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ragionevole. E questo perchè l'intelligenza e l'esperienza invece di mostrarci nella natura ordine, giustizia, provvidenza, invece di mostrarci nella società amore e tendenze virtuose, ci convincono, secondo il pessimista, che la natura procede a caso e senza nessun riguardo per le sue creature, e che gli uomini per necessità miran solo al proprio vantaggio, essendo la virtù una larva di bello aspetto, anzi, come bestemmiò Bruto, un nome vano. E qual è infine la conseguenza logica di queste dottrine o, a dir meglio, di questi errori? Che Dio non esiste come essere intelligente e provvidente, ma si confonde colla natura, ch' egli è quella forza bruta e cieca donde ci vengono tutti i mali sotto falsa apparenza di bene. La qual benigna apparenza lusinga l'inesperto giovane per fargli poi, col successivo disinganno, assaporare tutta l'amarezza della realtà.

Tali sono, pur troppo, le teorie del pessimismo moderno, più crudo e più logico dell'antico; delle quali riboccano anche queste poesie del Leopardi, che scelte fra le più belle, e insieme fra le meno disadatte ad una scuola, presentiamo ai nostri giovani leggitori.

I quali potranno, senza danno de' buoni principii onde sono stati allevati, leggere e gustare questi canti maravigliosi e piangere le umane sciagure insieme. col poeta, se si guardino dal confondere il falso di certe conseguenze dal molto di vero che, come osservazion di fatti e analisi di sentimenti, in essi ritrovasi; poichè senza un fondo di verità umana ed universale non avrebbero certo queste poesie destato l'ammirazione di tutti.1

A confutazione della filosofia leopárdiana possono servire DOMENICO SOLIMANI, Filosofia di G. Leopardi raccolta e disaminata. Imola, Galeati, 1853; e P. E. CASTAGNOLA, I pensieri di G. L. con le osservazioni, ec. Ditta Paravia, 1889; e Detti memorabili di F. Ottonieri, ec. con le osservazioni, ec. Ditta Paravia, 1889.

È vero certamente che la vita umana (tutta insieme guardata) ridonda di mali: la sua brevità ed incertezza, quando altro non fosse, e l'aver sempre davanti il tetro fantasma della morte; le malattie, gli affanni, la perdita de' nostri più cari, la limitatezza delle nostre forze quasi sempre impotenti a conseguire interamente lo scopo che ci siamo prefissi, la necessità pertanto di assiduo studio e di dure fatiche per poter fare qualsiasi cosa, e ciò non ostante la facilità a sbagliare e a perdere in un momento quanto avevamo acquistato o sperato, la ingiustizia del mondo, la freddezza, la invidia, le parzialità, le calunnie, e chi più n'ha più ne metta, sono gravi e reali calamità che affliggono e affliggeranno il genere umano. Tutti i saggi lo hanno sempre ammesso, e la Chiesa stessa chiama questo mondo una valle di lacrime. » Ai suddetti mali reali si aggiungano quelli che vengon dall'animo, insaziabile di felicità, aspirante all'infinito e che trova finite e manchevoli anche le cose buone, donde la scontentezza, il disinganno, la disperazione. E questi ultimi mali che dir si potrebbero d'immaginazione afflissero, anche più de' primi, il nostro Leopardi, che troppo sensibile di fibra e delicato di complessione sentì più degli altri i desiderii e meno li potè sodisfare. Egli lamenta ad ogni istante d'esser tormentato dalla noia, peggiore, secondo lui, del dolore stesso; e negando la possibilità di godere realmente, fa consistere l'unico vero godimento nella speranza di godere, nell' illusione: si sente inconsolabile non per esser privo de' così detti beni, ma per aver perduto la speranza di felicità che in essi riponeva.1

Ma i mali del mondo non provan nulla contro la vera possibile felicità dell'uomo, nè contro la sapienza

Contro la sentenza che ripone l'oggetto della felicità nella speranza vedi la bella operetta di A. ROSMINI, Della speranza, saggio sopra alcuni errori di U. Foscolo, nel vol. Apologetica. Milano, 1840.

e onnipotenza del Creatore. Essendo il male, come i più grandi filosofi hanno dimostrato, non altro che negazione o diminuzione dell'essere, che è quanto dire del bene, chiamar cattiva l'esistenza è mera contradizione, poichè senza esistenza non potrebbe esservi alcun bene; essa è, inquanto esistenza, la condizione. necessaria di tutti i beni.' Ora l'esistenza più perfetta nella presente vita è quella dell' intelligenza e della razionalità: quindi il venire assunto a questo alto grado è il bene massimo dell' universo, è il maggior dono ricevuto da Dio. Ma un essere finito, qual è il nostro, porta per necessità molti mancamenti : mancamenti fisici, derivanti dalla materia: mancamenti morali, dipendenti dal libero arbitrio dell'uomo che è capace così del bene come del male e ne prova le conseguenze. Nè altro poteva essere, perchè un uomo e un mondo infiniti e impeccabili non poteano darsi, senza che fossero essi medesimi Dio, e Dio d'altra parte non poteva creare un altro Dio, un altro sè stesso. È dunque il male una necessaria conseguenza del bene, inquanto questo è finito; ma nol soverchia, anzi gli resta grandemente inferiore (purchè si parli di vero bene) e anche più inferiore si svelerebbe ai nostri occhi, se potessimo abbracciar colla mente le relazioni intime di tutti gli esseri dell'universo. Diciamo che anche così il male ci si mostra inferiore al bene, che i relativamente felici sono nel mondo in numero senza misura maggiore dei veri in

