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Quando Fetonte abbandonò li freni,
Perchè il ciel, come pare ancor, si cosse :
Nè quando Icaro misero le reni

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C

suo, il Poeta non sa meglio ritrarlo, che ricorrendo a due fatti notissimi della mitologia. E prima Dante paragona la sua paura a quella di Fetonte, figliuolo del Sole (Apollo) e di Climene (Par., XVII, 1-3), quando avendo dal padre ottenuto di guidare i suoi cavalli, ad un punto, incapace più di reggerli, fu trabalzato dal celeste cocchio, e cadde nel fiume Eridano (cf. Par., XXXI, 125). La paura di Dante nel sentirsi nel vuoto in sulla groppa di Gerione, non gli pareva minore di quella di Fetonte quando parimenti nel vuoto, sul carro del Sole, sentì mancarsi le forze, e vide la propria ruina nell' atto d'abbandonar i freni dei cavalli (cf. Conv., IV, 23). L'immagine di Fetonte uscente dalla sicura strada, ricorre anche nell' Epistola ai Cardinali Italici (Epist. VIII, 4), ai quali scriveva : Non aliter quam falsus auriga Phaeton exorbitastis. Dante in questo luogo del Poema prese l' ispirazione dai versi d' Ovidio (Metam., 11, 178-181):

...

Ut vero summo despexit ab æthere terras
Infelix Phaeton penitus penitusque jacentes,
Palluit, et subito genua intremuere timore,

Suntque oculis tenebræ per tantum lumen obortæ.

- Il ciel si cosse (cf. Inf., XIX, 79; Purg., IX, 32); accenna alla Galassia o Via Lattea, della quale nel Par., XIV, 97-99 (cf. ivi, nel commento):

distinta da minori e maggi

Lumi, biancheggia tra' poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;

e il dubbiar di tali saggi nel Convito ne dichiara in che consistesse (11, 15): «È da sapere che di quella Galassia li Filosofi hanno avuto diverse opinioni. Chè li Pittagorici dissero che il Sole alcuna fiata errò nella sua via, e, passando per altre parti non convenienti al suo fervore, arse il luogo, per lo quale passò; e rimasevi quell' apparenza dell' arsura. E credo che si mossero dalla favola di Fetonte la quale narra Ovidio nel principio del secondo di Metamorfoseos. » Per le altre opinioni de' Filosofi, veggasi il rimanente del tratto, che reco nel commento al Par., XIV, 97-99. Nè quando Icaro ecc. Il secondo paragone il Poeta lo trae dalla caduta di Icaro. Dedalo, impaurito di Minosse per aver insegnato a Pasifae il modo di soddisfare i suoi bestiali appetiti (cf. Inf., XII, 12-13, nel commento), volendo col figlio Icaro fuggirsi dall' Isola di Creta, fece a sè e al figliuolo certe ali, attaccandole ai corpi con cera; durante il viaggio per aria, Icaro non ottemperando al comando del padre, s' avvicinò di troppo al Sole, onde la cera riscaldandosi gli caddero le ali, ed egli precipitò miseramente nel mar d' Icaria; onde Ovidio nelle Epistole:

Dum petit infirmis nimium sublimia pennis
Icarus, Icariis nomina dedit aquis.

E nelle Metamorfosi (VIII, 225 e segg.):

rapidi vicinia solis

Mollit odoratas, pennarum vincula, ceras.
Tabuerant ceræ; nudos quatit ille lacertos,
Remigioque carens non ullas percipit auras;
Oraque cœruleâ patrium clamantia nomen
Excipiuntur aqua, quæ nomen traxit ab illo.
At pater infelix, nec jam pater, Icare, dixit,
Icare, dixit, ubi es? quâ te regione requiram?

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Senti spennar, spennarsi, perder le penne. Per la scaldata cera, perchè la cera era riscaldata. Mala via tieni; contraria a quella, che il padre gli aveva insegnata con tutta precisione, col savio avvedimento che ogni buon andamento di cose ed ogni bene sta nel mezzo (cf. Conv., III, 20), inter utrumque (limitem) vola, che da Ovidio in qua passò in comune adagio : Instruit et natum, medioque ut limite curras, Icare, ait, moneo; ne, si demissior ibis, Unda gravet pennas, si celsior, ignis adurat : Inter utrumque vola. Nec te spectare Booten Aut Helicen iubeo strictumque Orionis ensem.

