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Michele Scotto fu, che veramente
Delle magiche frode seppe il gioco.

Vedi Guido Bonatti, vedi Asdente,

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erat naturaliter talis, vel quia propter studium erat mirabiliter extenuatus. > Ma il Buti, che lo fa d' origine spagnuolo, chiosa: «perchè i spagnuoli soleano vestire strettamente ne' fianchi, però dice così. Credo col Bianchi, che Dante, piuttosto che la foggia dell' abito del mago Michele Scotto, abbia voluto accennare la sua persona singolarmente magra e sottile, di cui è probabile durasse la fama nel popolo anche a' suoi tempi. D'altra parte è nel costume popolare (molte leggende lo attestano) di figurarsi i maghi scarni e smilzi. Michele Scotto; famoso medico e indovino Scozzese; gran maestro in nigromanzia, il quale ebbe nome Mich. Scotto, perciocchè di Scozia era» (Bocc., Decam., g. VIII, n. 9). Walter Scott, nelle note al Lamento del Menestrello, lo pretese suo antenato. Fu alla corte di Federico II, e dicono morisse dopo il 1290. Il Lana scrive: «Ebbe molto per mano l'arte magica, sì la parte delle conjurazioni come eziandio quella delle imagini; del quale si ragiona che essendo in Bologna e usando con gentili uomini e cavalieri e mangiando come s' usa tra essi in brigata a casa l' uno dell' altro, quando venia la volta a lui d'apparecchiare, mai non faceva fare alcuna cosa di cucina in casa, ma avea spiriti a suo comandamento che li facea levare lo lesso dalla cucina dello re di Francia, lo rosto di quella del re d'Inghilterra e le tramesse di quella del re di Cicilia, lo pane d'un luogo e'l vino d' un altro, confetti e frutta là onde li piacea, e queste vivande dava alla sua brigata. » Scrisse profezie in latino sulla sorte di alcune città italiane e di qualche personaggio; e ne racconta G. Villani (Cron., XII, 19), che quando il grande maestro e filosofo Michele Scotto fu domandato della disposizione di Firenze, disse in brieve motto in latino :

Non diu stabit stolida Florentia florum;

Decidet in fœtidum, dissimulata vivet;

cioè in volgare: Non lungo tempo la sciocca Firenze fiorirà; cadrà in luogo brutto, e dissimulando vivrà.» Quanto la leggenda abbia dato di suo al vero essere di Michele Scotto, è difficile a dire. Osserva lo Scartazzini che anche al presente si favoleggia in Iscozia di questo famoso mago. Bastava allora un po' di dottrina superiore all' ignoranza generale, specialmente nelle scienze naturali, per esser creduto uno stregone; così accadde del famoso Pietro d' Abano, del cui nome, come re dei maghi, risuonano tuttavia i paeselli dei Monti Euganei. Seppe il giuoco, le astuzie, i rigiri; segno manifesto che Dante non ci credeva.

118-120. Vedi... vedi ecc. (cf. vv. 31, 37, 40; e questi due luoghi raffermano la lez. vedi, in luogo di vidi, dell' Inf., v, 64-67). Guido Bonatti; di Forlì, autore d'un trattato d' astrologia, «non inutile alla scienza (scrive il Tommaseo), stampato tre volte e tradotto in italiano, in francese, in tedesco. > L' Anon. Fior.: «Fece Guido Bonatti più libri giudiciali in astrologia, che hanno più corso, che altri libri d' astrologo moderno. Visse nel secolo XIII. Il Tommaseo dice che fu astrologo della republica Fiorentina; e fu consultato da Ezzellino e da Federico II, e stette alcun tempo ai servigi di Guido da Montefeltro. Benvenuto scrive di lui:<Magnus astrologus comitis Guidonis famosi de Montefeltro; et quum ipse comes teneret Forlivium, patriam ipsius Guidonis in Romandiola, ubi erat princeps partis ghibellinæ, utebatur consilio istius astrologi in omnibus agendis. Et satis constans opinio multorum fuit, quod ipse obtinuerit multas victorias contra Bononienses et alios adversarios suos, opera istius Guidonis. Ipse Guido, quamvis reputaretur a vulgo fatuus et phantasticus, tamen sæpe mirabiliter iudicabat... Fecit opus