Si oppone da alcuni che, al contrario, il bene è spesso negazione o privazione d'un male: la sanità privazione di dolori, il piacere de'sensi soddisfazione d'un bisogno doloroso, ec. Ma cotesti beni hanno ragione di mezzo e non di fine, cioè non sono beni se non inquanto servono a beni maggiori, a quelli proprii dell'essere ragionevole. D'altra parte il godimento d'un bene involge necessariamente un desiderio di esso, una disposizione a goderne. Bene e desiderio sono termini correlativi.

Vedi la Circe di G. B. GELLI, Dialogo X, dove si racchiudono tante sublimi verità sul proposito nostro.

felici; che l'infelicità stessa porta seco, sempre o quasi sempre, qualche sollievo o godimento, e che infine gli uomini col loro ingegno rimediano a molti mali provenienti dalla natura.1

Ciò è manifestó anche giudicando a priori, perchè, nel caso contrario, gli uomini non sarebbero vissuti nè progrediti come li vediamo, anzi la natura stessa sarebbe morta, non potendo durar l'essere senza la prevalenza del bene.

L'esistenza stessa poi d'esseri razionali finiti e quindi potenzialmente cattivi e infelici, e non necessariamente buoni e beati, ha sua ragione nel compimento del fine morale, nel perfezionamento delle facoltà dell'animo, nell' esecuzione della legge impressa dalla natura medesima nel nostro cuore: bene supremo, bene a cui tutti gli altri sono subordinati. Ora la moralità suppone la libertà di peccare non meno che quella di resistere alla tendenza viziosa: suppone d'altra parte il male fisico, sia come materia di sforzi e d'industrie per rimoverlo, sia come punizione ed espiazione del fallo commesso. Dunque il Creatore dovea permettere il male, che è quanto dire creare il finito, perchè un maggior bene ne nascesse, l'attuazione della moralità."

Posti questi principii d'alta metafisica, che già i pagani avevano in parte divinato, e che dai filosofi cristiani sono stati fino all'evidenza illustrati, si chia

Il più volgare buon senso conferma questa verità: confrontate il numero dei sani con quello dei malati, degli agiati con quello dei miserabili, dei belli con quello dei brutti, dei savi con quello de' pazzi, de' lieti con quello de' tristi, e anche dei galantuomini con quello de' malvagi, e vedrete, quasi in ogni luogo e tempo, la immensa maggioranza de' primi, purchè, ben inteso, si cerchi la mediocrità, non l'eccellenza, la quale è forse così rara come il supremo difetto. Si guardi anche tutto il gran male che potrebbe succedere e che pur non succede in ogni contingenza della vita, e se ne ritrarrà motivo di consolazione.

2 Vedi ROSMINI, Teodicea. Torino, 1857, lib. II e III, e più specialmente il vol. II, pag. 9 e segg.

risce l'erroneità delle teorie dei pessimisti tratte dall'esistenza del male nel mondo.

Essi riducono tutto il bene umano ossia la felicità al piacere vuoi sensuale, vuoi spirituale; e siccome questo non può godersi intero, anzi è sovente turbato e, in molti individui, soperchiato dal dolore; così gridano contro la natura e il Creatore. Essi ripongono la meta della vita umana nel godere, e poichè tale meta non può conseguirsi appieno per la natura stessa dei beni finiti che o ci mancano o non ci appagan mai del tutto, così affermano che la vita non ha scopo, e che l'esistenza è un male. Si concepisca invece la vita umana qual è, cioè come un esercizio di doveri impostici per un fine altissimo da conseguirsi, per il trionfo del principio morale, ed allora non solo si troverà una ragione dell'esistenza umana, ma si gusteranno, senza vane illusioni, quei piaceri che l'esercizio delle nostre più nobili facoltà porta seco, e il dolore stesso non potrà abbatterci soverchiamente.1

Ed ecco in qual modo lo studio medesimo di questi versi sconsolati e sconsolanti ci può riuscire proficuo. Riflettendo sulla scarsezza e fallacia de'piaceri umani e sulla frequenza de' dolori fisici e spirituali, così vivamente e profondamente sentiti dal Leopardi, ci sarà dolce in primo luogo il piangere con lui su quei mali che noi stessi abbiam provati o possiam provare, giacchè il piangere insieme cogli sventurati è un sollievo (sunt lacrima rerum). Conosciuta poi sempre meglio la vanità di que' piaceri, di que' pretesi beni, ne distaccheremo, più che ci sarà possibile,

A questa conclusione mirò il Manzoni co' suoi Promessi Sposi. Dopo la nota comparazione dell' uomo in questo mondo, con uno che si trovi sopra un letto scomodo e, cambiandolo con altri letti in apparenza meno scomodi, provi anche in quelli il medesimo stato; ne trae questa savia sentenza (cap. ult.) « si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene e così si finirebbe anche a star meglio. Vedi FEDERIGO PERSICO, I due letti. Napoli, 1870.

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