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l' Inferno ha pene maggiori, nulla è si spiacente (Inf., VI, 48); nè poteva la fecondissima fantasia del Poeta trovar pena più adatta ai sempre lisci e liscianti adulatori. -- Privati, luoghi comuni, cessi. Parea mosso, messo

in movimento, e calato laggiù; quasi che tutte le fecce di questo mondo s' insacchino in quella bolgia a far degna abitazione alla feccia più biasimevole tra gli uomini, quali sono gli adulatori.

115-117. E mentre .... con l'occhio cerco, vidi ecc.; mentre guardo, e osservo a parte a parte ogni cosa; altrove disse nel medesimo senso (Inf., XVII, 58), ma con meno intensità di osservazione :

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Merda; qui grandi smorfie da certi nasuti, come a buon proposito dice il Gelli, e un battagliare indiavolato per aver Dante usato questa parola; ma, e in questo luogo? e per siffatta gente? che cosa poteavi essere di più proprio, direi anzi di più bello? E la voce fu usata da Marziale, e anco da Orazio (Sat., I, 8, 37) da tutti reputato scrittore gentile ed elegante. Nè è sempre vero che un popolo, che rifugge da certe voci, sia più costumato e civile d' un altro; e così degli scrittori, specialmente quando la natura del soggetto quella parola richiede, nè altra sen saprebbe trovare che tanto dicesse. Quintiliano ha scritto: Omnia verba, suis locis optima, etiam sordida dicuntur proprie. E ciò sia detto per questo e per altri consimili luoghi del Poema. Il Borghini : « Questa ultima parte del Canto par descritta con parole assai basse e talvolta ancora un poco schife, del che alcuno per avventura il riprenderà come non si convegna questa bassezza a sì gran Poema. Altri forse lo loderanno, e reputeranno questa parte proprissima e piena d' ingegno, che parlando di vizio vile, infame e vituperoso gli dia pena conveniente alla bruttezza sua, e lo aiuti ancora e l' accresca e lo trafigga con parole proprie e degne del luogo e di chi vi è per tal fallo rinchiuso: e allegheranno il Maestro del bel dire, che a bello studio più d' una volta usò questo termine e nel mezzo del Senato e del Senato romano. E non dico quando disse serrago, voce vile e abbietta, presa artificiosamente, come bene notò Quintiliano, per dipignere a punto la furfanteria e la pidocchieria di colui ma quando e' fa recere Antonio sedente pro tribunali, che non par che si sazii di esprimere ogni minuzia e far vedere quel reciticcio di que' pezzoli mezzi masticati e smaltiti d'un cotal coloraccio e odore fastidioso, avere dilagato tutto quel tribunale. La qual cosa con quanta efficacia, con quanta forza, con quanta arguzia per avvilire bene Antonio sia detta con quelle parole così vili e stomacose, ciascuno sel vede, e fra gli altri Quintiliano l' ha particularmente notato, che non pare che si possa saziare di lodarlo. E che Dante lo facesse a posta e per bene avvilire simil sorte di uomini si mostra a come chiama Taide fante, voce di dispregio affatto. > Non parea ecc.; non appariva, perchè n' era tutto incappellato, onde non si poteva distinguere se avesse o no la chierica.

118-123. Mi sgridò, gridò sdegnato contro di me (cf. Inf., XXXII, 79). Ingordo, avido, cupido; anche il desiderio di conoscere è appetito, che,

XVII, 52

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Già t' ho veduto co' capelli asciutti,
E sei Alessio Interminei da Lucca :
Però t'adocchio più che gli altri tutti.

Ed egli allor, battendosi la zucca :
Quaggiù m' hanno sommerso le lusinghe,
Ond' io non ebbi mai la lingua stucca.

Appresso ciò, lo Duca : Fa che pinghe,
Mi disse, un poco il viso più avante,
Si che la faccia ben con gli occhi attinghe
Di quella sozza scapigliata fante,
Che là si graffia con l' unghie merdose,
Ed or s' accoscia, ed ora è in piede stante.

