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O meglio ancora non potrebbe supporsi che questa memoria della vita passata i morti non la perdano subito? e cosí potrebbe non averla perduta Ciacco, morto di recente; come si vede non averla perduta quel Borsieri, del quale i tre violenti di sopra avean detto che, sopraggiunto di fresco, Assai ne cruccia con le sue parole: e come si vede Casella, pur sulla soglia della vita migliore, conservare l'affezione alla trascorsa, quando, invitato da Dante, intuona la dolce canzone, Amor che ne la mente mi ragiona.

Scrive l'autore (a pag. 16) che i traditori Dante li piomba nell'Inferno, appena compiuta la trista opera loro. Volea dire, una parte dei traditori, e propriamente quelli della Tolomea, che soli (e nemmeno sempre, ma solo Spesse volte) hanno Cotal vantaggio, come con terribile ironia dice l' Alighieri al XXXIII, 124.

Nella stessa pagina in nota non mi riesce di ben afferrare che abbia voluto dire scrivendo "che anche nei primi cerchi dell' Inferno, come in tutto il Purgatorio si punisce il peccato. Non v'è differenza nel genere della colpa, ma solo nella qualità „. O che dovesse leggersi quantità?

In complesso però, pur con siffatte mende, lo scritto si presenta assai commendevole, e da consigliarsene la lettura a quanti s'interessano della controversia. Esso si distingue, se non per eleganza, per sobrietà e perspicuità di dettato. E non manca eziandio di vedute nuove, o almeno non comuni: tale l'osservazione a pag. 11, che alla città di Dite appaiono per la prima volta schiere di demonii (escluso beninteso il cattivo coro Degli angeli che non furon ribelli Né fur fedeli a Dio, ma per sé foro, nel cerchio degli indolenti); e poteva anche aggiungere, che per la prima volta vi appaiono le pene del foco, vere pene infernali: tale a pag. r7 il supposto, che il cerimoniale di Dante a l'ingresso della porta del Purgatorio lo debbano subire tutti i purganti; del che porge una prova nel fatto, che Virgilio addita a Stazio i sette P (veramente oramai non sarebbero che tre) scolpiti sulla fronte di Dante, come un segno pel riconoscimento di coloro che son destinati alla gloria del Paradiso.

Anche dove le cose dette non son nuove, si vede però sempre ch'esse procedono da una intima assimilazione, contenendo pensieri che vogliono essere approfonditi, non frasi fatte o superficialità, zavorra che pur troppo affligge la maggior parte delle scritture che si è obbligati a digerire.

E come dissi in principio, il punto di partenza, il concetto fondamentale (salvo sempre il rispetto alle opinioni altrui) mi pare indovinato: e quando ciò si verifica, nulla di piú facile che un piú maturo esame della quistione possa portare a quell' apprezzamento esatto, che difficilmente è il frutto di una prima intuizione, ma è più spesso dovuto a una lunga serie d' indagini e di selezioni, alle quali l'autore si mostra con questo studio perfettamente contemperato.

FERD. RONCHetti.

DS. Questo io scriveva in gennaio. Ma dopo d'allora un contributo alla quistione lo recarono anche i lavori di A. Dobelli e L. Filomusi-Guelfi apparsi in questo Giornale (anno II, quad. 10,) e lo scritto di G. Del Noce formante il 22° volumetto della Collezione di opuscoli danteschi edita dal conte Passerini. Sarebbe quindi mio dovere occuparmene. Ma poiché la loro importanza non permette di farlo cosí alla sfuggita, e in nessuno di essi ho del resto trovato di che modificar le precedenti conclusioni, sarà meglio riserbare questo compito a miglior agio, se pure le mie occupazioni ordinarie e il beneplacito del Direttore me lo consentiranno. Mi Ilmiterò per ora ad esprimere la speranza, che le suesposte considerazioni abbiano a convertire il Dobelli dal difficile assunto a cui lo trasse l'ossequio ai prof. D'Ovidio e Scherillo di relegare in Dite la superbia e l'invidia. Se pure, con la sua recensione al D' Ovidio, già non lo avesse, nel medesimo quaderno, convertito il Filomusi.

