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CANTO XXVI.

Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande,
Che per mare e per terra batti l'ali,

E per lo Inferno il tuo nome si spande.

I

I Poeti risalendo l' argine, giungono sul ponte della bolgia seguente, che è l' ottava, dove chiusi dentro a fiamme vaganti son puniti i consiglieri frodolenti. Il principio del Canto, come di frequente avviene, si connette intimamente colla materia del precedente.

1-3. Notati dall' Alfieri. L'intonazione è lirica, finissima l'ironia, che fa ripensare ad altra tirata (Purg., VI, 127-151), e alla ben guidata sopra Rubaconte (Purg., XII, 102), e alle parole di affetto profondo e perciò di sdegno potente, che sono nelle Epistole, (V1, 2, 3, 4, 5; VII, 7). Godi; altrove (Purg., VI, 136), or ti fa lieta. Ne' suoi Studi letterari notò il Carducci, come i Fiorentini un secolo dopo, vinta l' emula Pisa, abbiano racconciato in proprio onore i vituperi del loro Poeta, e cantassero :

:

Godi, Firenze, po' che se' sì grande
Che batti l'ale per terra e per mare,
Facendo ogni toscan di te tremare!

Come la vista del Fucci diede al Poeta motivo alla invettiva contro a Pistoia (Inf.,XXV, 10-11); come il fatto di Conte Ugolino strappa dall'anima quella non meno fiera contro Pisa (Inf., XXXIII,79), così contro Firenze la vista de cinque ladri compatrioti suoi.-Sì grande; «tale era davvero; qui è detto per ironia, scrivono col Tommaseo l'Andreoli e lo Scartazzini; e poi lo Scartazzini soggiunge la vera lode rende ancor più amara l' ironica apostrofe; ma io credo che qui di vera lode non ci sia neppur sentore, e che tutto nella mente del Poeta si risolve in identico senso che le parole più su allegate del Purg., VI, 127-151, per dire la bassezza morale in che Firenze era caduta. Se la lode è vera, che sta a farci l'ironia? o si vuole l' ironia racchiusa solo nel terzo verso? Non nego che non fosse vero il fatto che allora i Fiorentini, come annota Benvenuto, andassero quasi per tutto il mondo in mare e in terra; ma nego la lode; che anzi (e qui sta la vera ironia) in questa apparente grandezza di commerci (cf. Par., XV, 120), Dante vi discerneva una delle ragioni della morale decadenza. Le parole dell' Epistola ai Fiorentini (§.VI): Omiserrima Fesulanorum propago et iterum punica barbaries; e le altre, sì minacciose (ibid. §. IV): Videbitis plebem circumquaque furentem nunc in contraria, pro et contra, deinde in idem adversus vos horrenda clamantem, quoniam simul et jejuna et timida esce nescit, trovano cento volte conferma nel Poema sulle misere condizioni morali e civili, nelle quali il Poeta vedeva precipitata Firenze; e questa altra del Convito (IV, 27): O misera, misera Patria mia! quanta pietà mi stringe per te, qual volta leggo, qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto. E quanto Dante credesse alla grandezza di Firenze, basti per ogni altra prova l' intestazione della Epistola allo Scaligero: Dantes Allagherius Florentinus natione, non moribus; che è nuova conferma dell' Inf., XV, 67-69. — Batti l' ali; vola la tua fama (cf. Inf., 11, 59-60) per terra e per mare.-E per l' inferno ecc.; il Buti: Tanto se' grande, che non ti basta lo mare e la terra; ma ancora l' inferno è pieno di te. » Infatti Ciacco, Filippo Argenti, Farinata e Cavalcante, Rinier Pazzo, l' altro che i chiosatori credono Rocco de' Mozzi; Brunetto e Andrea

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Purg. IX, 10.

5

Tra li ladron trovai cinque cotali
Tuoi cittadini, onde mi vien vergogna,

E tu in grande onranza non ne sali.

