. Prima divelte, ec. Figura iperbolica, per significare che la gloria di questi morti non può perire. Così Virgilio (Buc. I, 59 e seg.) volendo dire che nel petto di Titiro non verrà mai meno la gratitudine per il suo benefattore, suppone un numero di fatti impossibili. Ante leves ergo pascentur in æquore cervi, Et freta destituent nudos in litore pisces, ec. ec. Quam nostro illius labatur pectore vultus, e Orazio (Epod., 16) induce gli emigranti Focesi a sostenere, con simil figura, l'impossibilità del loro ritorno in patria. divelte, staccate dalla volta celeste, dove sembrano incastrate. nell' imo, nel fondo. strideranno, come un ferro infuocato tuffato nell'acqua. Vedi più oltre la Canz. ad Angelo Mai, v. 80 e quivi la nota. Di quest'antica opinione l'autore parla anche nel cap. X del Saggio sopra gli errori popolari. La vostra tomba è un'ara: parole tolte dal frammento di Simonide (vedi sopra). Il De Sanctis notando la freddezza di questo passo, conchiude: « La vostra tomba è un'ara nel poeta greco è vero letteralmente, è legato con sentimenti religiosi; nel Leopardi è una figura, e rimane come un pensiero accidentale, in debole legame con tutto il canto, ispirato da motivi umani di gloria e patriottismo. La tomba qui non è un'ara se non per così dire, e quasi per imitare il linguaggio religioso, ec.» (loc. cit., pag. 122). Tuttavia, essendo queste parole messe in bocca a Simonide, poeta greco antico, l'accusa del De Sanctis non mi pare ben fondata. Piuttosto lo raffredda quell'ampliamento che segue: e qua mostrando Verran le madri, ec. con imitazione, come avverte lo stesso De Sanctis, dal Monti, il quale, meno opportunamente del Leopardi, si valse di questo luogo comune nel Bardo della Selva Nera, v. 1: Oh illustre pugna! oh splendide Ferite generose, ec. >>

v. 128-140. Tutto questo che segue sente del retorico: ma ricordiamoci che il Leopardi era giovane, e che allora un certo esagerato entusiasmo patriottico pareva necessario a scaldare i petti degl' Ita

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SOMMARIO: Invita l'Italia a volgersi ai suoi gloriosi passati (v. 1-17) — Ricordato lo stupore dello straniero per non trovare in Firenze alcuna pietra in onor di Dante, loda e incuora gli autori ed esecutori dell' opera da compiersi, e celebra le arti come l'unica gloria e conforto che resti all'Italia (18-73) Volgendo la parola a Dante, se lo immagina allegro, non per sè, che di monumenti non abbisogna, ma per la speranza che l'Italia torni ad ispirarsi agli antichi esempi (74-119) — Deplora

liani. Così la vereconda, ec. Vuol dire « la mia fama poetica, modesta per rispetto alla vostra, possa durare quanto durerà quella di voi, che il mio canto va celebrando. » Circa la minore importanza della gloria letteraria rispetto a quella civile, vedi il Parini e la Gloria.