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pulcrum et magnum in astrologia, in quo tam clare tradit doctrinam de astrologia, quod visus est velle docere feminas astrologiam. > Si crede, se stiamo all' Ottimo, che tra per l'astuzia del conte e l'arte magica del Bonatti, Guido da Montefeltro abbia fatto a Forlì sanguinoso mucchio de' Francesi nel 1282, come si narra nell' Inf., XXVII, 44. Del Bonatti scrisse una monografia il principe B. Boncompagni. — Asdente : « Asdente, il Calzolaio di Parma» (Conv., IV, 16), dove Dante afferma che il nome e la fama di costui eran notissimi. Visse nella seconda metà del secolo XIII; di calzolaio divenne astrologo famoso. Il parmense Salimbene, allegato dal Casini, dice Asdente pauper homo, parvus et simplex ac timens Deum, et curialis, idest urbanitatem habens, et illitteratus. Avere inteso (cf. Inf., XXV, 39, nel commento), aver atteso, dato opera del tutto all' innocuo mestiere del calzolaio, perchè forse non si sarebbe dannato. Tardi, invano si pente (cf. Inf., I, 70; Purg., VI, 80).

:

121-123. L'Alfieri notò i due primi. Le triste, le donne, che lasciarono i lavori femminili del cucire, del tessere e del filare (cf. Par., XV, 117), per darsi alle malíe. Se non fa il nome di nessuna, vuol dire che nessuna era degna di nota (v. 104). Anche per la debolezza del sesso, la donna è più corriva a credere e ad andar dietro agli incantamenti e alle stregonerie; e se ciò si vede pure a' di nostri, la cosa è ancor più spiegabile pei tempi del Poeta ; onde l'Anon. Fior : « Cotali femminelle molte se ne trovano che vanno dietro a incantamenti ed a malíe. » E Benvenuto: «Omnis terra est plena vetulis facientibus talia » (cf. vv. 1-3, nel commento).- Con erbe, con succhi estratti dalle erbe. Con immago, della persona, alla quale l'incantamento si riferisce. Cf. i passi di S. Agostino e di S. Tommaso, riferiti al principio di questo Canto. L' Anom. Fior. «Puossi fare malíe per virtù di certe erbe medianti alcune parole, o per imagine di cera o d'altro fatte in certi punti e per certo modo che, tenendo queste immagini al fuoco o fic cando loro spilletti nel capo, così pare che senta colui a cui immagine elle sono fatte, come la immagine che si strugga al fuoco. Il Bargigi : « Fecer malíe, dannevoli incantamenti con erbe e con imago, con imagini, che sapevano formare di cera o di altra materia con le quali nuocevano alla persona d'altri, seminavano discordie, ove prima era stato amore, infiammavano il cuore a non leciti desiderî, facevano impazzire quelli che volevano, e d' innumerabili mali erano cagione. Tali femmine quali sono queste, delle quali Virgilio parla, trovai che erano arse nuovamente in gran copia in diversi luoghi tra le montagne del Delfino, quand' io passai per indi, ove ancora pareva il carbone e quasi la cenere fresca. >>

124-126. Ma; cf. Inf., XI, 112. Tiene il confine (il sogg. è Caino e le spine, cf. v.126, cioè la Luna); la Luna è già all' orizzonte, che è cerchio di divisione tra il nostro (o di Gerusalemme) e l' emisfero inferiore (o del Purgatorio) opposto al nostro (cf. Cto. seg., v. 3). -- L' onda sotto Sibilia, al di là di Siviglia, nella Spagna, cioè tramonta nell' oceano Atlantico. Caino e le spine; il Poeta non ignorava da che provenissero le macchie lunari; nel

130

E già iernotte fu la Luna tonda :
Ben ten dee ricordar, chè non ti nocque
Alcuna volta per la selva fonda.