Ma se presso il mattin del ver si sogna,

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de' Mozzi; Guidoguerra, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci, e cinque ladri testè veduti, potevan dar diritto al Poeta di dire che il nome di Firenze si spandeva anco per l' inferno.

4-6. Ecco la grandezza, che qui Dante intende. nome nel Canto precedente. Cinque, già notati per grandi casate, alla nobiltà del lignaggio di que' tali, come vogliono alcuni; Cotali; non intendo quel cotali riferirsi alle ma solo questo fra i ladri trovai dannati cinque ladri tuoi cittadini.-Mi vien vergogna, il nostro Autore, il quale affermò che certi falli del padre paiono restare in vergogna de' discendenti loro (Conv., IV, 25, e ciò rafferma anche nel Poema, Par., XVI, 105; veggasi ivi nel commento), e che degli illustri antenati l'uomo non può non gloriarsi (Par., XVI, I e segg.); ben capiva il passaggio delle umane relazioni da domestiche a civili (cf. Mon., 11, 3); onde, in quella guisa che ognuno si vanta di concittadini gloriosi, come avesse parte nella lor gloria, così non può non sentir vergogna di concittadini, che offuscano il buon nome del luogo natale. IV, 76), non vieni in grande fama, in fama onorata (cf. Inf., XXIV, 48).—Sali; Onranza (cf. Inf., altrove montare (Par., XV, 110).

7-9. Ma se presso il mattin ecc.; ma predicendoti io i guai e i danni, che ti cadranno addosso per questi disordini morali e civili, danni e guai che grandemente ti desiderano non pure i tuoi nemici grandi e potenti, ma anco i piccoli, com'è Prato, (cf. v. 9); ti faccio una profezia più vera e più certa che non sieno i sogni che si fanno in sull' aurora. Ciò ha origine nella credenza degli antichi, che i sogni fatti in sul mattino prenunciassero ciò che doveva accadere. Ovidio (Heroid., XIX, 195) citato da Pietro

Namque sub auroram, iam dormitante Lucina,
Tempora quo cerni somnia vera solent.

E Dante (Purg., IX, 16-18), parlando appunto di sè dormiente in tale ora:
la mente nostra pellegrina

Più dalla carne, e men da' pensier presa,

Alle sue vision quasi è divina ecc.

Il Petrarca (cit. dal Biagioli ) :

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Io ti vorrei sognare in su
Che i sogni veri son.

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Il Passavanti : Quegli sogni che si fanno all' alba del dì, secondo ch' e dicono, sono i più veri sogni che si facciano. E si rammenti l' avverato sogno di Ugolino e de' suoi figliuoli (Inf., XXXIII, 26-27, e 45); e l'altro del Poeta (Purg., XXVII, 92), che pur s' avvera. Io per me, il dico francamente, non posso affatto starmene con coloro che credono che qui Dante/finga d'aver sognato; ma questa forma poetica è pienamente spiegata dale parole, che adopera altrove nel predire a Firenze non dissimili guai; e scrive (Epist. VI, 4): si præsaga mens non fallitur, sic signis veridicis, sic inexpugnabilibus argu

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Conv. !I

Tu sentirai di qua da picciol tempo

Di quel che Prato, non ch' altri, t' agogna:

:

