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Se innanzi tempo Grazia a sè nol chiama.
Così disse il Maestro; e quegli in fretta
Le man distese, e prese il Duca mio,
Ond' Ercole sentì già grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio,
Disse a me: Fatti in qua, si ch' io ti prenda :
Poi fece sì che un fascio er' egli ed io.
Qual pare a riguardar la Carisenda
Sotto il chinato, quando un nuvol vada
Sovr' essa sì, ch' ella in contrario penda;

Tal parve Anteo a me che stava a bada
Di vederlo chinare; e fu tal' ora

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(cf. Vit. N., § ult.), con opere illustri avrebbe conseguito presso i posteri (cf. Par., XVII, 119-120; cf. ivi, IX, 42; Inf., XV, 120; XXIV, 47-51).

130-132. Notati dall' Alfieri. L'argomento avea fatto breccia; e come non prima? ma prima il gigante forse non aveva avvertito che l'uno de' due era vivo, e non sapeva che sarebbe tornato al mondo; chiarito di ciò, ripara alla prima riottosità e gli par tardi di mostrarsi cortese; ed eccolo in fretta ecc. Ond Ercole ecc.; prese il duca mio con quelle mani, dalle quali Ercole sentì già, combattendo con lui, forte stringimento. Onde Ercole ecc.; onde, idest, a quibus manibus, è la chiosa interlineare del Cod. Cass. È vero che alla fine chi soccombette fu Anteo, ma nella lotta per lungo tempo le forze dei due furon pari; e se grandi strette sentì Anteo da Ercole, non meno ne sentì egli da Anteo, benchè alla fine il vincitore fosse Ercole; onde Lucano (Phars., IV, 617):

Conseruere manus, et multo brachia nexu ...
Miranturque habuisse parem.

Cf. Conv., III, 3; Mon., II, 8. Questo giova attendere contro la lezione, alla
quale inclinerebbe il Cesari (ond' ei d' Ercol sentì la grande stretta), e
accettata un tempo dal Giuliani (cf. commenti al Conv., 111, 3), benchè nella
pubblicazione del testo della Commedia siasi poi attenuto all' altra. Oltrec-
chè, qui non si può intendere dell' azione d' Ercole su Anteo, ma d' Anteo,
ora operante, verso Ercole; quasi a dire a prendere noi sì piccini Anteo
stese quelle mani che ben levaron di terra più volte lo stesso Ercole; per
nulla dire che all' avv. onde con tale lezione è mestieri dare il senso di ove,
il che non so se grammaticalmente si possa; così che il Fanfani, arbitraria-
mente però, suggeriva di leggere : U''d' Ercol sentì già ecc.

133-135. Notati dall' Alfieri. Fece sì (cf. Inf., XXII, 84); mi prese così, ch' eravamo come legati insieme; onde Anteo levando Virgilio, levava pur me. 136-141. L' Alfieri notò la seconda terzina. Carisenda; una delle torri di Bologna, ormai resa eterna di memoria per questa similitudine. Il Lana : E' da sapere che in Bologna suso in piazza detta Porta Ravignana, sono due torri; l'una è lunghissima ed è appellata l'Asinella, perchè d'un casale che ha nome gli Asinelli; l'altra torre non è sì lunga, ma è più grossa, ed è piegata e torta verso quella Asinella: però quando le nuvole vanno all' opposita parte del piegare della torre, a chi vi guarda par ch' ella si chini; ed è appellata quella torre Carisenda, imperocchè d' un casato chiamato Carisendi.» L' Ampère: «Una nube passando al di sopra della torre e venendo dal lato verso il quale essa piega ... sembra che la torre si abbassi con tutta la prestezza della nube.... La Carisenda di Bologna è dell'anno 1110(-fatta da

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Ch' io avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo, che divora
Lucifero con Giuda, ci posò;

Nè sì chinato lì fece dimora,

E come albero in nave si levò.