Mala via; l'autore nel Convito (IV, 1): Proposi di gridare alla gente, che per mal cammino andavano, acciocchè per diritto calle si dirizzassono. 112-114. L' Alfieri li notò, tranne le parole che fu la mia del primo. La mia paura, perchè paventava di precipitare in quell' abisso; era dunque ben fondo, nè il cordone di S.Francesco sarebbe dunque bastato a misurarne la profondità. — Vidi ch' io era nell'aer d'ogni parte; vedeva, perchè era ancora non molto discosto dall' imboccatura del burrato. Spenta ogni veduta, cessata la vista d'ogni oggetto, tranne quella di Gerione, cioè s'era già allontanato dalla proda di tanto da non vederla più; e ciò, senza dubbio, per poter poi fare quelle ruote larghe, che Virgilio gli aveva ingiunto. Quanto fosse immenso il perimetro della bocca di questo burrato, lo si può capire agevolmente da questa osservazione. La bocca del burrato, essendo la roccia stagliata (v. 134), doveva avere di necessità un diametro perfettamente eguale a quello dei fondo del burrato stesso. Ora nel fondo di esso, sopra un piano inclinante verso il suo centro (dove vaneggia il pozzo de' giganti, il cui piano a sua volta comprende l'ultimo Cerchio), c'è Malebolge, formato da dieci valloni concentrici (o bolge) e da altrettanti argini o ripe, che li separano. Or bene; dal nostro Autore, che immaginò sì enormi misure, sappiamo con tutta certezza, che la nona valle o bolgia ha un perimetro di ventidue miglia (Inf., XXIX, 8-9); e che la decima che è più vicina al centro, e perciò di tutte la più piccola, aveva un perimetro di undici miglia (cf. Inf., XXXI, 85); dal che deriva che la prima bolgia o valle (cf. Inf., XVIII, 1-9), la più lontana dal centro, e la più prossima alle pareti circolari di questo burrato, doveva avere un circuito immensamente ampio (cf. Inf., xviii, 25-27).

115-117. Notati dall' Alfieri. Ella sen va ecc.; è maestoso questo verso, e fa ricordare il famoso Cæsarem vehis. - Nuotando; altri legge rotando; ma, come bene osserva lo Scartazzini, al rotare si accenna nel verso seguente. -Lenta, lenta, per ubbidire al comando di Virgilio (v. 98).— Non me n' accorgo; lo Scartazzini : «Qui Dante indovina ciò che oggigiorno gli areonauti sanno, che cioè chi discende dall' alto per lo gran vano dell' aria non si accorge di calare, se non in quanto l' aria di sotto, ch' egli mano mano vien rompendo, gli soffia incontro. » Dante pel buio e per la profondità del burrato, non poteva discernere il suo fondo; altrimenti, così discendendo, gli sarebbe apparso che il fondo si avvicinasse a lui, non egli al fondo; come

Conv. IV, L.

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Se non ch' al viso, e di sotto mi venta.
Io sentia giù dalla man destra il gorgo
Far sotto noi un orribile stroscio,
Perchè con gli occhi in giù la testa sporgo.

Allor fu' io più timido allo scoscio,
Perocch' io vidi fuochi, e sentii pianti;
Ond' io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, che nol vedea davanti,
Lo scendere e il girar, per li gran mali
Che s' appressavan da diversi canti.

Come il falcon ch' è stato assai su l'ali,

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avviene agli areonauti, quando scendono, che par loro di essere immobili, e che la terra venga loro incontro. Se non che al viso ecc.; doppio rompimento d'aria; in quanto Gerione fa moto circolare, Dante sentiva vento al viso; id quanto discendeva, sentiva vento di sotto. Mi venta; cf. Purg., XVII, 68.

118-120. Furono trascritti dall' Alfieri. Dalla man destra; vedemmo che il Flegetonte era alla sinistra de' Poeti quando arrivarono sull' orlo del burrato; montati su Gerione, e Gerione girando sulla sua destra, ora si trovano con a destra la cascata del Flegetonte; il che vuol dire che avevano percorso, discendendo, quasi un cerchio. Gorgo; il Flegetonte cadendo così d'alto, doveva aversi scavato una fossa profonda; e questo significa gorgo; ma qui si prende per l'acqua cadente in quel gorgo. Stroscio; rumore, strepito, che fa l'acqua cadendo. Perchè, per il quale rumore. Sporgo, porgo in fuori dalla linea delle spalle di Gerione, piegandola in giù per vedere che fosse.