Piú ardua impresa sarà convertire quest'ultimo, avendo egli per la spiegazione del mondo penale dantesco un sistema suo speciale, tutto basato sulla scolastica, ma che ai piú temo sia riuscito ostico alquanto. Egli troverebbe giustificazione del non avere Dante fatto figurare fra le colpe d'incontinenza la superbia, nell'essere questa peccato di malizia, e non di fragilità. Ma s'egli intende malizia per malignità in genere, non vedo perché non si possa comprendere anche la superbia, dal momento che vi si comprenderà, credo, l'avarizia; se questa è pure da Dante punita come incontinenza. S'egli poi prende malizia al modo dantesco del c. 11, di, Inf., vuoi nel senso piú largo del v. 22 che abbraccia violenza e frode, vuoi in quello piú ristretto del v. 82 che riflette la frode solamente, e in allora non si può dire che la superbia,

come qualunque altro vizio capitale, vi sia né compresa né esclusa. E mi spiego. Uno può commettere violenza o frode tanto per superbia, quanto per avarizia, o per usura o per invidia o per ira; ma non si può dire con ciò che i peccati di violenza o di frode abbiano a collocarsi sotto la categoria di questo o di quello dei sette peccati capitali: questi stanno da sé, e rappresentano il movente della colpa: la triplice distinzione dantesca d'incontinenza, bestialità (o violenza) e malizia (o frode) sta pure da sé, e riguarda non la colpa, ma il modo della colpa; e cosí un medesimo peccato capitale può, secondo il suo modo di manifestarsi (semplicemente passionale, violento, fraudolente), cader sotto ciascuna delle tre graduazioni.

A quante incongruenze si va incontro invece abbracciando il sistema preferito dal Dobelli! Sodomiti, usurai, ladri di strada, tutti fra i superbi, come se la lussuria e l'avarizia singolarmente in Dite, non ci entrassero per nulla; seduttori, non saputi dove collocare, quando è pur tanto chiaro che, se il modo ne è la frode, il movente ne è la lussuria; la pietra livida dei simoníaci presa per argomento che li si punisca l'invidia: e lascio minori abbagli, come dove dice, non menzionarsi da Dante il colore dei cerchi superiori a Dite, quando al c. VII 108 abbiamo le maligne pioggie grigie; o dove è fatto Pier delle Vigne, cosí come il dissipatore suicida, ludibrio insieme e delle vere cagne e delle Arpie.

Col Del Noce la bisogna sarebbe molto più lunga, trattandosi di ben 135 pagine. Mosso egli pure da ossequio per l'opinione di un altro illustre, il Del Lungo, egli vorrebbe che nello Stige sien tuffati insieme irosi e accidiosi, superbi e invidiosi. E alla obiezione fondamentale, che cosí Dante ci presenterebbe, contro a l'ordine costante d'Inferno procedente dai peccati più leggeri ai piú gravi, gli irosi prima degli accidiosi, i superbi prima degl' invidiosi, oppone a pag. 45 ragioni di ottica e di narrativa che non so quanto gli saranno menate buone. Né so quanto potrà persuadere il fare l'Argenti unico e solo rappresentante dei superbi; e la pena degli invidiosi farla consistere tutta nel dare addosso a quest'ultimi, pur riconoscendone la bassezza, che dovrebbe farli indegni d'invidia!

Ma, come si fa? l'argomento merita di essere piú diffusamente trattato; e dal mio canto non lascerò di tornarci sopra il più presto possibile; sempre sine ira et studio, e avendo presente di considerarci tutti semplicemente come tanti collaboratori nella ricerca della verità.

