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perpetualemente Osanna sverna

con tre melode, che suonano in tree

ordini di letizia, onde s'interna.

Par., c. XXVIII, v. 115.

Dalla letizia dei canti angelici, il poeta passa a vedere tutta riunita nell'empireo la corte celeste davanti a Dio, e lí ci fa sentire un' Ave Maria cantata da tutto quell'immenso coro di felici spiriti:

E quell' amor che primo li discese,
cantando: Ave Maria, gratia plena,
dinanzi a lei le sue ali distese.

Rispose alla divina cantilena

da tutte parti la beata Corte,

sí che ogni vista sen fe' piú serena.

Par., c. XXXII, v. 94.

Ma quello che più ha inebriato della sua dolcezza ineffabile il poeta è il cantico degli spiriti trionfanti dell'ottavo cielo, col quale ormai voglio chiudere questa, forse, troppo lunga enumerazione:

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo,
cominciò, Gloria, tutto il paradiso,

sí che m'inebriava il dolce canto.
Ciò ch'io vedeva mi sembrava un riso
dell' universo; per che mia ebbrezza
entrava per l'udire e per lo viso.

O gioia o ineffabile allegrezza!

o vita intera d'amore e di pace!

o senza brama sicura ricchezza!

Par., c. XXVII, v. 1.

Qui il poeta non sapendo descrivere di che tempra fosse quella musica, si sfoga esprimendo la sua ammirazione ed il suo giubilo. Grandiosa quanto si può immaginare è l'idea di tutto il paradiso che canta un inno al suo creatore: il poeta è inebriato davanti a quello stupendo spettacolo; poiché da una parte la sua vista può appena comprendere l'immensità delle sfere, dall'altra il suo udito è tutto pieno della melodia celestiale; ciò che egli vede gli pare il riso dell'universo, ed egli, quasi ebbro e sopraffatto da tanta delizia, non può che esclamare: O gioia! ecc. Questo è il grido della profonda ammirazione che erompe dal labbro del poeta, e che ha potere di commuovere anche noi.

**

Il Paradiso adunque è pieno di una musica altamente idealizzata, anzi divinizzata ad un tal segno, oltre il quale pare non possa giungere l'umana immaginazione; nel Purgatorio la musica è più vicina a questa nostra umana, ma pur potentissima, come lo mostra il canto di Casella; e neppure l' Inferno è privo di una musicalità adattata agli orrori del cieco mondo. Dante, come ogni animo gentile, dovette amare sommamente la musica, dovette conoscer

ne per esperienza il diletto, dovette sentirne in sé stesso tutta la forza arcana, se tanti effetti ne ha potuto ritrarre nel suo poema. Laonde ben aveva ragione il Giordani quando, in un suo discorso, raccomandava agli studiosi di musica, e particolarmente ai compositori, di farsi affezionati e famigliari amici di Dante, per amore e profitto di arte si bella. "Egli fu ai musici assai benigno amico, e nella loro arte ben versato; della storia di essa arte fu benemerito, della musica lodatore insigne, e di essa riempi il suo poema per modo, da renderlo una fonte inesausta di inspirazione, aperta a chiunque vi voglia attingere.,

Milano, 9 febbraio 1895.

LUIGI PAPINI.

IL SECONDO CERCHIO DELL' "INFERNO,, DANTESCO

(A PROPOSITO DI UNA PUBBLICAZIONE RECENTE)

Lettera al prof. F. Pellegrini.

Carissimo Flaminio,

Fedele Romani pubblicò un breve scritto col titolo Il secondo cerchio del"Inferno, di Dante (Firenze, Paggi).

L'autore vuol inculcare questa teorica fondamentale: che la natura ha le sue leggi inesorabili, le quali impongono l'amore tra due esseri, a ciò da essa predestinati. Egli insiste su questo punto per tutto il corso del lavoro. A pag. 15 espone la filosofia, a cosí dire, di questo fatto: "La legge è quella forza istintiva, che ci spinge inesorabilmente ad amare quella persona, le cui doti corporali e spirituali, ma più specialmente le corporali (bella persona; piacere; cfr. Leopardi, Ult. canto di Saffo: alle sembianze il Padre Alle belle sembianze eterno segno Diè nelle genti, ecc.) siano il naturale complemento delle nostre, in modo che l'accordo delle une con le altre, venga a formare la più perfetta (relativamente agli individui, che le possiedono) incarnazione del tipo umano.