Sì mi parlava, ed andavamo introcque,

43

Conv. 11, 14: « L'ombra ch'è in essa (nella Luna), non è altro che rarità del suo corpo, alla quale non possono terminare i raggi del sole e ripercuotersi così come nelle altre parti » (cf. Par., 11, 49 e segg.). Ma qui segue l'opinione del volgo, che nelle macchie della Luna vede Caino in su un fascio di spine. Il Cesari : « Il tocca accordato colle spine, è proprio costrutto nostro, che vale Caino con le spine; come fa il Petrarca,

Onde vanno a gran rischio uomini ed armi,

per uomini armati; ed è altresi il pateris libamus et auro di Virgilio, in luogo di aureis pateris; e questa figura chiamasi endiadys, cioè unum per duo; perchè egli è una parola che serve per due, ed è parlare usitatissimo ai poeti .... Altresì in prosa l'adoprò Cicerone (Tuscul., III, 18): hunc sertis redimiri jubebis et rosa, invece di sertis rosarum. »

127-130. Iernotte; la notte che precedette non il giorno, in cui siamo ora, ma il giorno d' ieri, quando Dante si ritrovò nella selva : ora siamo, secondo il Della Valle, circa alle ore 8 antim., secondo il Bennassuti alle 6, 37; secondo altri alle 6, oppure alle 7 1⁄2 ; ad ogni modo siamo al mattino del sabato Santo, secondo giorno del mistico viaggio (cf. Inf., XV, 54-55)

Non ti nocque, ti giovò più d'una volta col suo lume.- Selva fonda, la selva selvaggia, la valle (Inf., XV, 52), in che Dante s' era smarrito. Introcque; intanto, frattanto (lat. inter hoc), voce arcaica oramai, ma usitata ai vecchi scrittori. Il Gelli: «Non significa altro questa voce, che quello che significa appresso i Latini interim, e in questo significato si usava in Firenze ne' tempi di Dante, ma durò di poi poco, dicendo Benvenuto da Imola che i Fiorentini a' tempi suoi che, fu non molto dopo Dante, non la usavano più, ma ch' ella era bene in uso in Perugia. » È bene avvertire, che Dante nella Vulg. El. (1, 13) riferisce questa voce tra quelle, ch' egli biasimava nel volgare fiorentino; ma che perciò? tra la teoria e la pratica, nota assennatamente lo Scartazzini, c'è alle volte un po' di divario. Soprachè, delle voci avviene ciò che de' cibi e delle fogge del vestire; ciò che oggi non ci piace, ci può benissimo piacere di qui a qualche anno, o per mutate abitudini nostre, o per la prevalenza dell' uso; il gusto varia, e l'uso, così nelle abitudini della vita come nelle lingue, dà suggello di autorità, come avverte Orazio nella Poetica. Il Fanfani. « Intervenne al Cesari, interviene a me, ed interverrà ad altri il riprendere una voce e poi l'usarla. Ma che vuol dire? Il riprenderla è conseguenza di osservazioni, di studi propri e di altrui precetti; l'usarla può esser fatto senza matura considerazione. >

Il Canto, avverte, il Tommaseo prende le forme qua e là del trattato : e l'amore alla patria di Virgilio si distende troppo in una geografica esposi zione di luoghi noti, e agli italiani e a stranieri, pur troppo. Però vi son bellezze anche qui degne di Dante; fortemente pensata la qualità della pena ; e se dalle leggende anteriori il Poeta poteva raccogliere, seppe farlo pur restando, com'è suo costume, originale. « Il ruinare d' Anfiarao, e le alture di Lumi, fanno pittura; le attitudini dei corpi stravolti, scultura nuova, e non deforme nella mostruosità » (Tommaseo).

Nota le terzine 3, 8, 10, 12, 16, 17, 18, 43.

av. III, 4.

CANTO XXI.