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121-123. Ricopiati dall' Alfieri. Gli incidenti di sempre maravigliose novità si vanno succedendo. Allor, per quello che, sporgendo con gli occhi in giù la testa, gli accadde di vedere. Scoscio; e l'atto che fa l' uomo per discendere da oggetto su cui era a cavalcioni, cioè aprir delle cosce, allargar le cosce; tanto è vero, che preso di nuova paura, il Poeta dichiara tosto che si raccosciò, che vieppiù strinse le cosce ai fianchi di Gerione. Vuol dunque significarci, che avendo visto que' fuochi e sentiti que' pianti, cominciò a sentir paura del momento che arrivato laggiù, sarebbe dovuto discendere di groppa a Gerione. Tremando di paura (Vit. N., § 13). — Mi raccoscio, ristrinsi le cosce, per nuova paura di cadere in quell' orribile baratro di fuoco e di pianto.

124-126. Prima, pel buio e per la distanza, non si era accorto del suo scendere e girare, se non dal rompimento dell' aria (vv. 116-117); ma ora ben distingue il suo discendere per l'appressarsi dei mali, che ferivano il suo occhio fuochi) e il suo orecchio (pianti); e distingue che il suo discendere era a spira (a ruote), perchè vedeva l'ottavo Cerchio ora da uno, ora da altro canto. Mali, tormenti, pene. S appressan; di ciò cf. Inf., VIII, 68.

127-132. Notati dall' Alfieri. Come il falcon ecc. Del falcone parla Dante sotto tre aspetti diversi (cf. Inf., XXII, 131; Par., XIX, 34). In quella guisa che il falcone, dopo d' aver volato assai qui e là per l'aria, senza aver trovato preda (uccello), stanco, senza aspettare il richiamo (logoro) del falconiere, discende con cento ruote colà, di dove era partito dritto e leggiero, e sdegnoso e crucciato si pone in disparte lontano dal falconiere, così

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ecc.

Che, senza veder logoro o uccello,
Fa dire al falconiere: Oimè tu cali!

Discende lasso, onde si mosse snello,
Per cento ruote, e da lungi si pone
Dal suo maestro, disdegnoso e fello;
Così ne pose al fondo Gerione
A piede a piè della stagliata rocca,
E, discarcate le nostre persone,

Si dileguò, come da corda cocca.

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Logoro è un uccello fittizio, una figura d' uccello, usata dai falconieri per richiamare i falconi. Nello stesso senso i Francesi hanno leurre, e i Tedeschi luder; il Cesari in buon testo ci lesse ludoro (e più Codici hanno tal voce), forse dal latino ludicrum; certo nel linguaggio de' Veneti si dice dagli uccellatori tuttavia ludoro o ludro, in identico senso. Fa dire ecc., perchè discende senza preda. Discende, il falcone, lasso, stanco, per essere stato assai sull' ali. Per cento ruote; molte stampe accoppiano questo inciso a snello, dopo tal voce non ponendo la virgola : ma ove si badi che il Poeta qui parla delle cento ruote del falcone per render viva l'idea delle ruote, che faceva Gerione discendendo, non potrà aver dubbio che la frase per cento ruote non sia da riferirsi a discende. - Disdegnoso e fello; è da riferirsi al falcone, non al maestro; dacchè è ben chiaro che il paragone è tra il falcone corrucciato d' aver tanto faticato invano, senza alcuna preda, e Gerione che senza mercede di preda questa volta doveva fare invano la fatica di portar Dante laggiù. Maestro, il falconiere, che lo addestrò alla caccia. Fello, corrucciato per la mancata preda.

