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Trafora, e lo conficca in sul terreno:
Mette il ranocchio un grido, e poi vien meno.
Godipalude allor d'ira s'accende,
Vendicarlo promette, e un sasso toglie,
L'avventa, e Sbucator nel collo prende:
Ma per di sotto Leccaluomo il coglie
Improvviso con l'asta, e ne la milza
(Spettacol miserando) te l'infilza.

Vuol fuggir Mangiacavoli lontano
Da la baruffa, e sdrucciola ne l'onda;
Poco danno per lui, ma nel pantano
Leccaluomo e' traea giù de la sponda,
Che rotto, insanguinato, e sopra l'acque
Spargendo le budella, orrido giacque.

Paludano ammazzò Scavaformaggio;
Ma vedendo venir Foraprosciutti,
Giacincanne perdessi di coraggio;
Lasciò lo scudo e si lanciò ne i flutti,
Intanto Godilacqua un colpo assesta
Al buon Mangiaprosciutti ne la testa.
Lo coglie con un sasso; e per lo naso
A lui stilla il cervello, e l'erba intride.
Leccapiatti al veder l'orrendo caso,
Giacinelfango d'una botta uccide;
Ma Rodiporro, che di ciò s'avvede,
Tira Fiutacucine per un piede.

Da l'erta lo precipita nel lago;
Seco si getta, e gli si stringe al collo;
Finchè nol vede morto, non è pago.
Se non che Rubamiche vendicollo:

Corse a Fanghin, d'una lanciata il prese
A mezzo la ventresca, e lo distese.

Vaperlofango un po' di fango coglie,

E a Rubamiche lo saetta in faccia
Per modo che 'l veder quasi gli toglie.
Crepa il sorcio di stizza, urla e minaccia;
E con un gran macigno al buon ranocchio
Spezza due gambe e stritola un ginocchio.

Gracidante s'accosta allor pian piano,
E al vincitor ne l'epa un colpo tira.
Quel cade, e sotto la nemica mano
Versa gli entragni insanguinati e spira.

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Ciò visto Mangiagran, da la paura
Lascia la pugna, e di fuggir procura.

Ferito e zoppo, a gran dolore e stento,
Saltando, si ritragge da la riva;
Dilungasi di cheto e lento lento,
Finchè per sorte a un fossatello arriva.
Intanto Rodipane a Gonfiagote
Vibra una punta, e l'anca gli percote.

Ma zoppicando il ranocchione accorto
Fugge, e d'un salto piomba nel pantano.
Il topo, che l'avea creduto morto,
Stupisce, arrabbia, e gli sta sopra invano,
Chè del piagato re fatto avveduto,
Correa Colordiporro a dargli aiuto.

Avventa questi un colpo a Rodipane,
Ma non gli passa più che la rotella.
Così fra'topi indomiti e le rane
La zuffa tuttavia si rinnovella:

Quando improvviso un fulmine di guerra
Su le triste ranocchie si disserra.

Giunse a la mischia il prence Rubatocchi,
Giovane di gran cor, d'alto legnaggio;
Particolar nemico de' ranocchi;
Degno figliuol d'Insidiapane il saggio;
Il più forte de' topi ed il più vago,
Che di Marte parea la viva imago.

Questi sul lido in rilevato loco
Postosi, a'topi suoi grida e schiamazza.
Aduna i forti, e giura che fra poco
De le ranocchie estinguerà la razza.
E da ver lo farìa; ma il padre Giove
A pietà de le misere si move.

Oimè, dice a gli Dei, qui non si ciancia:
Rubatocchi, il figliuol d'Insidiapane,
Si dispon di mandare a spada e lancia
Tutta quanta la specie de le rane;
E'l potria veramente ancor che solo:
Ma Palla e Marte spediremo a volo.

Or che pensiero è il tuo? Marte rispose:
Con gente così fatta io non mi mesco.
Per me, padre, non fanno queste cose,

LEOPARDI.

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E s'anco vo' provar, non ci riesco :
Nè la sorella mia,1 dal ciel discesa,
Faria miglior effetto in quest' impresa.

Tutti piuttosto discendiamo insieme.
Ma basteranno, io penso, i dardi tuoi:
I dardi tuoi che tutto il mondo teme,
Ch'Encelado atterraro e i mostri suoi,
Scaglia de' topi ne l'ardita schiera;
E a gambe la darà l'armata intera.

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Disse; e Giove acconsente, e un dardo afferra: 19 Avventa prima il tuon, ch'assordi e scota

E trabalzi da' cardini la terra

Indi lo strale orribilmente rota;

Lo scaglia; e fu quel campo in un momento
Pien 'di confusione e di spavento.

Ma il topo, che non ha legge nè freno,
Poco da poi torna da capo, e tosto
Vanno in rotta i nemici e vengon meno.
Ma Giove, che salvarli ad ogni costo
Deliberato avea, gente alleata
A ristorar mandò la vinta armata.

Venner certi animali orrendi e strani,
Di razza sopra ogni altra ossosa e dura:
Gli occhi nel petto avean, fibre per mani,
Il tergo risplendente per natura,
Curve branche, otto piè, doppia la testa,
Obliquo il camminar, d'osso la vesta.

