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Che fecero alle strade tanta guerra.

Poi si rivolse, e ripassossi il guazzo.

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leggi municipali in Firenze, le quali li privarono in perpetuo d' ogni beneficio. Poi (dette queste parole), Nesso si volse indietro, si avviò per ritornare a Chirone, e ripassò il guazzo, cioè quel punto della riviera ove si guada (v. 94), e che servì di passo nel varcarlo (v. 126), portando Dante in sulla groppa, secondo la domanda di Virgilio (v. 93).

Nota le terzine 4, 8, 10, 14; alla 22, 24, 25, 28, 34, 35, 37, 42, 44.

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Di questo Canto il Cesari: «Noi siamo ad uno de' più risentiti quadri, che abbia la poesia nostra; e comechè Dante abbia presolo da Virgilio, parmi se l'abbia fatto per venire con lui a prova di superarlo. >

1-3. L'Alfieri notò il secondo e il terzo. Di là, al di là del fosso di sangue, sull' opposita sponda (Purg., VIII, 32), donde erano, passando il fiume, venuti con Nesso i Poeti. — Ci mettemmo per ecc.; notammo mettersi per mettersi in via; qui mettersi per un luogo è quanto mettersi per una via (Inf., XXX, 84), che a quel luogo conduca (cf. Inf., XXVI, 100). Intanto adunque che Nesso ripassava sull' altra sponda (Purg., XXIX, 89), i Poeti s' avanzano nel secondo girone formato da un bosco aspro e selvatico, dove sono puniti coloro che privan sè del nostro mondo, i suicidi, e chi

Biscazza e fonde la sua facultade,

gli scialacquatori (Inf., XI, 40-45). Da nessun sentiero ecc.; d'alcuno sentiero vestigio non si vedea (Conv., IV, 7).

4-6. Notati dall' Alfieri. Non frondi verdi ecc.; le piante non verdeggiavano, ma avevano un color fosco; i rami non erano lisci e dritti, ma nodosi e intralciati, e in luogo di frutta, producevano spine attossicate, e su questi alberi le brutte Arpie pascentisi delle lor foglie (v. 101). Lo Scartazzini: «Bruttissimo e spaventevole il luogo di dimora di coloro ai quali questo mondo non era bello abbastanza, avendolo abbandonato volontariamente prima che l' ora loro suonasse.» Or si legga a ristoro quale fosse la divina foresta spessa e viva nell' alto del Purgatorio, e si vedrà che fatta di tavolozza fosse mai quella dell' Allighieri (Purg., XXVIII, 1 e segg.). Rami schietti, stesi, dilicati e diritti, dice il Buti, affatto l' opposto di nodosi e involti (cf. Purg., 1, 95; XIII, 8). - Stecchi con tosco; stecchi, punte di rami, spine; ciò fa venire a mente quello che (per similitudine di certa gente che infetta col malo esempio) dice Dante di certe male piante, alle quali tagliando solo i rami, e non le radici, multiplicius virulenter ramificant (Epist., VII, 6); anche richiama alla memoria i venenosi sterpi, de' quali per la tristizia delle sue genti era tutta ripiena la Romagna (Purg., XIV. 95), non meno che gli sterpi eretici, incapaci di frutto, ne' quali percosse S. Domenico (Par., XII, 100).

7-9. Trascritti dall' Alfieri. Sterpi : «sono pruni et altri piccoli arboscelli, i quali sono molto folti ed involti insieme, nella maremma che è tra Pisa e Corneto, che si chiamano macchie» (Buti). —— Fiere selvagge, animali selvatici, che appunto per questo hanno in odio i luoghi colti, i luoghi coltivati e

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Tra Cecina e Corneto i luoghi colti.

Quivi le brutte Arpie lor nido fanno,
Che cacciâr delle Strofade i Troiani,
Con tristo annunzio di futuro danno.

Ale hanno late, e colli e visi umani,
Piè con artigli, e pennuto il gran ventre:
Fanno lamenti in su gli alberi strani.

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abitati, cercando invece boscaglie deserte. Tra Cecina e Corneto; sono i due punti estremi della Maremma Toscana; Cecina, fiume sul quale sorge la borgata omonima, è il confine settentrionale; Corneto Tarquinia è il meridionale.