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Quando due si concedono l'uno all'altro, non chiamati dalla natura, commettono atto riprovevole; ma quando li chiama la natura, non si resiste, e il cedere è bello. (Pag. 12): "Quando la natura fa sentire veramente il suo grido fatale, il resistere è inutile; e perciò allora, ma solo allora, la debolezza della donna, convenientemente rappresentata, può riuscire veramente poetica; la sconfitta, in tal caso, è una necessità ineluttabile come la morte. (Pag. 42):

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"Noi siamo invasi istintivamente da un sentimento di viva sodisfazione, ogni volta che possiamo constatare il trionfo della legge di natura, di quella legge misteriosa, che provvede alla conservazione della specie, e dei più spiccati, e quindi più belli, suoi caratteri. „

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"

Contro alla legge di natura si leva la legge umana e divina, che l'autore chiama anche semplicemente: legge sociale, " con un'unica (dice, pag. 41) e piú moderna denominazione. Questa legge sociale ha la sua ragione di essere; è una necessità; e noi vogliamo (pag. 42) "sentire la sua esistenza e la sua forza, per esser sicuri di poterla vedere inesorabilmente applicata tutte le volte, che una volgare passione volesse ricoverarsi sotto l'egida della legge naturale. n

Questa è la teoria.

Venendo a Dante, e all' episodio di Francesca, l'autore crede di scoprire nel Poeta un'intima contraddizione. Come uomo del tempo suo condanna quell'amore, e i colpevoli mette all'inferno: come Genio li assolve, li crede amabili: che dico? Celebra il trionfo della legge di natura. (Pag. 29): "Dante, nel bel principio del suo poema, si mette già in manifesta contraddizione con sé stesso. Egli vorrebbe farci inorridire della colpa, e invece ci riempie l'anima di pietà. Questa lotta che si svolge nello spirito del Poeta, tanto intimamente da sfuggire alla percezione di lui stesso, è la lotta inconscia del Genio, che è universale, con l'uomo in quanto è necessariamente congiunto con un dato tempo e con un dato luogo, cioè con tutto ciò che è transitorio e accidentale. Né solo in questo caso, ma sempre, secondo l'autore, Dante cede alla realtà. La materia vince lo spirito. (Leggi a pag. 30).

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Per questo Dante scusa Paolo, e la scusa pone in bocca a Francesca (pag. 10 e segg.): ed è la bella scusa dell' amore: Amore, che ratto s'apprende a cor gentile, prese costui della bella persona che mi fu tolta. Amore e Bellezza, a cui non si può far resistenza. Francesca scusa poi sé stessa: Amor che a nullo amato amar perdona. L'autore (pag. 15) dice, che questa sentenza non è vera, ma "Francesca, per non parer colpevole, con quella sentenza rende universale ciò che è particolare; e questa è arte finissima di difesa. Anzi non è arte: "Il discorso di Francesca è sí una sottile difesa, ma piena di sincerità., Si è sentita trascinata, e ha ceduto a quella legge. Pag. 18, 19; col verso:

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Caina attende chi vita ci spense,

Dante punisce chi, secondo la legge umana, ha difeso il suo diritto, e non si può dire che abbia commesso tradimento: lo punisce in nome della legge di natura; ché davanti a questa il colpevole è lui. Dante non infligge pena ai due amanti. (Pag. 35): "Se non temessi (dice l'autore) di parere troppo ardito, direi che non c'è più nemmeno l'inferno, intorno agli amanti che parlano al poeta. Lo stesso andare insieme di Paolo e Francesca, che (pag. 35) “senza alcun dubbio, secondo il primo pensiero di Dante, avrebbe dovuto rappresentare un accrescimento di pena,, come lo è per Diomede ed Ulisse, per i due

"

amanti, di cui parla il Passavanti (Specchio, dist. III, cap. II), lo stesso andare insieme (pag. 37) "diventa, anche nell'inferno, un conforto. " Con questa trasformazione dello stesso tormento in un motivo di sollievo, la legge d'amore qui corona il suo glorioso trionfo.,

C'è di piú. Nel caso di Paolo e Francesca (pag. 38)" questa legge non si afferma solo sulla terra, ma anche nell'inferno, per modo che il trionfo viene a esser doppio.

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Tuttavia il Romani (pag. 41) confessa che c'è il mal perverso, la miseria, i martiri. "Sono più nelle parole, che nel fatto; ma, a ogni modo, le parole restano, e non possono non avere una qualche efficacia sull'animo di chi le pronuncia. E resta anche nell'autore fondo della scena lo sguardo corrucciato del Re dell' Universo. " Se non che dice, che qui altro non è da vedere che l'affermazione della legge sociale, legge che ha la sua necessità, ma che non tocca né gli amanti, né Dante, né Virgilio (pag. 43). "Essa si afferma in qualche cosa che è fuori della coscienza dei personaggi, i quali agiscono nell'episodio, essa si afferma nel giudizio degli uomini, il quale ci è manifestato con la morte dei due cognati, essa è, come abbiamo già visto, nel ma! perverso, nei martiri, nella miseria ossia nel giudizio imperscrutabile del Re dell'Universo, il cui occhio guarda corrucciato dal fondo della scena. "

La pietà di Dante per i due amanti è pel Romani (pag. 48) l'effetto "d'una inconscia altissima ispirazione. „

Rispondo all'autore. È arbitrario il voler trovare Dante in contraddizione seco stesso, o peggio volergli far cantare puramente e semplicemente il trionfo della legge di natura, intesa nel senso che s'è veduto. E troppo manifesto il sentimento di Dante rigorosamente morale e profondamente cristiano, perché si possa credere, che abbia potuto comunque legittimare l'adulterio e l' incesto.