Questa canzone, insieme con quella che segue pel monumento a Dante, furono dal Leopardi fatte stampare a Roma, tip. di F. Bourliè, 1818, con una lettera dedicatoria a Vincenzo Monti; lettera che egli riprodusse poi, con molte variazioni di forma, nella edizione de' suoi Versi, Bologna, Nobili, 1824. Il Leopardi era pieno d'ammirazione pel poeta di Fusignano, come apparisce da una lettera in data del 21 febbraio 1817, con cui gli mandava la sua traduzione del 20 libro dell' Eneide (vedi l'Epistolario di G. L., Firenze, Le Monnier). Anche nella dedicatoria fa grandi lodi del Monti, come di colui che con altri pochissimi sostiene l'ultima gloria nostra, io dico quella che deriva dagli studi, e singolarmente dalle lettere e arti belle, tanto che per anche non si può dire che l'Italia sia morta. » Le canzoni furongli spedite con lettera del 12 febbraio 1819. Il Monti, in data 20 febbraio 1819, ringraziava il Leopardi, chiamando le canzoni stesse « belle e veramente italiane» e conchiudeva: «Il core mi gode nel veder sorgere nel nostro Parnaso una stella; la quale se manda nel nascere tanta luce, che sarà nella sua maggiore ascensione?» Vedi Fanfulla della Domenica, 30 giugno 1889. Questa all' Italia, ispirata dalle memorie de' Greci e de' Romani e dall'aborrimento alle recenti conquiste francesi, fu grandemente celebrata, e andò per le scuole, come una delle più sublimi del nostro Parnaso. Più tardi però fu riconosciuto che alquanto di gonfiezza retorica e un certo fare convenzionale, la mettevano fra le meno belle del nostro autore. Vedi DE SANCTIS, La prima canzone di G. L. nei Nuovi saggi critici, Napoli, 1879. Ciò non ostante, la nobiltà dello stile, la sonorità del verso, lo splendore delle immagini, e soprattutto l'episodio finale delle Termopili (benchè sproporzionato per lunghezza) la raccomanderanno sempre allo studio de' giovani.

la presente infelicità d'Italia, le conquiste francesi, gl' Italiani morti in Russia (120-170) · Li assolve da ogni taccia, e desidera che insorga qualche grande per salute d'Italia (171-187) Rinnova le istanze agl' Italiani affinchè si ispirino ai gloriosi antichi (188-200).

-

METRICA. Strofe 11 di 17 versi ciascuna e una finale di 13. Le strofe di numero dispari (1, 3, 5, 7, 9, 11) hanno lo schema seguente: a B c AD Be F D GEFGHIh I. Le strofe di numero pari (2, 4, 6, 8, 10, 12) hanno quest'altro schema: A B c ADbEfDGEfGHIhI.— La strofa finale più breve ha questo: A bA CbDED OF Gf G.

Perchè le nostre genti

Pace sotto le bianche ali raccolga,
Non fien da' lacci sciolte

Dell'antico sopor l'itale menti

S'ai patrii esempi della prisca etade
Questa terra fatal non si rivolga.
O Italia, a cor ti stia

Far ai passati onor; che d'altrettali
Oggi vedove son le tue contrade,
Nè v'è chi d'onorar ti si convegna.

Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,

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v. 1-6. Perchè, benchè, per quanto. - Pace sotto le bianche ali, ec. La pace, a cui qui si allude, è quella sanzionata col Congresso di Vienna del 1815. Alla Pace, personificata in sembianza d'una Dea, sono attribuite le ali, simbolo di custodia e protezione. A tutti è noto che fra le divinità venerate dai Romani fu anche la Pace, a cui Augusto eresse un altare in Campomarzio, e vi si facevano sacrifici tre volte l'anno. Ovid., Fast., I, 709. In alcune monete questa Dea porta appunto le ali. Vedi Preller, Röm. Mithologie, sez. X, lett. c. Belle sono le lodi della pace in Tibullo, I, 10, 45 e seg. e la invocazione finale At nobis, Pax alma, veni spicamque teneto Perfluat et pomis candidus ante sinus. Dell'antico sopor. Ricorda l'Italia sonnolenta del Petrarca, Spirto gentil, ec. (Italia mia): «Non spero che giammai dal pigro sonno Muova la testa per chiamar ch'uom faccia, ec. > Ai patrii esempi della prisca etade, ec. Anche il Petrarca (Canz. cit.) parla del richiamar Roma « al suo antico viaggio, e si augura che « il popol di Marte alzi gli occhi al proprio onore. » — terra fatal. Fatale, detto di paese, vuol dire << a cui si collega il destino, le sorti del mondo, »> ovvero ordinato dal destino a cose grandi. » Monti, Bassvill., III: « Allor conobbi che fatale è Roma » e il Manz., Coro del Carm.: « Fatal terra, gli estrani ricevi. »