Così di ponte in ponte, altro parlando,
Che la mia Commedía cantar non cura,
Venimmo, e tenevamo il colmo, quando

Ι

1-6. Così, in tal modo Di ponte in ponte, procedendo dal ponte della quarta bolgia a quello della quinta. - Altro parlando ecc.; anche altrove parlare in senso attivo; Inf., IV, 104:

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E nell' Imitaz. Cr., I, X, 2 : « Parla cose che abbiano a edificare gli audi-
tori. » Non tutto adunque ci narra il Poeta quello che tra lui e Virgilio si
veniva discorrendo lungo il viaggio, ma quello solo che poteva tornar utile
a' suoi lettori e che gli veniva in pronto secondo la convenienza del soggetto,
ed il freno o magistero dell' arte (cf. Purg., XXXIII, 141): di ciò avvisò il
lettore anche altrove (Inf., vi, 113, IX, 34); e di ciò veggasi Inf., IV, 104,
nel commento. Dagli allegati luoghi e da altri delle opere del Nostro, il let-
tore potrà agevolmente apprendere che le ragioni del tacere possono essere
di varia natura: 1) o perchè la cosa risguarda la modestia d'un anima
buona, a cui la lode può essere offesa, e la quale le lodi proprie non ripete
mai anche dette da altri, come nell' Inf., IV, 104 (il che trova spiegazione
nel Conv., 1, 2); 2) o perchè si tratta di cose, che la decenza vieta di nominare,
come accade nel Purg., XXV, 43, e Canzon., Pte II, canz. VI, st. 2. v. 10 (e ne
dà spiegazione nel Conv., IV, 25); 3) o perchè ce ne fu fatto espresso divieto
dal narratore, come col Poeta fecero Carlo Martello e Cacciaguida (Par.,
IX, 4; XVII, 92); 4) è opportuno tacere quando il parlare fosse per cagio-
nare più male che bene, Conv., IV, 2; 5) si tace alle volte perchè la cosa
soverchia la naturale potenza del linguaggio nostro, come nell' Inf., XXVIII,
1-6; XXXII, 1 e segg.; Purg., XXXI, 139-145; Par., XXIV, 25; XXX, 31-35;
Conv. III, 3; Epist. x, § 29 (cf. Diz. Dant., artic. INTELLETO; 6) finalmente
per una ragione altamente morale, cioè per onore e vantaggio del lettore,
lasciando al suo ingegno un nobile esercizio di ricercare di per sè quello
che si tace; Purg., XVII, 139; Par., X, 25; che egregiamente è spiegato nel
Conv. III, 5, con queste parole : « ... Puote vedere chi ha nobile ingegno, al
quale è bello un poco di fatica lasciare. » — Ma di quali cose parlassero qui
i due Poeti, qualcuno volle indagare; ma non le sono che congetture, e
quisquis abundat in sensu suo; il Biagioli anzi dice addirittura, che « le cose
di cui trattenevansi i Poeti erano senza dubbio (!?) riflessioni ecc. »; l'esclu-
dere perfino un onesto dubbio, mi par troppo.-Commedia (cf. Inf., XX, 113, nel
commento); questo è il preciso titolo, che al Poeta parve conveniente di
dare al suo poema (cf. Inf., XVI, 128, nel commento), come ne attesta nel-
l'Epistola x, § X; che altrove chiama sagrato Poema, e Poema sacro (Par.,
XXIII, 62; XXV, 1). Cantar (cf. Inf., 1, 73; XX, 112; Purg., 1, 4), narrare
poeticamente. Tenevamo il colmo, eravamo giunti sul punto più rilevato
del ponte (cf. Inf., XIX, 128), che sovrastava alla quinta bolgia; il colmo del
ponte altro non è che il punto sommo dell'arco di esso ponte (Conv., IV, 23).
Qui tenere ha senso di occupare, guadagnare un luogo camminando, o simili;
lo abbiamo veduto testè nel Canto precedente (v. 124); e Virgilio (Æn., 11,