mentis instructa prænuntians, urbe diuturno mærore confectam ecc. Cf. Di-
zionario Dantesco, artic. SOGNO, e Purg., 1X, 16-18 i passi della Somma.
Tu sentirai ecc.; tu proverai, sperimenterai quei mali ecc. Quali fossero i
malanni, che prevedeva il Poeta, ricercano i chiosatori; e i più concordano
nel credere che l' Autore accenni alla ruina micidiale del ponte alla Car-
raia (1303); all' incendio di Calimala (10 giugno 1304), messovi il fuoco da
Neri degli Abati mentre Bianchi e Neri si azzuffavano, onde furon distrutte
1700 case; ma più che tutto, all' entrata in Firenze di Carlo di Valois, che fu i
principio della distruzione di Firenze (cf. Conv., II, 14), e che a quella città
doveva, colla lancia sua da Giuda, far scoppiare la pancia (Purg., XX, 70-75).
Se a tutto questo volgeva la mente il Poeta, il suo, quando scriveva, era un va-
ticinio di cose avvenute. Ma nulla toglie, che insieme a questi fatti particolari
e accaduti, egli non potesse pensare a sciagure possibili, a predir le quali
gli davano argomento le tristi condizioni morali e civili di quella città, come
lo udimmo testè profetare in altra epoca sciagure non dissimili nella Epi-
stola ai Fiorentini (e sarà bene leggere tutto il paragrafo citato), e come
ne dà manifesto indicio anche nel Purg., XXIII, 106-111; XXIV, 79-81; i
quali luoghi sono come un succo spremuto di quanto del vivere morale di
Firenze tocca altrove (Par., XV, 100-111; XXXI, 39). - Di qua da picciol
tempo, tra poco, in breve; la frase risguarda il futuro (mentre l'altra, in
picciol tempo, Par., XII, 85, si riferisce al passato); e anche per la ragione
della profezia ha spiegazione dell' altra del Purg., XXIV, 88 (cf. ivi, XXXIII,
37 e 41). Di quel, quei malanni. Prato; i più intendono della città,
oppressa già da Firenze. L' Ottimo Favella qui l'Autore secondo un
motto, che dice l' uno vicino vorrebbe vedere cieco l' altro; quelli della terra
di Prato, che sono presso alla città di Firenze dieci miglia, per volere essere
più ringhiosi che non è la loro forza, hanno più volte avuto della forza
de' Fiorentini, siccome de' maggiori e più poderosi si hanno le vicine citta-
di sicchè dove è stato lungo odio, e dove è l' invidia, quasi mai non v' è
naturale amore; ma sempre il minore e l' offeso desidera la caduta del mag-
giore, e dello ingiuriante. Però alcuni moderni, dalla menzione di Prato,
vorrebbero intendere che qui s'accenni alla missione del Cardinale Niccolò
da Prato (cf. Epist. 1), paciere in Toscana per Papa Benedetto XI nel 1304;
egli non riuscendo a comporre le dissensioni tra' Bianchi e i Neri, il 4 giu-
gno lasciò Firenze, dicendo a' quei faziosi : « Dappoichè volete essere in
guerra e in maledizione, e non volete udire nè ubbidire il messo del Vicario
di Dio, nè avere riposo nè pace tra voi, rimanete colla maledizione di Dio e
con quella di Santa Chiesa, scomunicando i cittadini, e lasciando interdetta
la cittade; onde si teme che per quella maledizione, o giusta o ingiusta, ne
fosse sentenza e gran pericolo della nostra cittade, per le avversità o peri-
coli che le avvennero poco appresso» (Vill., Cron., viii, 69). Allo Scartazzini
tale opinione sembra la più probabile. 11 Minich, Prato anzichè allusivo a
un fatto, intende come nome di persona, cioè il Cardinale da Prato, e nel-
l' altri, che segne, vede il Card. Napoleone degli Orsini (cf. Epist., vIII,
S. 10), che da Clemente V fu nel 1306 spedito in Toscana per dissuadere i
Fiorentini dall' assedio di Pistoia; ma non riuscendo nell' intento, scomu-
nicò di nuovo Firenze e confermò l' interdetto del Cardinale da Prato (Vill.,
Cron., VIII, 85). Anche questa opinione allo Scartazzini sembra non del tutto
priva di fondamento; e il giudizio dello Scartazzini non è certo di poco va-
lore; però pu parere un po' strano che negli antichi chiosatori non ci sia
pur ombra che accenni nè alla prima, nè alla seconda di tali opinioni.
Agogna; desic era ardentemente (cf. Inf., VI, 28).

ΙΟ

E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss' ei, da che pur esser dee!
Chè più mi graverà, com' più m' attempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee,

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Che n' avean fatte i borni a scender pria,
Rimontò il Duca mio, e trasse mee.