10-12. L' Alfieri trascrisse l'ultimo. Le brutte Arpie ecc. (obscenas volucres le chiamò Virgilio, Æn., III, 241). « Le Arpie sono uccelli col volto virgineo, col corpo molto piumato e con gli artigli molto grandi e aguzzi » (ne' Fatti d' Enea, rubr. 5). La mitologia le faceva figliuole di Taumante e d' Elettra; furono tre, Aelo, Ocipete, e Celeno. I poeti le dicono rapacissime; e il verbo greco άprážev, onde Arpia deriva, indica appunto rapire: la voce presso noi è fatta comune per indicare persona avida dell' avere e tenacissima e senza pietà d' alcuno. Così le descrive Virgilio (Æn., III, 210 e segg.):

Strophades Graio stant nomine dictæ
Insulæ Ionio in magno; quas diva Celano
Harpiæque colunt aliæ, Phineïa postquam
Clausa domus, mensasque metu liquere priores.
Tristius haud illis monstrum, nec sævior ulla
Pestis et ira Deûm Stygiis sese extulit undis.

Il Bargigi: «Secondo i poeti le tre Arpie altro non sono, che le tre Furie
infernali, che pigliarono forma d' uccelli, quando furono mandate ad afflig-
gere Fineo, e sotto tale figura molto convenevolmente Dante le deputa a
far loro nidi in questo bosco, e a dare pena a questi violenti, conciossiachè
nessun peccato è, nel quale mirando l' uomo, così chiaramente si possa com-
prendere, nella mente sua sedere le furie infernali, ed avervi fatti loro nidi,
quanto in questo di far forza a se medesimo.» -- Cacciår delle Strofade ecc.;
Dopo molta tempesta, che sostennero, i Troiani capitarono alle Stro-
fadi.... Da una montagna scesero le Arpie..., e volando loro sopra capo, del
gran puzzo che uscì loro di corpo, bruttarono le mense, e i cibi rapivano
(Fatti d' Enea, loc. cit.). Con tristo annunzio ecc.; Celeno annunziò ai
Troiani la fame crudele che gli avrebbe travagliati prima di poter fondare
in Italia il loro regno (Æn., III, 247, e segg.):

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Italiam cursu petitis, ventisque vocatis
Ibitis Italiam, portusque intrare licebit :
Sed non ante datam cingetis moenibus urbem,
Quam vos dira fames nostræque iniuria cædis
Ambesas subigat malis absumere mensas.

13-15. L' Alfieri li notò. Late, larghe; i primi due versi rispondono alle parole di Virgilio (Æn., III, 216-218):

Virginei volucrum vultus, fœdissima ventris

Proluvies, uncæque manus, et pallida semper

Ora fame.

-Fanno lamenti in su gli alberi strani: che gli alberi di questa selva fossero strani, il Poeta ce l'ha già fatto capir troppo bene (vv. 4-6); onde qui non è

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E il buon Maestro : Prima che più entre,
Sappi che se' nel secondo girone,
Mi cominciò a dire, e sarai mentre
Che tu verrai nell' orribil sabbione.
Però riguarda bene, e sì vedrai
Cose che torrien fede al mio sermone.
Io sentia d' ogni parte tragger guai,
E non vedea persona che il facesse:

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mestieri ripetere l'idea; perciò strani lamenti. Il Ranalli (Amm. Lett., lib. II, pte I, cap. 8), riportati i versi dal 16 al 52, scrive: «Veramente non ebbe torto chi disse, che in questa pittura Dante vantaggi in più luoghi il suo Maestro.>

16-21. Prima che più entre (entri, indic.; altrove, Par., XXIII, 108, entre per entri, congiuntivo), prima d' inoltrarti più innanzi in questo bosco. Nel secondo dei tre gironi, in cui è diviso il settimo cerchio (cf. Inf., XI, 28 e segg.). Il Galilei nella prima delle lezioni intorno la figura, e sito e grandezza dell' Inferno di Dante, scrive: «Il settimo cerchio è distinto in tre gironi così nominati dall' Autore; e qui possiamo notare la differenza che pone Dante tra cerchio e girone, essendo i gironi parti di cerchi, come di questo settimo diviso in tre gironi, de' quali l' uno racchiude l' altro; e il primo è maggiore di circuito, che è un lago di sangue, e racchiude il secondo che è un bosco di sterpi, il quale rigira intorno al terzo girone che è un campo di rena. » E sarai, e continuerai ad essere in esso, mentre che, finchè, fino a tanto che non arriverai fuor di questo bosco nello spazzo, nella spianata di sabbia, dove fa capo il terzo girone (cf. Inf., XIV, 13). — Mentre che (cf. Inf., XXXIII, 132; Purg., 11, 26; III, 135; XVII, 136; Par., XXV, 125; Conv., II, 5 al fine): Canzon., Pte II, canz. VIII, st. 5.