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Filippo Oddo de' Garisendi-); la torre di Pisa, sulla quale il Galilei fece le sue prime esperienze sui gravi, fu compiuta solo dopo la morte del Poeta. Si credette che queste due torri pendenti fossero costruite in tal guisa a bella posta; ma tale opinione è oggi universalmente abbandonata; e dove credevasi vedere un prestigio dell' arte, non altro bisogna vedere che un accidente prodotto dalla natura del terreno. Le due torri non anno centro di gravità (— il Gozzadini attesta che la Carisenda era ben più alta che non sia ora (misura metri 47, 51), perchè poco più di trent'anni dopo la morte di Dante fu fatta mozzare da Giovanni Visconti d' Oleggio, onde fu poi detta Torre Mozza. Lo strapiombo della Carisenda è di metri 2, 37-). I fori per alzar i palchi di costruzione hanno la medesima inclinazione che il rimanente del monumento.Sotto il chinato; sotto il lato donde pende (sub curvatura, spiega Benvenuto). Quando ecc.;quando passa una nuvola in direzione contraria alla inclinazione della torre. Parve, nell' atto d'inclinarsi per prenderci. --Stava a bada, guardava attentamente. (cf. Purg., IV, 75; Par., VII, 88).— Tal' ora ecc.; e vi fu un momento (quello quando Anteo si chinò) così pauroso, che io avrei preferito di cercare altra strada per discendere in quel pozzo.

142-145. L' Alfieri notò il primo e i due ultimi. Lievemente (rammenta quasi il soavemente per consimile azione adoperato altrove, Inf., XIX, 130); in tal modo, con buona grazia, senza strette; e si vede che il gigante voleva proprio ingrazianarsi il suo promesso lodatore. Al fondo; nel fondo del Pozzo, che, secondo il sistema tolemaico, e in pari tempo il fondo dell' Inferno e di tutto l'universo (Inf., XXXII, 74; XXXIV, 111; cf. Inf., IX, 29; XI, 65; Conv., III, 5; Quæst. Aq. et Terr., § 3 e 17: Dizionario Dantesco, artic. CENTRO, §. 1).-—Divora, ingoia, assorbe, serra in sè e strazia; altrove, di una bolgia che racchiude i dannati, assannare (Inf., xv111, 99). Il Tommaseo cita Prov., 1, 12: Deglutiamus eum sicut infernus viventem. — Ci posò; Nè sì chinato ecc.; nè punto restò egli così chinato, ma tosto si alzò e rifecesi dritto. - E, per ma; e ma legge il Cod. Ang. Com' albero ecc.; questo verso, nota il Biagioli, dipinge il modo del rilevarsi del gigante, d' un tratto, e la smisurata sua altezza, cui siegue attentamente coll' occhio il curioso lettore. Il Bargigi (mentre i più tacciono e alcuni, come il Cesari, frantendono): «Questa similitudine dell' albero non possiamo intendere di nave grossa di mare; ma di galee, ed altre magre fuste, e ben ancora di navi d'acqua dolce, che sogliono levare, e calare l'albero secondo che mestier lor fa.>> La similitudine, osserva il Venturi, dipinge l'atto; «e i suoni del verso, aperti sul primo e vibrati sull' ultimo (— il verso con questo venirsi aprendo ne' suoni sino all' alto e vibrato di si levò, Cesari —), per mostrare e l'ampiezza dell' arco descritto dal corpo di Anteo nel sollevarsi, e la fermezza in cui questi tornò appena fu diritto, aggiungono all' arte quel che il pennello non può. »

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Nota le terzine 3 alla 7; 11 alla 14; 16, 20, 21, 22, 25; 27 alla 30; 32, 36, 44, 46, 47, 48.

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NOTA.

La santa gesta (v. 17).

Nella Nuova Antologia (16 Marzo 1890, pag. 285) fu pubblicata una cosa saporita del prof. Del Lungo: è una lettera, che il dotto uomo, e degli studi danteschi tanto benemerito, indirizzò al prof. Pio Rajna, intitolata: La SANTA GESTA in Dante secondo l'antico volgare; lettera che parmi di poter compendiare così : Comincia dal ricordare una nota dello stesso Rajna. al Propugnatore del 1871, nella quale si diceva che, «santa gesta sono chiamati, cogli altri baroni, i paladini, i quali erano stretti l' uno coll' altro da fratellanza d'armi, e però formavano una sola famiglia. Quindi perdè la santa gesta, significa : perdè la santa schiera dei paladini; perchè moriva combattendo i Saraceni. »

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santa

Anche il Fanfani avea dato tale valore alla parola gesta. E la Crusca nelle edizioni del 1612 e 1623 avea : Gesta stirpe, schiatta, con esempi del Villani, della Tavola Ritonda, e di Dante; e Geste (in plurale) per fatti e azioni. Ma nelle edizioni 1691 e 1729 la Crusca istessa avea trasportato l'esempio di Dante al significato di fatti e azioni. L' equivoco era avvenuto per aver attribuito al singolare la gesta, il significato del plurale le gesta, o le geste, che proviene invece dal singolare disusato: gesto. Così Lodovico Ariosto ha osato dei Franchi ogni futuro gesto. E qui il Del Lungo cita esempi di gesta in numero singolare tolti da libri cavallereschi : le Storie Narbonesi, la Tavola Ritonda, i Reali di Francia. L' hanno pure l' Ariosto, il Berni, il Tassoni, fra i poeti romanzeschi, dai quali è passata nel comune volgar fiorentino.