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col tuo mal fare.

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10-12. L' Alfieri nota l'ultimo. Se già fosse (cf. Inf., 11, 80), se ciò, se queste sventure, che preveggo, ti cogliessero adesso adesso, non saria per tempo, non sarebbero venute troppo presto, che già da lunga pezza le meriti - Così foss' ei; dacchè è certissimo che tali malanni tu non potrai scansarli, volesse il Cielo che ti cogliessero subito. Chè più mi graverà ecc.; qui varie le opinioni; alcuni intendono, che quanto più l' uomo invecchia, tanto più gli pesano i mali. Altri invece : quanto più ritarderà il castigo divino, e tanto sarà più tremendo; ed io, che t' amo, n' avrò più dolore. L' Ottimo, seguito dal Lombardi e dal Blanc, intende che Dante conti pure il suo esilio fra i tristi destini della patria, e s'auguri quindi che gli tocchi fin ch' egli e in giovane età, quando l' uomo comporta meglio le cose anche più dure, piuttosto che nell' età avanzata. Io sto col Bargigi : « più mi rincrescerà, quanto più tarderà di vederlo; il che più largamente è spiegato dal Cesari : « Ogni giorno più che questa pena s' indugia, io mi macero; perchè quanto io più invecchio aspettandola, tanti anni mi godrò meno il piacer di vedere questa vendetta. » A chi poi in questa sentenza si scandalizzą di scorgere in Dante un insaziabile desiderio di vendetta, e perciò respinge tale spiegazione, si potrebbero recare innanzi non pochi luoghi del Poema, dove tal pensiero ricorre; più volte anzi, più o men velatamente, lo mette in bocca anche ad anime sante (cf. Purg., XX, 9496; XXIII, 82-87; XXIII, 35-6; Par., XXI, 135; XXII, 14-15). Ma da ciò risulta che anzichè spirito di vendetta peccaminosa, poteva in lui essere desiderio pio che fossero puniti i malvagi e la sua Firenze purgata di tante scelleraggini; il Landino a queste anime timorate aveva già in precedenza risposto, così conciliando la cosa : «Mostrasi l'autore desideroso di questo male, non per ruina della patria, la qual gli era carissima, ma per punizion dei cattivi cittadini che iniquamente l' amministravano; e però desidera che sia presto, acciocchè siano puniti quelli che hanno errato.» E della sua ira santa contro a' cattivi reggitori ognun può vedere quanti e quanti luoghi vengano in pronto nell' Epistolario (specialmente nelle Epistole V, VI, VII, VIII, IX); e celebri i due luoghi del Convito (IV, 6, al fine; e IV, 16, al princ.).—Com' (cf. Purg., XI, 92; XXXII, 129; Par., XXII, 143, sempre preceduto da consonanti semplici; ed è vivo in alcuni dialetti), come, quanto. Attempo, invecchio.

13-18. L' Alfieri notò i tre ultimi. Su ciò veggasi Inf., XXIV, 72-75; alla spiegazione ivi data, mettendo in chiaro la differenza delle due frasi arrivar dall'altro cinghio e dismontar lo muro, parrebbe qui trovarsi nuovo argomento nelle due frasi noi ci partimmo, e su per le scalee.... rimontò il Duca mio e trasse mee; e nell' altra e proseguendo la solinga via ecc., che paiono accennare a due cose distinte; la prima infatti si riferirebbe al riascendere quel tratto di costa della bolgia, per la quale eran prima discesi; la solinga via risguarderebbe la continuazione del viaggio pei varii ponti. Soprachè, la frase rimontare per le scale che n' avean fatto i borni a scender pria, mi suona preciso come l' altra de' latini relegere vestigia, rifare un sentiero, tornar sui propri passi, il che non avverrebbe ove si trattasse di sola prosecuzione di viaggio di ponte in ponte. Partimmo, dal punto dove prima c'eravam fermati per osservare quella bolgia (cf. Inf. XXIV, 73, 79). Scalee (cf. Purg., XII, 104; Par., XXXII, 21; come scaleo, Purg., XV, 36; XXI,