Dante mette Francesca e Paolo in luogo di dannazione. Checché dica l'autore i martiri non sono loro risparmiati. L'autore ha vista la difficoltà: l'ha confessata. Né, a vero dire, ha risposto adeguatamente. Essi sono martoriati dalla bufera infernale, che mai non resta. E anche il loro stare insieme non è alleviamento di pena. Compagni nella colpa, compagni sono nella punizione. Nei versi: che, come vedi, ancor non m'abbandona, e: Questi, che mai da me non fia diviso, è espresso il loro congiungimento eterno, ma questo è eterno dolore. Nel che io consento perfettamente con G. L. Patuzzi, che assai bene sostiene questa tesi in un articoletto da lui inserito nel Fanfulla della Domenica dell'11 marzo 1888, col titolo: A proposito di due dannati di Dante, articoletto scritto in risposta alla domanda, che, nel numero precedente dello stesso periodico, aveva fatta E. Del Cerro: Perché Dante ha congiunto nella scena i due spiriti che si amarono nel mondo? Questione, alla quale, secondo il Del Cerro, non s'è mai data risposta soddisfacente.

Se fosse giusta la spiegazione che l'autore dà, come s'è visto, dell'affermarsi della legge sociale in modo indipendente da ciò che concerne gli individui dell'episodio, cesserebbe d'esservi quella contraddizione di assoluzione e condanna insieme, che vuolsi addebitare al Poeta.

Nel mio scritto: Che cosa è dannazione secondo il concetto dantesco' ho notato (pag. 10 dell'estr.) che non è da credere che "la soavità delle parole di Paolo e Francesca sia per loro un rinnovato piacere. No. Quei dolci ricordi sono per loro tanto veleno; non sono un sollievo, ma una pena maggiore. Dante ebbe cura di farcelo notare colle parole, che mette in bocca. a Francesca, v. 121:

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Il piacere, che prova Francesca della dannazione eterna dell' uccisore, è piacere d'anima reproba., Questo notai nel detto mio scritto (pag. 11): “ Ed è conveniente ad anime dannate quella voluttà di vendetta, che scoppia in quel verso (107) :

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Circa alla pietà di Dante, ne ragionai a lungo nel citato mio scritto. Essa dipende, qui e altrove, dalla bontà del suo animo ingenuo, che, facendo astrazione dal merito, s'intenerisce davanti a (pag. 2) "un raggio d'amore,, che si faccia scorgere "in mezzo alle tenebre del disordine davanti a qualche pregio avuto nel mondo, a una subíta ingiustizia, ecc. Del resto, questa pietà di Dante non significa mai una scusa della colpa, e va scemando (pag. 60) quanto piú Dante "s'avanza verso il fondo d'inferno,, quanto più intende "quella che si potrebbe chiamare giustizia della crudeltà. E questo, in parte, perché trova anime sempre piú ree; in parte, e piú, perché, ammonito da Virgilio, s'è meglio persuaso seco stesso di quella verità, che da principio pareva troppo dura al suo animo buono, e per natura tenerissimo.,

Posto questo, che Dante cioè ritenne colpevoli i due amanti, e meritevoli di dannazione, bisogna però confessare, che li ritenne anche degni d'un'immensa compassione nel senso che ora s'è detto, cioè, astrazione fatta dalla colpa, e in obbedienza all'istinto d'anima ingenua, che di tristizia tutta si confuse (Inf., VI, 3). Contro di loro il Poeta non inveisce: li presenta, per quanto è possibile, sotto una luce simpatica. Nel mio scritto ho detto anche questo. (Pag. 10): "Veramente il Poeta fu con Paolo e Francesca animal grazioso e benigno, come essi lo chiamano (v. 88). Essi sono uniti in vincolo d'amore, l'amor che i mena (v. 78), pel quale amore pregati, essi vengono tosto a Dante. E il modo con cui vengono, è espresso con una similitudine che, a differenza delle solite, usate da Dante, per i dannati, non invilisce, ma nobilita, (v. 82): Quali colombe, ecc. n

1 Giornale stor. della lett. ital., vol. XXIII, pag. 329.

Giornale dantesco, vol. III.

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