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come altre passioni, si rivela per l'occhio. Brutti di sterco. Se ben ricordo le tue fattezze, ovvero (Inf., XXVIII, 72)

Se troppa somiglianza non m' inganna,

così ch' io ti prenda per un altro. Coi capelli asciutti; è parola semplice, ma, in fondo, racchiude potente stoccata al Lucchese. — Alessio Interminei da Lucca. Dante conobbe Alessio Interminelli o Antelminelli probabilmente nel tempo ch' egli fu a Lucca. I chiosatori antichi non ci dicon nulla di costui da questo in fuori, ch' era un grande adulatore con ogni fatta di persone; onde il Minutoli giustamente afferma che Alessio non sarebbe mai stato ricordato senza i versi dell' Allighieri. Oltrecchè adulatore, le Chiose dicono che teneva, certo per guadagnarci sopra, una casa di donne di mala vita. Però, perchè t' ho già conosciuto su nel mondo. T'adocchio, ti guardo con attenzione (cf. Inf., XV, 22; XXIX, 138; Purg., IV, 109; Par., XXV, 118).

124-126. Notati dall' Alfieri. Battendosi la zucca, percotendosi il capo; già tutta questa gente si picchia colle palme (v. 103) per dolore; ma qui è da credere che il peccatore si batta la zucca, per cruccio d'essere stato riconosciuto e visto in quella miseria. Altro peccatore di ciò si lamenta, e per tale riconoscimento, come la colpa fosse stata del Poeta, se ne vendica a suo modo (cf. Inf., XXIV, 133-151). Anche a non voler tener conto dell' opinione del Buti, che afferma, che Dante qui dice zucca, perchè comunemente li Lucchesi hanno la testa leggiera; o di quella dell' Ottimo, che fa lucchese tal voce, è certo che zucca qui arieggia a disprezzo, come tale s' intende per tutta Italia. Quaggiù, in questo sterco. - Lusinghe, adulazioni. - Stucca, stanca; ma avverte bene il Casini che stucca esprime meglio l' idea della stanchezza per sazietà o fastidio che s' abbia d' una cosa.

....

127-132. Notati dall' Alfieri. Appresso ciò, dopo che il dannato ebbe ciò detto. Fa che pinghe (pinga) il viso, spingi la vista ecc.; segue qui la dottrina di Platone, mentre poco prima (vv. 75-76) aveva seguito quella d'Aristotele (cf. Inf., X, 34). — Con gli occhi attinghe (attinga), tocchi con gli occhi, discerna, acciocchè tu vegga distintamente ecc. - Di quella sozza ecc., verso vivace, che rivela, nella trascelta delle voci e del suono, il pieno disprezzo d' un' anima nobilissima. Fante, donna vile, di mal affare. Si graffia con l' unghie, che è più del picchiarsi colle palme (v. 105), come facean gli altri della bolgia, e del battersi la zucca del povero Alessio; ma, dice lo Spirito Santo, che non est ira super iram mulieris; o unghie, o forbici. D'altra donna, la sorella di Didone, dice Virgilio (Æn., IV, 671) : Unguibus ora soror fœdans, et pectora pugnis. S'accoscia, sta seduta, restringendo le cosce (cf. Inf., XVII, 123). — In piede

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Taida è, la puttana, che rispose
Al drudo suo, quando disse: Ho io grazie
Grandi appo te? anzi maravigliose.

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stante, sta in piedi. In questi atteggiamenti ci si può scorgere, almeno in parte, quanto di tali femmine avverte la S. Scrittura da me allegata più addietro (Inf., XIV, 24).

133-136. L' Alfieri li trascrisse. Taida, la famosa meretrice ateniese. In Taide, osserva il Bianchi, ha voluto il Poeta presentarci il ritratto di certe donne, che lusingando per varii modi secondo il tempo, prendon gli incauti, e ne fan tristo governo; e a fine di renderle più abbominevoli, le ha ravvolte in quella lordura, che è debito fregio alla bassezza dell' anima loro. Come ho notato nel mio Diz. Dant. (artic. TAIDA), tutti i chiosatori, dal più antico sino agli ultimi, salvo il recentissimo tra loro, il Casini, hanno creduto che Dante, colle parole che qui mette in bocca a Taide, abbia voluto accennare à quelle che si leggono nella scena 1 dell' atto III dell' Eunuco di Terenzio, tra il mezzano Gnatone e il giovane soldato Trasone, innamoratissimo di Taide, il quale le aveva mandato in dono una schiava sonatrice; e le parole son queste :

Thras. Magnas vero agere gratias Thais mihi?

