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Ahi son fumo quaggiù l'ore serene! Un momento è letizia, e 'l pianto dura. Ahi la tema è saggezza, error la spene.

Ecco imbrunir la notte, e farsi scura La gran faccia del ciel ch'era sì bella, E la dolcezza in cor farsi paura.

Un nugol torbo, padre di procella, Sorgea di dietro ai monti e crescea tanto Che non si vedea più luna nè stella.

Io 'l mirava aggrandirsi d'ogni canto,
E salir su per l'aria a poco a poco,
E al ciel sopra mia testa farsi manto.

Veniva 'I lume ad ora ad or più fioco,
E 'ntanto tra le frasche crescea 'l vento,
E sbatteva le piante del bel loco,

E si facea più forte ogni momento Con tale uno stridor che svolazzava Tra le fronde ogni augel per lo spavento. E la nube crescendo in giù calava Ver la marina, sì che l'un suo lembo Toccava i monti e l'altro il mar toccava.

Pareva 'l loco d'ombra muta in grembo,
Di notte senza lampa chiusa cella,
E crescea 'l buio a lo 'ngrossar del nembo.
Già cominciava 'l suon della procella,
E di lontan s'udiva urlar la pioggia
Come lupi d'intorno a morta agnella.
Dentro le nubi in paurosa foggia
Guizzavan lampi e mi fean batter gli occhi,
E n'era 'l terren tristo e l'aria roggia.
I' sentia già scrollarmisi i ginocchi
Ch'i tuoni brontolavano a quel metro
Che torrente vicin che giù trabocchi.
Talora i' mi sostava e l'aer tetro
Guardava spaurato e poi correa
Sì ch' i panni e le chiome ivano addietro.
El duro vento col petto rompea
Che gocce fredde giù per l'aria nera
Soffiando, sopra 'l volto mi spignea.

E' tuon veniami 'ncontra come fera
Rugghiando orribilmente senza posa,
E cresceva la pioggia e la bufera.

E ne la selva era terribil cosa
Il volar foglie e rami e polve e sassi,
E'l rombar che la lingua dir non osa.

I' non vedeva u' fossi ed u' m'andassi :
Tant' era pien di dotta e di terrore
Che non sapea più star nè mover passi.

Era 'l balen sì spesso che 'l bagliore
S'accendea sempre e mai non era spento,
Perch' al fine i' ristetti a quell' orrore,

E mi rivolsi indietro e 'n quel momento Si stinse 'l lampo e tornò buia l'etra Ed acquetossi 'I tuono e stette 'l vento. Taceva 'l tutto, ed i' era di pietra....

GUERRA DEI TOPI E DELLE RANE.1

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CANTO PRIMO.

Sul cominciar del mio novello canto,
Voi che tenete l' eliconie cime
Prego, vergini Dee, concilio santo,

Che 'l mio stil conduciate e le mie rime:
Di topi e rane i casi acerbi e l'ire,

Segno insolito ai carmi, io prendo a dire.

1

La cetra ho in man, le carte in grembo: or date 2 Voi principio e voi fine a l'opra mia:

'La versione leopardiana della Batracomiomachia fu pubblicata la prima volta nello Spettatore di Milano, 1817, preceduta da un erudito discorso, in cui il traduttore rifiuta l'opinione che attribuisce quel poemetto ad Omero, come pure quella che lo vorrebbe opera di Pigrete Alicarnasseo fratello della famosa Artemisia moglie di Mausolo: egli invece, mosso principalmente da un passo che sembra imitazione d'alcuni versi dell' Europa di Mosco, suppone che « l'autore della Batracomiomachia non sia anteriore al secolo terzo avanti l'Era cristiana: e certamente (aggiunge), non si trova fatta menzione del suo poema presso alcuno scrittore più antico di quel secolo. » Quanto poi allo scopo del poemetto, egli si accosta alla sentenza di Giovanni Le Clerc, il quale pensa che la Batracomiomachia non sia che una perpetua beffa e una parodia dell' Iliade » (vedi Studi filologici di G. Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1845, pag. 49 e seg.). La versione fu poi rifatta dal Leopardi, e pubblicata fra i suoi Versi, Bologna, 1826. Noi la diamo, com'è ragionevole, secondo questa edizione. Per saggio delle notevoli differenze che corrono fra le due versioni, ecco le prime tre sestine della più antica : Grande impresa disegno, arduo lavoro O Muse, voi dall' Eliconie cime

A me scendete, il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La battaglia dei topi e delle rane.

Sulle ginocchia ho le mie carte, or fate
Che nota a ogni mortal sia l'opra mia;
Che alla più lenta alla più tarda etate
Salva pur giunga; e che di quanto fia
Che sulle carte a voi sacrate io scriva,
La fama sempre e la memoria viva.

I nati già dal suol vasti giganti
Di que' topi imitò la razza audace.
Da nobil fuoco accesi, ira spiranti
Vennero al campo; e se non è mendace
Il grido che tuttor va per la terra
Questa l'origin fu di quella guerra.

1

Per virtù vostra a la più tarda etade
Suoni, o Dive, il mio carme; e quanto fia
Che in questi fogli a voi sacrati io scriva,
In chiara fama eternamente viva.

I terrigeni eroi, vasti Giganti,.
Di que' topi imitò la schiatta audace:
Di dolor, di furor caldi, spumanti
Vennero in campo: e se non è fallace
La memoria e 'l romor ch' oggi ne resta,
La cagion de la collera fu questa.