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29; e qui appresso, v. 29, vallea), scale, gradini; cioè arrampicandosi d' una in
altra sporgenza dei sassi, che è quanto a dire di chiappa in chiappa (Inf., XXIV,
33).
Borni; i Francesi hanno borne per pietra sporgente agli angoli
d'un edifizio. Tal parola non doveva esser troppo intesa dai nostri antichi,
se tante stravaganze ci camuffaron sopra i vecchi chiosatori, mutando anche
la lezione del verso. Lasciando il Buti e il Bargigi, che leggono, che il buior
(l'oscurità) n' avea fatto scender pria (anche il Giuliani, nell' ediz. da lui
usata, scrisse di sua mano sopra al detto verso: il buior n' avea fatto; che
in qualche momento avesse l'illustre uomo vagheggiato siffatta lezione?
però, nell' edizione da lui procurata della Commedia pose borni). Il Lana e
l' Anon. Fior. leggono iborni, aggettivo; e il primo spiega freddi e stanchi;
il secondo, gombi e chinati, come va chi a tentone scende : altri i borni, i ciechi,
riferendolo ai ladri. L'Ottimo : « i borni, cioè li ladri. » Borni, dunque, come
nota il Cesari, sono quelle morse, o pietre lasciate sporgenti dal muro, per
averne degli appicchi o delle prese da continuar la fabbrica, quanto a dire
l' addentellato; e Dante spiega sè stesso nel v. 17. E non volendo ammet-
tere che i Poeti sien discesi per la costa, è dunque mestieri qui intendere
que' rocchi o massi sporgenti dal fianco del ponte, dall' argine sino al punto
superiore della testa del ponte stesso. Mee; forma antica di me, ma ancora
in uso in qualche parte di Toscana (così tue per tu, fue per fu, ee per è; sue,
giue per su e giù, ed altre): cf. Inf., II, 141. Solinga via; la via solitaria
del ponte, staccatici da que' dannati (cf. Inf., XXIII, 1); altrove di persona
(Inf., XXIII, 106). Schegge; sporgenze minori de' rocchi. Rocchi, cf. Inf.,
XX, 25. Scoglio, l'ottavo ponte. Lo piè ecc.; il Cod. Cass. (glossa
interlin.): quia cum manibus sicut cum pedibus ambulabam. Nel Purg.,IV, 33;
E piedi e man voleva il suol di sotto;

come disse altrove (Inf., XIX, 131),

scoglio sconcio ed erto,

Che sarebbe alle capre duro varco,

cioè ronchioso e malagevole più assai che quel di pria (Inf., XXIV, 62-63). Questi luoghi dell' Inferno, considerati successivamente, e messi a raffronto col presente che commentiamo, e tenendo ben a mente che abbia detto il Poeta rispetto al ponte della prima bolgia (Inf., XVIII, 70), ci danno bastevole argomento per dover ammettere che i ponti delle bolgie, quanto più si accostano al Pozzo, e tanto più si fanno erti e malagevoli.

19-24. Notati dall' Alfieri, eccetto il primo. Degni di Dante il concetto e il nobilissimo proposito : stando per parlare de' consiglieri frodolenti, che rivolsero al mal fare la perspicacia dell' ingegno dato loro da Dio perchè lo indirizzassero a fini generosi, il Poeta, che sentiva dell' ingegno averne molto, entra in timore di tale abuso, e propone d'usarne soltanto a scopo virtuoso. Allor, giunto alla sommità del ponte, mi dolsi, per quel che vidi giù nella bolgia; ed ora, al ricordarmene, al ripensarvi (drizzar la mente, cf. Par., VII, 34). — E più ecc.; e tengo in freno il mio ingegno, più che non abbia fatto finora, acciocchè non trasvada, non trascorra senza la guida della virtù, o disgiunto dalla giustizia, come fecero i dannati di questa bolgia. Qui

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