F. R.

COMUNICAZIONI ED APPUNTI

Il nostro collaboratore C. Carboni ci manda la seguente nota che di buon grado publichiamo: "A conferma della mia interpretazione attorno alla terzina

Ove udirai le disperate strida,
vedrai gli antichi spiriti, dolenti

che la seconda morte ciascun grida

ebbi già a dimostrare l'assurdità dell' esposizione che l'egregio dottor Truffi dava della stessa terzina; ed oggi, quasi a conclusione di quanto scrissi, mi piace per amore al vero, far noto ai lettori di questo Giornale che se nella spiegazione da me combattuta vi è pure un qualche merito, si deve per primato a Paolo Ferroni del quale in questi giorni mi è capitato fra mani il libro: La religione e la politica di Dante Alighieri ossia lo scopo ed i sensi della divina Commedia (Torino, Stamperia dell' Unione Tip.-Editrice, 1861). In esso, tra le diverse noticine che l'autore pone alle sue osservazioni delle quali non preme qui dire se siano buone o cattive, mi è occorso di trovare la seguente. 2

LL

"Dante usando nel suo poema vita e morte, morti e vivi, nel piú dei casi adopera queste "voci nel significato di fama o gloria, d'infamia o disonore; e d'infami o disonorati, di gloriosi o famosi. I lettori di Dante potranno osservare la convenienza di tale mio asserto, secondo "il quale mi piace qui dare la dichiarazione di due altri passi della divina Commedia. Il primo è al verso 117 del canto I, dell' Inferno:

"Che la seconda morte ciascun grida.

1 Giornale dantesco, Anno III, quaderno I.

2 Op. cit., a pagina 10ɔ, nota 4.

"Qui affermerei che Dante ha voluto dire che ciascuno dei dannati intesi da lui, è reso chiaro "dalla propria infamia, perché il nome che si acquistano costoro per mezzo del suo poema pro"viene dal farsi nota quella colpa per cui furono puniti da Dio. E il gridare sarebbe usato in "quel medesimo senso in cui Dante stesso l'usò al canto VIII del Purgatorio v. 125 dicendo:

"la fama che la vostra casa onora

grida i signori e grida la contrada "'

Quanto ivi dice il Ferroni concorda pienamenie con ciò che il Trufli ha sostenuto circa la seconda morte. Se non che il primo intende che i dannati gridano, fanno nota la loro infamia, e il secondo che i dannati gridano, danno bando della loro diannazione; ciò che in fondo in fondo, a bene riflettere, non è che un'istessa cosa.

Roma, 13 luglio 1895.

NOTIZIE

COSTANTINO CARBONI.

Sua Maestà la Regina ha ricevuto in udienza particolare il prof. comm. Guido Biagi e il conte Giuseppe Lando Passerini, che Le hanno presentato il primo fascicolo del loro Codice diplomatico dantesco.

L'augusta signora si è degnata di accogliere assai lietamente tale omaggio, e si è molto congratulata con gli autori per il loro lavoro ch' Essa ha giudicato di alta importanza nazionale. Durante la conversazione, che è durata circa mezz'ora, Sua Maestà ha pure avuto parole assai cortesi pel Giornale dantesco, del quale è assidua lettrice, e si è degnata di lodare l'opera del direttore e dell' Editore, i quali non risparmiano cure per questa loro publicazione.

X Della Collezione di opuscoli danteschi inediti o rari si è publicato il volumetto contenente un carteggio tra il senatore G. Finali e il prof. Fr. Tarducci sopra Cristoforo Colombo e il viaggio di Ulisse nel poema dantesco. Il volumetto precedente recava due studî di G. Del Noce su Lo Stige dantesco e i peccatori dell'Antilimbo.

X L'avvocato Carlo Del Balzo ha publicato (Napoli, stab. tip. Tocco) uno studio intorno a Francesca da Rimini nell'arte e nella critica.