Un topo, de le membra il più ben fatto,
Venne d'un lago in su la sponda un giorno.
Campato poco innanzi era da un gatto
Ch' inseguito l' avea per quel dintorno: 1
Stanco, faceasi a ber, quando un ranocchio,
Passando da vicin, gli pose l'occhio.

E fatto innanzi, con parlar cortese,
Che fai, disse, che cerchi o forestiero?
Di che nome sei tu, di che paese?
Onde vieni, ove vai? Narrami il vero:
Chè se buono e leal fia ch'i' ti veggia,
Albergo ti darò ne la mia reggia.

Io guida ti sarò; meco verrai
Per quest' umido calle al tetto mio:
Ivi ospitali egregi doni avrai :
Chè Gonfiagote il principe son io;
Ho ne lo stagno autorità sovrana,
E m'obbedisce e venera ogni rana.

E'l topo a lui: quel che saper tu brami
Il san gl'iddii, sallo ogni fera, ogni uomo.
Ma poi che chiedi pur com' io mi chiami,
Dico che Rubabriciole mi nomo:

Il padre mio, signor d'anima bella,
Cor grande e pronto, Rodipan s'appella.

Mia madre è Leccamacine, la figlia
Del rinomato re Mangiaprosciutti.
Con letizia comun de la famiglia,
Mi partorì dentro una buca; e tutti

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per quel dintorno, per i luoghi circonvicini. E raro questo dintorno sostantivato così in numero singolare.

I più squisiti cibi, e noci e fichi,

Furo il mio pasto a que' bei giorni antichi.
Che d'ospizio consorte io ti diventi,
Esser non può: diversa è la natura.
Tu di sguazzar ne l'acqua ti contenti;
Ogni miglior vivanda è mia pastura;
Frugar per tutto, a tutto porre il muso
E viver d'uman vitto abbiamo in uso.

Rodo il più bianco pan, ch' appena cotto,
Dal suo cesto, fumando, a sè m'invita;
Or la tortella, or la focaccia inghiotto
Di granelli di sesamo1 condita;
Or la polenta ingrassami i budelli.
Or fette di prosciutto, or fegatelli.

Ridotto in burro addento il dolce latte,
Assaggio il cacio fabbricato appena ;
Cerco cucine, visito pignatte
E quanto a l'uomo apprestasi da cena;
Ed or questo or quel cibo inzuccherato
Cred' io che Giove invidii al mio palato.

Nè pavento di Marte il fiero aspetto,
E se pugnar si dee, non fuggo o tremo.
De l'uomo anco talor balzo nel letto,
De l'uom ch'è sì membruto, ed io nol temo;
Anzi pian pian gli vo rodendo il piede,
E quei segue a dormir, nè se n'avvede.

Due cose io temo : lo sparvier maligno,
El gatto, contra noi sempre svegliato.
S'avvien che'l topo incorra in quell' ordigno
Che trappola si chiama, egli è spacciato;
Ma più che mai del gatto abbiam paura:
Arte non val con lui, non val fessura.

Non mangiam ravanelli o zucche o biete:
Questi cibi non fan pel nostro dente.
A voi, che di null' altro vi pascete,
Di cor gli lascio e ve ne fo presente.
Rise la rana e disse: hai molta boria;
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.2

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1 sesamo o sisamo, seme di pianta o di erba che si coltiva ne' giardini per estrar l'olio dal suo seme, e che a noi vien di Sicilia, per altro nome detta Giuggiolena. Così il Voc. della Crusca-Manuzzi.

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gloria, superbia.

Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose
E ne gli stagni loro e fuor de l'onde.
Ciascun di noi su per le rive erbose
Scherza a sua posta o nel pantan s'asconde;
Però ch' al gener mio dal Ciel fu dato
Notar ne l'acqua e saltellar nel prato.

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Saper vuoi se'l notar piaccia o non piaccia? 17
Montami in su le spalle: abbi giudizio;
Sta saldo; al collo stringimi le braccia,
Per non cader ne l'acqua a precipizio:
Così verrai per questa ignota via
Senza rischio nessuno a casa mia.

Così dicendo, gli omeri gli porse.
Balzovvi il sorcio e con le mani il collo
Del ranocchiò abbracciò, che ratto corse
Via da la riva, e seco trasportollo.
Rideva il topo, e rise il malaccorto
Finchè si vide ancor vicino al porto.

Ma quando in mezzo al lago ritrovossi
E videsi la ripa assai lontana,
Conobbe il rischio, si pentì, turbossi;
Fortemente stringevasi a la rana;
Sospirava, piangea, svelleva i crini
Or se stesso accusando, ora i destini.

Voti a Giove facea, pregava il Cielo
Che soccorso gli desse in quell' estremo,
Tutto bagnato di sudore il pelo.

Stese la coda in acqua, e come un remo
Dietro la si traea, girando l'occhio
Or a i lidi, or a l'onde, or al ranocchio.

E diceva tra se: che reo cammino,
Misero, è questo mai! quando a la meta,
Deh quando arriverem? Quel bue divino1
A vie minor periglio Europa in Creta
Portò per mezzo il torbido oceano,
Che mi porti costui per un pantano.

E qui dal suo covil, con larghe rote,
Ecco un serpe acquaiuolo esce a fior d'onda.
Irrigidisce il sorcio; e Gonfiagote

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Giove trasformato in Toro per amore di Europa figlia d'Agenore.

Vedi Ovid., Met., II, 836 e seg.

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