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209,e VI,477) jamque arva tenebant.—Ristemmo, ci fermammo.-Fessura, perchè le valli sembrano come fenditure di terreno, così chiama questa bolgia, come tutte chiamolle valli (cf. Inf., XVIII, 9). — Malebolge, cf. Inf., XVIII, I. Pianti vani, senza frutto, inutili perchè troppo tardi.— Mirabilmente oscura (cf. Inf., XX, 11); più oscura adunque delle altre: nella ragione letterale, perchè la pece, che vi bolliva, dava alla bolgia un aspetto oscuro; Ovidio (Heroid., XVIII, 7): Cochum pice nigrius. Allegoricamente, perchè la baratteria si esplica per vie cupe e tenebrose. Nella Vit. N., § XXIII: donne scapigliate piangendo ..., maravigliosamente tristi; e dice più dell' altra frase a maraviglia, Par., XI, 90; XIX, 84. In quanto alla sua struttura ritmica, il verso arieggia all' altro dell' Inf., VI, 14. In questa bolgia son puniti i barattieri. Pier di Dante li divide in tre classi, in ludendo, judicando, administrando; ma il Poeta non ci dà cenno palese che dei venditori della giustizia e della grazia de' potenti, come nota il Bargigi, pubblici officiali e giudici venali, e cortigiani frodolenti. L'Ottimo: Puoi dire che è una baratteria che s'usa ne' popoli che si reggono per sè, e di questa tratta in questo vigesimo primo capitolo; e un' altra baratteria, che si tratta nelle corti de principi laici, e di quella scrive il vigesimo secondo capitolo. Perciò prima abbiamo l'anziano di Lucca (in governo a comune), poi Ciampolo, frate Gomita e Michel Zanche (in corte di principi). Fu ben notato dal Tommaseo, che anche nell' Inferno di Virgilio si trovano i barattieri (Æn., VI, 621-622) : Vendidit hic auro patriam, dominumque potentem Imposuit, fixit leges pretio, atque refixit.

E prima aveva detto (v. 613) :

nec veriti dominorum fallere dextras;

il che è vendere la patria per prezzo ai tiranni, mutar leggi del continuo a scopo di personale vantaggio, tradire il Principe, al quale s'era giurata fedeltà. Da questo fare e disfare le leggi, può forse trarsi lume a schiarire in parte il Purg., VI, 142-147; perchè, oltre al continuo mutarsi delle fazioni al governo, erano anche tempi, che non erano più omai sicuri Il quaderno e la doga. (Purg., XII, 105). Pur troppo, come osservò il Blanc, le voci baratto per traffico frodolento, e barattare per truffare, sono in tutte le lingue romanze.

7-9. Quale nell' arzanà ecc., arsenale fan derivare dal bisantino 'aposváλng e dall' arabo dârçanah (che vorrebbe dire casa d'industria o d' arti, onde la darsena de' Genovesi, porto interno delle galere). Il Barozzi, Veneziano, crede che lez. vera, seguita da alcuni, sia arsenà, che tuttavia si sente a Venezia. L'Arsenale di Venezia, del quale parla il Poeta, non è l'attuale (che fu costrutto nel 1337 su disegni di Andrea da Pisa), sibbene il vecchio, eretto nel 1104, come si crede, e ingrandito nel 1303. Anche a non voler tenere in alcun conto l' Epistola a Guido Novello attribuita a Dante, in data di Venezia 30 Marzo 1314 (con che al Signor di Ravenna si rende conto d'una certa ambasceria, e nella quale sì vituperevoli cose si dicono de' Veneziani e del loro governo), si può tenere per fermo che il Poeta vide Venezia e il suo arsenale, forse nel 1306 quando fu a Padova, ma certo nel 1321, quando ci fu pel signor di Ravenna; nel qual viaggio, a Ravenna ritornando, contrasse, secondo alcuni, quella malattia, che lo menò al sepolcro.

L'inverno, come stagione più acconcia alle riparazioni delle navi e meno adatta al navigare. Tenace pece (così anche nell' Inf., XXXIII, 143); tenace,

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