X Nei Ren liconti dell'Istituto lombardo di scienze e lettere (Serie 2a, vol. XXVIII) è una nota su L'anno di nascita di Dante, di Michele Scherillo.

dantesco è il titolo di un 1895)

XI contrasti tra l'allegoria e la realtà nel canto V dell'" Inferno opuscolo recentemente publicato dal prof. E. Brambilla (Teramo, "Corriere abruzzese a saggio di un piú lungo lavoro sulle contradizioni letterarie e morali del canto di Francesca. X In graziosa veste tipografica che fa onore alla officina del Cucialli di Pistoia, il nostro bravo collaboratore dr. Peleo Bacci ha publicato una nota assai importante sopra il notajo pistoiese Vanni della Monna e il furto alla sacrestia de' belli arredi, ricordato da Dante nel XXIV dell' Inferno. L'elegante opuscolo è dedicato ad Isidoro Del Lungo nel giorno nuziale della figliuola Romilda.

Per le nozze Marpurgo-Franchetti l'illustre prof. Francesco Torraca ha fatto stampare quattro sue Noterelle dantesche sulla Pulzelletta, il pastor di Cosenza, l'ultima dolcezza della lodoletta e una contraddizione di Dante (Convivio, I, 5 e De vulg. eloquentia, I, 1).

Proprietà letteraria.

Città di Castello, Stab. tip. lit. S. Lapi, 31 di luglio 1895.

G. L. PASSERINI, direttore.

LEO S. OLSCHKI, editore-proprietario, responsabile.

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D

BALCOSE DELL'ORSO (SEC

opo tanto mutar di genti e d' opre,
il vecchio albergo, che dall' Orso ha nome,
d'un leggiadro balcone ancor s'adorna,
la cui pietra consunta immagin desta

di mille estrani petti, in dí remoti,
vinti d'amor per la città sovrana.

E forse di lassú, morendo il giorno,
l'anno del giubileo, mentre in due brune
liste, su per lo ponte, un inquïeto
popolo si mescea, Dante guardava

pensoso:2 l'onda fulva, ampia e veloce,

Per commemorare, in qualche modo, il giubileo di Roma capitale d'Italia, il Giornale dantesco accoglie volentieri, oltre allo scritto del De Leonardis, questi nobili versi che il professor Giovanni Franciosi, con pensiero gentile, gli invia. Siam lontani, e lontani assai, dalla poesia d'occasione, dalla Roma intangibile della cantata di G. Aurelio Costanzo: ma in questo canto c'è Roma e c'è Dante; e il pensiero luminoso dell'amore, seguito al fosco presentimento dell' esilio, ben si può riferire alla visione di un' Italia rinnovellata. (IL DIRETTORE)

2 Cfr. A. MONTI, Opere e P. DE NOLHAC, Montaigne.

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del Tebro, l'adriana altera mole,

il ciel fiammante vèr l'occaso; al vento,
lungo i ricurvi margini selvaggi,

mugliava il pino una canzon di pianto.
Nel guardo, che sapea degli estri il lampo.
l'ombre salían del presentito esiglio;

ma, come dalla nube esce repente
baglior di sole, da quell'ombre un lume
nuovo raggiò, che l'accigliata faccia
converse in volto di beato: intanto
tremolando apparía, di fronte al vate,
ne' chiaror del crepuscolo fuggente,
'lo bel pianeta ch' ad amar conforta,..

G. FRANCIOSI.

LA ROMA DI DANTE

Tanta molis erat Romanam condere gentem.

VERGILIO.

Vedi quanta virtú l'ha fatta degna
di riverenza....

DANTE.

Dante, più che fiorentino, si teneva romano di origine, e ne avea ben d'onde.

Il Machiavelli, di fatto, narra nel libro II delle sue Istorie fiorentine che, a' tempi delle guerre civili in Roma, "prima intra Mario e Silla, dipoi intra Cesare e Pompeo, e appresso intra gli ammazzatori di Cesare e quelli che volevano la sua morte vendicare furono mandate a Fiesole colonie, "delle quali o tutte o parte posero le abitazioni loro nel piano appresso alla già cominciata terra „, che fu la Villa

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