mentre

Che durerà del verno il grande assalto,

cioè per tutto quel tempo che ecc. Orribil sabbione (cf. Inf., XIV, 13 e 28); orribile per i tormenti di cui era sede, piovendovi di fuoco dilatate falde (Inf., XIV, 29). Vedrai cosa che non la crederesti s' io te le narrassi. Torrien fede; così diciamo prestar fede, aggiuntar fede ad alcuno per credergli; impugnar la fede, scuotere con nuovi argomenti la prima convinzione (Purg., XXVIII, 86); fermar fede, prestar fede (Par., XVII, 140). Il Blanc propugna la lez. della Nidob., seguita dal Lombardi e da altri, daran fede; ma ciò non par necessario; infatti qui sermone non ha altro senso che di discorso, narrazione in genere, e non di accenno speciale alla narrazione, ch' ei fa nell'Eneide del fatto di Polidoro, al quale accenna più sotto (7. 48); ma ciò che parmi argomento irrefutabile a tener surretizia la lezione daran fede, è questo, che dar fede si dice dell' uomo, che s' induce a credere, ma non mai d'una cosa che sia di argomento ad acquistar fede ad altra cosa, come sarebbe nel caso presente; in tal caso Dante dice far fede o credenza (Purg., XXVII, 29; Par., VIII, 14). Cf. v. 30.

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Trag

Non

22-24. Furono notati dall' Alfieri. D' ogni parte, da tutti i canti. ger guai, mandar grida di forte lamento (cf. Inf., V, 48). Questi sono i violenti contro sè medesimi nella vita, ovvero suicidi (cf. Inf., XI, 40). vedea persona, non vedevo alcuno (persona, in luogo di alcuno, s' accompagna colla negativa; così diciamo: osservai, ma non v era persona; cf. Purg., XXII, 135). Tutto smarrito, impaurito, sbigottito (cf. Inf., V, 72; X, 125), confuso di quella novità. M'arrestai: s' arrestò non per vedere dove

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fossero nascosti coloro che traevano guai, al che aveva guardato prima; ma appunto perchè guardando intorno, non aveva veduto persona che il facesse, s' arrestò come smarrito, confuso.

25-27. Io credo ecc. Bel modo di dire chiama il Daniello questo giuoco di parole; ma certo se non è bello, Dante non meritava neppure l'offesa che il Venturi si desse la briga di racconciargli il latino in bocca, sostenendo ch' egli avrebbe dovuto fare il verso così:

I' penso ch'e' stimasse ch' i credessi;

e volete poi dire che tutti i matti sono all' ospitale? Dante non rifugge dalla riunione di più voci simili (cf. più sotto, vv. 67 · 68 e 72; Inf., I, 36; XXVI, 65; Purg., XX, 1; XXVII, 132; XXXI, 136; XXXIII, 143; Par., III, 57; V, 139; XXI, 49), come non se ne guardano altri scrittori, pur de' migliori presso ogni gente. L' Ariosto (Orl. Fur., IX, 23):

e ivi XLII, 102:

Io credea e credo, e creder credo il vero;

Com' io credo, che credi, e creder dèi.

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Però chi pensi quale abuso ne facessero i suoi contemporanei, com' egli fosse avvezzo alla lettura degli Scolastici e de' Padri, specialmente di S. Gregorio e di Sant' Agostino, che di simili ritornelli di parole riboccano, non potrà farsi maraviglia se Dante non seppe guardarsene del tutto. Ad ogni modo Dante vuol dire : reputo che Virgilio, vedendomi ristare, pensasse che io credessi ecc. Ch' io credesse (credessi); nel ' Inf., V, 141, abbiam veduto io morisse in luogo di morissi; su di che il Fornaciari: <Que' modi io morisse, io credesse ecc., son forme antiche, più vicine ai vocaboli latini credidissem, fuissem ecc., i quali dalla barbara latinità si erano adoperati in luogo dell' imperfetto del soggiuntivo, e da' quali appunto ebbe origine questo tempo dell' idioma italiano. >> Bronchi, sterpi (v. 7), non rami, dacchè il Vocabolario a bronco definisce tronco o sterpo; poi se quelle voci potevan uscire da gente che si nascondesse, è chiaro che tra il fitto delle piante si sarebbe nascosta, non tra i rami. Da gente, voci fatte da ecc. Per noi, per paura o per cagione di noi, per non lasciarsi scorgere da noi.

28-30. Però, per questo, cioè pensando ch' io credessi che tante voci ecc. Li pensier che hai; i tuoi pensieri, il credere cioè che queste voci vengano da gente che per noi si nasconda; si faran tutti monchi, verran meno, o, come dice altrove (Par., 11, 84),

Falsificato fia lo tuo parere.

È bello osservare come Virgilio, avendo affermato che le cose qui sono tanto strane, che torrian fede alle sue parole, s' egli le narrasse; per convincer Dante della verità lo induce all' ovra (v. 51), perchè è più potente i fatto che non le parole; onde Dante : « plus persuaserunt manus Jacob quam verba, licet illæ falsum, illa verum persuaderent (Mon., 1, 15).

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