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v. 8-17. d'altrettali, sott. uomini; simili ai passati, ai morti. -vedove, prive; ma col concetto di squallore e lutto. Nè v'è chi, ec. « Qui v'è alquanta esagerazione, se vogliamo; chè allora in Italia vivevano uomini preclari nelle scienze e nelle lettere; tali insomma da onorare il paese che li vide nascere. » Cappelletti. Collo stesso disprezzo il Petrarca (Canz.cit.): « un raggio Non veggio di virtù, ch'al mondo è spenta, Nè trovo chi di mal far si vergogni. » Secondo il Leopardi, la virtù, la grandezza e la felicità si eran ricoverate tutte nel mondo antico. Volgiti, voltati indietro a guardare le antiche glorie (vedi sopra, v. 5-6).

Quella schiera infinita d'immortali,

E piangi e di te stessa ti disdegna;
Che senza sdegno omai la doglia è stolta:
Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,

E ti punga una volta

Pensier degli avi nostri e de' nepoti.

D'aria e d'ingegno e di parlar diverso
Per lo toscano suol cercando gia

L'ospite desioso

Dove giaccia colui per lo cui verso

Il meonio cantor non è più solo.

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Ed, oh vergogna! udia

Che non che il cener freddo e l'ossa nude

Giaccian esuli ancora

Dopo il funereo dì sott' altro suolo,

Ma non sorgea dentro a tue mura un sasso,

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·E ti punga una volta Pensier, ec. « pensa agli avi perchè siano onorati con monumenti, e ai nepoti, cioè ai posteri, perchè abbiano davanti agli occhi illustri esempi da imitare. » Fosc., Sepolcri: « A egregie cose il forte animo accendono L'urne de' forti,» il qual passo, con ciò che segue (che appunto si riferisce ai monumenti di Santa Croce) dovette in gran parte ispirare al Leopardi la presente canzone.

v. 18-29. Strofa stupenda per intonazione, e piena di sublime eloquenza. D'aria e d'ingegno, ec. L'ospite, cioè, il forestiere, diverso da noi d'aria, cioè per clima, d'ingegno, cioè di natura, d'indole (secondo l'uso latino, che si trova anche nei nostri), e di parlare, cioè di favella, percorrendo la Toscana cercava ansiosamente dove fosse la tomba di Dante. Così il poeta vuol indicare l'ammirazione che fino nelle più lontane regioni si nutre per l'Alighieri, e rende più verisimile l'ignoranza della vera sepoltura di lui. Il pensiero da cui comincia questa strofa fu suggerito al Leopardi dalle parole del Manifesto per l'erezione del monumento (vedi la nota in fine): «E presso a compiersi il quinto secolo da che fu Dante; e lo straniero, che a noi si reca, tutto compreso da venerazione pe' rari uomini, che in ogni tempo hanno illustrato la Toscana, cerca ansioso il monumento di questo, che sopra tutti gli altri vola com' aquila; e non trovatolo, ne fa altissime maraviglie, e ci rampogna. > Colui, ec. Detto stupendamente, e in modo che tocca il sublime. Infatti Omero è unico al mondo come cantore originalissimo della pagana civiltà, e non men unico è Dante, come insuperato encomiatore della fede cristiana. meonio così è detto Omero, secondo l'opinione che lo fa nascere nella Meonia o Lidia. Ovid., Art. am., II, 4, Mæonio seni; Colum., proem. Deus ille Mæonius. Si trova anche chiamato Meonide, cioè figlio d'un Meone. l'ossa nude Giaccian esuli ancora. Bello e nuovo l'aggiunto esuli attribuito alle spoglie di Dante, giacenti a Ravenna in terra d'esiglio! Lucan., Fars., VIII, 837: exul adhuc iacet umbra ducis. Si sa del resto che i Fiorentini fino dal 1396 decretarono di rendere i dovuti onori al gran Poeta, e più volte ne chiesero le ossa ai Ravennati. Vedi I. DEL LUNGO, Dell'esilio di Dante, Firenze Le Monnier, 1881. Ma non sorgea, ec. Questi versi paiono ispirati da quelli

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