Gnat. Ingentes.

Thras. Ain' tu læta est?

Gnat. Non tam ipso quidem dono, quam abs te datum esse. Ma s'avvidero alcuni che Dante avrebbe così scambiato il ruffiano Gnatone colla meretrice, a questa per isbaglio, o sopra fantasia, attribuendo le parole dette a Trasone da quello. Il prof. Beccaria (nel periodico Il Borghini, 15 Apr. 1876) badò attententamente a questo fatto, e affermò che non alle allegate parole Dante si riferisce, sibbene a quelle che ci sono nella scena II dell' atto medesimo, dove Trasone interroga proprio Taide in persona se ella gli sia grata del regalo fattole della ragazza tanto da lei desiderata, e se perciò gli voglia bene : 0 Thais mea, Meum suavium, quid agitur? ecquid nos amas De fidicina istac? Al quale Taide con palese affettazione di subito risponde: Plurimum merito tuo; che suona come dicesse : m'ho io acquistata la tua grazia e il tuo amore col regalo di codesta sonatrice? La risposta, anzi maravigliose, la quale in Dante rileva più, come quella che rappresenta il carattere di stomachevole adulazione, se può convenire all' ingentes detto da Gnatone, niuno negherà che meglio non calzi all' altra affettata e smancerosa, plurimum merito tuo. Il Gelli, a questo luogo: Pone quella Taide tanto famosa, della quale scrive Terenzio. Ove, perchè egli attribuisce quelle parole, che disse Gnatone il suo drudo e innamorato, a lei, sono stati alcuni che hanno pensato ch' ei non voglia dir di lei, ma di quella Taide di Corinto, della quale fa menzione Aulo Gellio. A la qual cosa credo io che si potrebbe ancor dire che il Poeta abbia posto la cagione per lo effetto; perchè se bene ei le disse Gnatone, e non ella, la cagione ne fu ella.» E quinci ecc. E basti di tali lordure; di tali sozzurre abbiam veduto anche troppo.

A complemento di questo Canto sì vario di novità e di bellezze, pongano i giovani viva attenzione a queste sapienti parole del Tommaseo : Nella prima bolgia un antico e un moderno, Caccianemico e Giasone; nella seconda un moderno e un antico, Alessio e Taide : i moderni due gentiluomini; gli antichi un principe e una meretrice. Il Canto è del genere comico : nè Dante intendeva comporre epica e del resto son cose che rasentano il comico in Virgilio stesso e in Omero. Chi seduce per sè, e chi seduce per altri, la donna debole, è messo nella medesima pena, perchè nel soddisfare

E quinci sien le nostre viste sazie.

alle basse voglie proprie è viltà, nè si può senza viltà forse peggiore che quella del corruttore prezzolato (perchè più perfida), simulare l'affetto, e quella riverenza che è indivisibile dall' amore, e che più dell' affetto inganna, e tradisce le misere donne. Poi il prezzolato non ha in animo di tradire; e può essere dalla miseria e dall' abiettezza sua e dall' esempio e dalle tentazioni dei ricchi tratto al mestiere; dove coloro che si danno vanto di gentili, dai vanti loro stessi e dall' educazione avuta dovrebbero apprendere pudore e ritegno. Finalmente, chi seduce per sè, può usare a questo fine le arti medesime di chi seduce per riscuotere lucro onde le carezze finte, e fin le affettate diconsi lenocinii. Quindi nuova ragione del mettere seduttori e adulatori in due prossime bolge; e gli adulatori più sotto, perchè spesso più vili. La descrizione delle bolge e del passaggio dell' una e dell' altra, difficile a farsi in parole, è tanto più maestrevole che concisa. Un facitore di Romanzo storico ci spendeva una mezza dozzina di pagine; descrivendo non dipingeva. Qui è architettura e scultura.