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133-136. L' Alfieri li trascrisse, salvo il primo. Così, sdegnoso e fello come il falcone descritto, perchè quel carico che aveva in groppa non era cosa che gli appartenesse. Al fondo di quella caverna. A piede a piè; chi intende questo raddoppiamento come avente forza di superlativo, come a dire per l'appunto al piè, rasente il piè lo Scartazzini crede che il primo a piede si possa congiungere al verbo pose, e intendere Gerione ci mise giù in piedi, a piè della stagliata rocca. Però credo che a tale spiegazione faccia un po' di contrasto il verso, che sussegue, dal quale si vede che non potevano i Poeti esser là da Gerione posti giù in piedi, perchè qui si scorge che non erano ancor discesi dal suo dosso; quando questo verso, anzichè, come inchiudente nuova azione, non lo si voglia intendere come complemento e dichiarazione dell' azione compresa nel verso precedente. Ad ogni modo, come diciamo vicin vicino, a randa a randa, ad imo ad imo, non si potrebbe questa forma raddoppiata a piede a piè spiegarla per rasente rasente, vicin vicino alla stagliata rocca? -- Stagliata vorrebbe dire che non era liscia, ma aspra, come tagliata grossamente ma credo che il Poeta voglia, più che altro, darei l' idea dell' ertezza di quella roccia, quant' a dire a perpendicolo. Discarcate, messe a terra, scosse dalla sua schiena (Inf., XVIII, 19). Si dileguò, fuggì via, scomparve rapidissimo, come freccia, cocca (cf. Inf., XII, 77), scagliata dall' arco. Il Cesari: «Questo ultimo verso, come esso dardo che esce di tacca, scoccasi e vola. »

-

Nota le terzine 1 alla 9; 11; 15 alla 19; 23, 24, 25, 27 insino alla fine.

CANTO XVIII.

Luogo è in Inferno, detto Malebolge,

Siamo nel Cerchio ottavo, il secondo dei tre che ancora rimanevano da percorrere quando Virgilio fece al suo alunno la chiara divisione penale del suo inferno (cf. Inf., XI, 17); e in questo Cerchio, ecco che cosa si comprende (Inf., XI, 57-60):

nel cerchio secondo s' annida Ipocrisia, lusinghe, e chi affattura, Falsità, ladroneccio, e simonia,

Ruffian, baratti e simile lordura.

Vediamone più diffusamente la sua spartizione.

1-3. Malebolge; bolge, plurale di bolgia (l' Ottimo adopera bolge nel singolare), arnese simile a bisaccia; quindi può valere quanto valigia, sacco (e perchè in una valigia di cuoio, che per tutta Italia dicesi bolgetta, soglionsi dai distributori riporre le lettere, così in qualche paese del Veneto il povero popolo chiama bolzetta il portalettere medesimo). « Bolgetta del Ministero, bolgetta del Segretario, annota il Diz. di Torino, dove soglionsi tenere le carte più segrete per portarle da luogo a luogo: e certi portafogli son bolge. » Questo, secondo la comune esposizione de' chiosatori; però bene avverte il Casini che Benvenuto afferma, che bolgia « in vulgari florentino idem est quod vallis concava et capax; sicchè bolgia sarebbe usato nel senso proprio, secondo il dialetto fiorentino; l' Ottimo, il Lana e il Buti parlano sempre di valli, come vero significato di bolgia, senza pensare nè alla bisaccia, nè al sacco, nè ad altro di simile. Dunque Malebolge tanto suona, quanto male, tristi bolge. Dante alle bolge, secondo la loro figura e per similitudine, dà nomi svariati ; le dice valli (v. 9), fossi (v. 17, e XIX, 9), valloni (ivi, XX, 7), fessure (ivi, XXI, 4), gole (ivi, XXIV, 123), greppi (ivi, XXX, 95). Delle bolge veggasi il disegno Inf., XXIV, 37-40. Malebolge non è altro che un immenso piano circolare, circoscritto dalle pareti del burrato, pel quale i Poeti discesero or ora in groppa a Gerione (cf. Inf., XVII, 113, nel commento). Questo piano ha nel suo perfetto mezzo un pozzo di grande diametro (cf. Inf., XXX, 40 e segg.), il quale, come il burrato a qui, è via per discendere al nono ed ultimo Cerchio. Ora questo piano inclina tutto verso il pozzo (cf. Inf., XXIV, 37 e segg.), ed è spartito e diviso in dieci valli o bolge concentriche, che formano l'ottavo Cerchio, nel quale sono puniti dieci specie di frodolenti, ossia coloro che per differenti forme peccarono di malizia ovvero frode, usandola in quei che fidanza non imborsa (Inf., XI, 54 e segg.). La divisione è questa :

Bolgia I. Seduttori.

II. Adulatori.

III. Simoniaci.

IV. Indovini

V. Barattieri.

VI. Ipocriti.

VII. Ladri.

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Canto XVIII.

XIX.

XX.

XXI, XXII.

XXIII.

XXIV, XXV.
XXVI, XXVII.
XXVIII, XXIX.

XXIX, XXX.

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