Santa gesta: santa impresa, è interpretazione arbitraria, che cominciò col gesuita Pompeo Venturi nel secolo XVIII, e si fece volgata e tradizionale tanto da insediarsi padrona, e trattar con dispregio la giusta signora. I pochi, che non riconoscono l'usurpazione, l' Andreoli, lo Scartazzini, il Casini, il Poletto (Dizionario Dantesco), si trovan quasi a dover chiedere scusa del rimanere nel vero.

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1-6. L' Alfieri notò i due primi e i due penultimi. Siam giunti nell' ultimo Cerchio, centro dell' universo, per coseguente il men ampio e il più profondo di tutti, e dove per ciò sresso colle pene più gravi si puniscono i peccati più gravi di tutti (Inf., XI, 64-5; cf. Inf., V, 1-3); ma il Poeta sente tutta la difficoltà di poterlo debitamente descrivere; onde ricorre per aiuto alle Muse (cf. Purg., XXIX, 36 e segg.: XXXI, 139 e segg.); e ben si pare che l'aiuto fu tale, da riuscirne una delle più alte concezioni fantastiche d' ogni letteratura, e abbellita di tant' arte, da destarne sempre nuova maraviglia per tutti i secoli. S' io avessi ecc.; se avessi in pronto, se la mia lingua nativa mi desse ecc. (cf. v. 9). -- Rime aspre e chiocce (rispetto al suono e all' espressione), crude e rauche. Veggasi nelle Vulg. El., 11, 7, come il nostro Autore, giusta il suono, classifichi le parole, delle quali «quædam puerilia, quædam muliebria, quædam virilia; et horum quædam silvestria, quædam urbana; et eorum, quæ urbana vocamus, quædam pexa et lubrica, quædam irsuta et reburra sentimus» (cioè parole aspre e rabbuffate, come intende il Trissino). E Dante comincia una sua canzone (Canzon., Pie II, canz., XI) :

Così nel mio parlar voglio esser aspro,

Com'è negli atti questa bella pietra;

in guisa cioè che la parola rispondesse al sentimento, o che dal fatto il
dir non fosse diverso (v. 12). Nella Mon., II, 5: Sermones inquirendi sunt
secundum subiectam materiam. E nel Conv., IV, 2, chiosando questi versi
d'una sua Canzone:

Diporrò giù lo mio soave stile,

Ch' io ho tenuto nel trattar d' Amore ....
Con rima aspra e sottile
Riprovando ecc.,

scrive: «diporrò, cioè lascerò stare lo mio soave stile, cioè, modo, che, d'Amor
parlando, ho tenuto... E prometto trattare di questa materia con rima sottile
e aspra. Perchè saper si conviene che rima si può doppiamente considerare,
cioè largamente e strettamente. Strettamente, s' intende per quella concor-
danza che nell'ultima e penultima sillaba far si suole; largamente, s' intende
per tutto quello parlare che con numero e tempo regolato in rimate conso-
nanze cade; e così qui in questo proemio prendere e intendere si vuole.
E tutto questo è compreso in germe in quest' altre parole (Conv., I, 12) :
In ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto e più amato
e commendato. Tristo buco (cf. Inf., XXXI, 31 e 45, nel commento); il
Pozzo o nono Cerchio, il più ristretto di tutti, scavato a guisa d' imbuto e
circoscritto tra le pareti del pozzo e il centro della terra, sul quale gravitano
tutti i pesi dell' universo (Par., XXIX, 57; cf. Inf., XXXI, 142, nel commento).
---Pontan; s' appuntano, premono, secondo la legge fisica che ogni peso
tende al centro (Inf., XXXIV, III). — Tutte ecc.; non intenderei solamente di
tutti gli altri cerchi infernali, ma di tutti i pesi del mondo. - Premerei ecc.;
spremerei come il succo del mio concetto, esprimerei con più pienezza il
mio concepimento. Il Biagioli: «Siccome la voce suco (umore di qualsivo-

Conv 1.