:

Nota le terzine I alla 6; 9, 10, 12, 13, 16, 21, 23, 27, 28, 31, 32; 35 alla 40; 42, 43, 44.

CANTO XIX.

Mon. III,

I

O Simon mago, o miseri seguaci,
Che le cose di Dio, che di bontate
Deono essere spose, voi rapaci

....

1-6. L' Alfieri nota che le cose di Dio e il verso 4. Passano i Poeti nella terza bolgia, nella quale sono puniti i simoniaci, così detti da Simone (il Mago), che fu il primo che si credette di poter con danaro comperare, per poscia venderle, le cose spirituali. Narra S. Luca negli Atti degli Apostoli (cap. VIII), che nella dispersione della Chiesa nascente per le stragi di Saulo, l' Apostolo Filippo venuto nella città di Samaria, trovò un certo Simone, che esercitava l'arte magica, « seducens gentem Samaria, dicens se esse aliquem magnum; cui auscultabant omnes a minimo usque ad maximum, dicentes: Hic est virtus Dei, quæ vocatur magna. Attendebant autem eum propter quod multo tempore magiis suis dementasset eos. Simone si convertì alla predicazione dell' Apostolo; et cum baptizatus esset, adhærebat Philippo. Videns etiam signa et virtutes maximas fieri, stupens admirabatur. Gli Apostoli, ch' erano tuttavia a Gerusalemme, avendo inteso quod recepisset Samaria verbum Dei, miserunt ad eos Petrum et Joannem. Qui cum venissent, oraverunt pro ipsis ut acciperent Spiritum Sanctum Tunc imponebant manus super illos, et accipiebant Spiritum Sanctum. Cum vidisset autem Simon, quia per impositionem manus Apostolorum daretur Spiritus Sanctus, obtulit eis pecuniam, dicens: Date et mihi hanc potestatem, ut cuicumque imposuero manus, accipiat Spiritum Sanctum. Petrus autem dixit ad eum: Pecunia tua tecum sit in perditionem, quoniam donum Dei existimasti pecunia possideri. Non est tibi pars, nec sors in sermone isto; cor enim tuum non est rectum coram Deo. Pœnitentiam itaque age ab hac nequitia tua; et roga Deum, si forte remittatur tibi hæc cogitatio cordis tui. In felle enim amaritudinis, et obligatione iniquitatis video te esse.» — O Simon mago (cf. Inf., XI, 59, ove la simonia, non senza perchè, posta qua vicino alla lordura de lusinghieri, è detta pur lordura). La simonia, dice l' Angelico (Summ. Th., II II, 100, 1), est studiosa voluntas emendi et vendendi aliquid spirituale, vel spirituali annexum (e sarà bene leggere la questione per intiero); ed è figlia naturale della cupidigia; onde, se il Poeta vedeva la cupidigia tra' vizi predominanti di Firenze (Inf., VI, 74; XV, 68), in una Canzone, a lui attribuita (Canzon., pte III canzon. II, st. 5), dice che, tra altri nequitosi, la divorava Simon mago. Miseri seguaci di Simon mago. - Cose di Dio chiama le cose tutte, che s'appartengono al culto di Dio e al ministero ecclesiastico, si spirituali che materiali, come sono le cariche, le dignità, i beneficii. Di bontade .... spose, debbono disposarsi, congiungersi alla bontà, in persone degne per virtù e scienza; darsi legittimamente e legittimamente riceversi; senza di questo c'è adulterio, come dando o ricevendo donna d' altri. Quest' idea di sponsalizio tra la dignità e la persona, che ne viene investita, richiama a quella del Papa sposo della Chiesa (cf. vv. 56-57, e 111; Purg., XIX, 137; XXIV, 22); e a S. Francesco, che si sposò alla Povertà (Par., XI, 58 e segg.); e all' imperatore Enrico, sposo d'Italia, il quale, calando di Germania, properabat ad nuptias a consolazione di tutti, come pareva al Poeta (Epist., V, 2). Di qui la ragione dell' adulterare; e in senso ancor più ampio vedremo altrove adultero (cf. v. 4) non nel senso inteso dai chiosatori sinora (cf. commento nel Par., IX, 142). Rapaci; dare e ricevere le cose

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