Granchi son detti: e quivi a la battaglia
Lo scontraffatto stuol non prima è giunto
Che si mette fra' sorci, abbranca, taglia,
Rompe, straccia, calpesta. Ecco in un punto
Sconfitto il vincitor; la rana il caccia,
E quelli onde fuggia, fuga e minaccia.

A' granchi ogni arme si fiaccava in dorso:
Fero un guasto, un macello innanzi sera,
Mozzando or coda or zampa ad ogni morso.
E già cadeva il Sol, quando la schiera.
De'topi si ritrasse afflitta e muta:
E fu la guerra in un sol dì compiuta.

la sorella mia, Pallade, figlia anch'essa di Giove.

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I PARALIPOMENI

ALLA BATRACOMIOMACHIA.

Negli ultimi anni di sua vita venne al Leopardi il bizzarro pensiero di continuare la favola omerica facendovi i Paralipomeni, come a dire, le cose tralasciate, il supplemento (titolo preso da un libro della Bibbia e dal poema di Q. Calabro Smirneo). Ma il suo intento non fu veramente quello di continuare una favola, bensì di valersi di quella finzione per racchiudervi una satira tutt'insieme politica, sociale e filosofica, dove si trova la quintessenza delle sue disperate teorie, e dove l'amore all' Italia, che pur si rivela in alcuni bei tratti qua e là, non gli toglie di deridere i liberali d'allora come inetti sognatori.1

Questo poema, ultima opera del chiaro Recanatese, fu stampato la prima volta a Parigi nel 1842 coi tipi del Baudry, edizione contraffatta dal Le Monnier in Firenze (vedi MESTICA, Le Poesie di G. L. Firenze, Barbèra, 1886, pag. 552, nota 16). Ammirato da tutti gl'intendenti per la bellezza dello stile e di molti particolari, quanto all'insieme fu variamente giudicato. Bonaventura Zumbini (La Palinodia e i Paralipomeni di G. L. nei Saggi critici, Napoli, 1876) vi notò « un continuo sacrifizio dell'arte alle intenzioni filosofiche dell' autore, le quali non si colgono adombrate nella favola, ma si veggono sempre nude, sempre presenti e invadenti il campo della poesia; » affermò che « povero nell'intreccio, di poco interesse nelle situazioni, senza verità e naturalezza ne' caratteri,

Il Leopardi ha in questo poemetto mischiati insieme i fatti del 1815 con quelli del 1820-21. Vedi qui appresso. Noi rimandiamo alle storie di que' tempi, contentandoci soltanto di qualche illustrazione presa dall'opera del Cassara, citata più giù.

il poema è più mediocre che mai nella catastrofe » e negò all'autore le qualità dell'ingegno satirico. Giovanni Mestica al contrario (Vita di G. L. nel Manuale della lett. ital. nel sec. XIX, vol. II, p. I. Firenze, Barbèra, 1885 ed in principio alle Poesie ec. Firenze, Barbèra, 1886) lo chiamò << monumento insigne del genio satirico leopardiano, » e sentenziò che « le peregrine invenzioni, il felice temperamento del reale e dell'ideale, la significazione di tante idee nuove, le descrizioni svariatissime e stupende di cose vere e fantastiche, lo stile elegante e, salvo rare durezze ed oscurità, lucido sempre e pieghevolissimo nell'ottava, costituiscono i principali pregi estetici di questo poema eroicomico. » E Salvatore Cassara (La politica di G. L., ec.) sentenziò di « non conoscere alcuno scrittore delle tre Letterature classiche e delle straniere, il quale abbia saputo immaginare poeticamente una satira sì tremenda e terribile come questa. »

Lasciando che ciascuno si formi a suo modo il giudizio sull'insieme di quest'opera (e, quanto a noi, stimando che la verità stia per avventura nel mezzo fra le diverse sentenze dei tre critici), ci contentiamo di dare dei Paralipomeni un estratto abbastanza particolareggiato, inserendovi quei passi che, mentre sono ammirabili per bellezza di stile, nulla presentano di sconveniente, per qualsiasi ragione, alla gioventù. E affinchè le principali allusioni politiche contenutevi si possan conoscere, ci facciamo lecito di riportare qui la spiegazione che ne dà il Mestica stesso (Poesie cit., pag. LXXIII e seg.) conforme, in gran parte, a quella che ne avea data Salvatore Cassara (vedi qui sotto). Egli dice doversi « raffigurare........ gl' Italiani e più specialmente i Napoletani nei Topi, gli Austriaci nei Granchi, i preti nelle Ranocchie, Gioacchino Murat in Rubatocchi, Luigi Filippo di Francia (trasformato bizzarramente in re costituzionale di Napoli) in Rodipane,1 Francesco imperatore d'Austria in Senzacapo re de Granchi, il principe di Metternich (che dal 1815 in poi diresse per tanti anni la politica reazionaria delle grandi potenze continentali) nel barone di Camminatorto, il generale Mi

Il Cassara (Polit. di G. Leopardi, pag. 150 e 436) non ammette quest' allusione a Luigi Filippo di Francia, ma in Rodipane vede Ferdinando IV e poi I. Vedi la nota a pag. 158.

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