5

Più pienamente; ma perch' io non l'abbo,
Non senza tema a dicer mi conduco.

2

Chè non è impresa da pigliare a gabbo

glia sorte), s' adopera in senso figurato ad esprimere le ombre e le differenze minime del concetto, così il verbo premere (spremere, estrarre) s'adopra anch' egli metaforicamente» (l' Anon. Fior.: «Io pesterei l'erba del mio concetto, sì ch' io ne trarrei ogni sostanzia »). Ma già esprimere non deriva che da spremere; e spremere per esprimere, dire, abbiamo nel Poema (Par., IV, 112). Nel Conv., 1, 12 : «Di questa virtù dirò più pienamente.» Nell' Epist. VIII, II, plenius dicam. — Abbo; forma più affine che ho all' habeo, onde deriva, ed era comune pure ai prosatori. Tema, ansietà d' animo, timore di non poter colle parole adeguare il concetto, perchè la lingua non risponde (cf. Par., 1, 127-129; Conv., 1, 11). — Dicer, descrivere quanto vidi (v. 8).

7-9. L' Alfieri notò il secondo. Non è impresa da celia, da prendersi alla leggiera, ma ben grave, stante la novità della materia, descrivere il fondo, il centro dell' universo (secondo il sistema tolemaico, che la terra fosse il centro del tutto, Quest. Aq. et Terr. § 3). Di consimile difficoltà cf. Par., XXIII, 64-69.-Ne da lingua ecc.; coloro, e non son pochi, che spiegano lingua da bambini, dicon cosa tutt' altro che seria e degna del pensiero di Dante; al postutto, chi obbligava il Poeta a usare la lingua de' bambini, anzichè degli adulti? nè giova appellarsi alla Vulg. El., 11, 7, dove l' Autore pone le voci mamma e babbo fra le puerili; quel luogo non può per verun modo tirarsi a illustrare la sentenza di questo, se non solo in quanto c'è là giudicio storico delle due voci. E nemmeno puossi intendere col Bianchi lingua bambina, perchè bambina era a' tempi dell' Autore rispetto a quello che divenne dappoi, specialmente per opera stessa di Dante; benchè questa del Bianchi sia opinione, apparentemente, meno insostenebile dell' altra, per la predizione che della futura grandezza del Volgare italiano si legge nelle parole con che si conchiude il trattato primo del Convito; al che, per esser giusti, bisogna opporre quest'altre sul fine delcapo decimo del trattato medesimo, ove si parla di tale grandezza come conseguita. Qui, al trar dei conti, non abbiamo che una semplice e chiara perifrasi per dire lingua italiana; come altre volta, in forma del pari perifrastica, la dice lingua di sì. Delle difficoltà di esprimere certe cose nella nostra lingua, il Poeta tocca anche altrove; nel Conv., I, 5, dice che il Latino, rispetto al nostro Volgare, è sovrano per nobiltà e per virtù e per bellezza (il che poi spiega in diffuso); e soggiunge: «Lo Latino molte cose manifesta concepute nella mente, che il Volgare fare non può, siccome sanno quelli che hanno l'uno e l'altro sermone. E si notino ben bene anche questi due altri luoghi : « Della Donna, di cui io m' innamorava, non era degna rima di Volgare alcuno palesemente parlare » (Conv., 11, 13) : «Non è cosa da manifestare a lingua (cioè con lingua), lingua, dico, veramente volgare » (ivi, IV, 21). E tutto questo è raffermato nell' Epistola a Cangrande (SIV), dove Dante dichiara che il modo di parlare da lui usato nella Commedia, è dimesso ed umile, perchè Volgare, nel quale pure communicano le femminette. Però se tale era infatti l'opinione del Nostro d' intorno al Volgare italico verso il Latino, non solo, come udimmo, ne presagiva la futura grandezza, ma siffatta grandezza professa d' avergliela data oramai egli stesso col suo Convito; e queste son le parole (1, 10) : « Avvegnachè per molte condizioni di grandezza le cose si possano magnificare, cioè far grandi, nulla fa tanto grande, quanto la grandezza della propria bontà, la quale è madre e conservatrice delle altre grandezze E questa grandezza do io a questo amico (al Volgare italiano), in quanto quello ch'ello di bontade avea in podere ed occulto, io gliel fo avere in atto e palese

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