Sayfadaki görseller
PDF
ePub
[graphic][subsumed][merged small][merged small]

Siamo al 1301; io morii al 1280; sono, dunque, 21 anno, da che sto qui a penare, cosí come mi vedi, cioè capovolto: verace immagine della mia vita scandalosa o simoniaca. Dopo di me, verrà Bonifacio VIII, usurpatore del trono di Celestino V, e, come tale, intruso nell' apostolico seggio. Ma egli sarà meno tormentato di me, o, almeno, per un periodo men lungo di tempo, dappoiché, dopo il breve ponteficato di Benedetto XI, succederà Clemente V, il guascone; e questi, toccato il 1314, non sarà piú. Tra le due morti, di Bonifacio e di Clemente, correranno adunque non più che 11 anni. Sicché, Bonifacio avrà 9 anni di meno da soffrire. E Clemente V, il famoso Bertrando de Gotte, arcivescovo di Bordeaux, che, per ubbidire a' cenni di Filippo il Bello re di Francia, trasferirà la sede ponteficia da Roma in Avignone, verrà a ricoprire "lui e me : cosí pagherà il fio d'essersi fatto eleggere "senza legge ch'è quanto dire illegittimamente. Nuovo Giason sarà, di cui si legge

[ocr errors]

ne' Maccabei e come a quel fu molle
suo re, cosí fia a lui chi Francia regge.
(Ivi, 85-87).

Clemente V sarà pe' cristiani quel che Jasone fu per gli ebrei, fatto sommo pontefice, a danno di suo fratello Onia, per favore di Antioco re di Siria e già padrone di Gerusalemme (siccome si legge nel libro de' Maccabei II, 4). Ed, a quella guisa come Jasone fu "molle o arrendevole verso Antioco, suo protettore; cosí pure avverrà di Cle

[merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small]

mente verso Filippo il Bello re di Francia, il quale, oltre ad imporgli la traslazione della Sede apostolica sul Rodano, gli ordinerà pure tante altre cose, come di assolverlo del misfatto contro Bonifacio, condannare la memoria di questo, rimettere nel sacro collegio due Colonnesi, far altri cardinali da lui proposti, concedergli le decime del clero di Francia per cinque anni, e, da ultimo, la espoliazione e l'annullamento dell'ordine, ricchissimo, de' Templari: persecuzione quanto acerrima, altrettanto ingiusta, che durerà fino al 1307; ed a Giacomo Molay, capo dell'ordine, si faranno soffrire acerbi tormenti. E Clemente, ridotto in servitú dal sire della Senna, converrà che pieghi la fronte ed esegua. Qui Dante, infiammato di santo zelo, si scaglia contro le prevari. cazioni o le simoníe di Roma papale, invettiva che tutti sanno a memoria, e che noi perciò tralasciamo, anco perché lo stesso poeta teme che, nel farla, sia stato " troppo folle, (ivi, 88), o per essersi messo al di sopra della cattolica Sion, sgridandola, o per essersi accorto che le sue rampogne erano inutili, giacché la curia non recedeva un passo dalle vie di sua perdizione eterna. E, senza più che tanto, vengo subito alla chiusa di questo canto, divinamente ispirato:

E, mentre io gli cantava cotai note,
o ira, o coscienza, che 'l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.
(Ivi, 118-120).

E, mentre io gli ricordava sentenze scritturali, desunte quali dal Vangelo, quali dall'Apocalisse; e sinceramente, nella mia doppia qualità di cittadino e di credente, deplorava il fato comune dell'Impero e della Chiesa; l'anima rea di Niccolò III, sia che l'ira lo infiammasse, sia che la coscienza lo rimordesse, nel sentirsi cosí rimproverato da me, laico, più fortemente ancora, o con maggior violenza, spingeva ambo i piedi fuor della buca.

Io credo ben, ch' al mio Duca piacesse;
con sí contenta labbia sempre attese
lo suon delle parole vere espresse.
(Ivi, 121-123).

Ma, se papa Orsini sgambettava furiosamente, son di credere che le mie parole acerbe sí, ma veraci, piacessero a Virgilio, mio duca e mio maestro; e ciò posso argomentare dall'attenzione, dirci quasi religiosa, con la quale egli accoglieva le mie parole, e dalla interna compiacenza o massima soddisfazione, che provava nell'ascoltarmi.

Però con ambo le braccia mi prese,
e, poi che tutto su mi s'ebbe al petto,
rimontò per la via, onde discese.

(Ivi, 124-126).

Sicché mi stese ambedue le braccia, mi strinse amorosamente al petto, e, sollevandomi di peso, mi ripose per la via, scabra ed erta, da cui eravamo discesi.

Ed, ora che la parte descrittiva, ovvero estetica, è finita, è tempo di farci una doppia interrogazione, severa ed onesta: Dante, con questa poetica dipintura, avrebbe forse mirato, per dare uno sfogo all' animo suo, di fare simultaneamente la satira a sette papi, tra vivi e morti, còlti insieme? O O quale, sotto l'aspetto storico morale, sarebbe il concetto che ci dobbiamo formare del papato, a' tempi di Dante in ispecie, e nel periodo anteriore, in genere? Io non mi dissimulo le difficoltà, né le sfuggo; ma lor vado d'incontro coraggiosamente, anzi le provoco, perché, senza preoccupazione di sorta, amo agitarle e risolverle, definirle. A noi dunque.

Nel toccare de' papi contemporanei a Dante, altra autorità non invoco che quella di Cesare Balbo, perché storico d'alto valore, né punto sospetto, nella Vita di Dante.

Uno di questi papi, anzi il primo, fu quel papa Orsini, di cui si è largamente parlato or ora, che regnò "durante l'adolescenza guelfa di Dante, dal 1277 al 1288, (ivi, pag. 222). Il Balbo dice che Niccolò III fu da Dante "severissimamente giudicato, (ivi), quando ei non era piú guelfo, ma ghibellino, come se il poeta scrivesse per odio o per rancore contro un papa, ch'ei neppure conobbe o di cui neppure avrebbe potuto ricordarsi, perché " adolescente Il Balbo me

desimo però sentenzia:

"Era di casa Orsini, una delle più potenti in Roma e all'intorno; e favorí i parenti in tal modo, che potrebbesi dire l'invenzione di quel vizio del nipotismo, che durò piú secoli, e fu santamente abolito ai di nostri da tal papa che egli pure parrà grande ai di venturi,. (Ivi).

[ocr errors]

Ove sta, dunque, la "severità di Dante nel giudicarne? Parmi che lo storico sia anche più severo del poeta; e, come se ciò fosse poco, aggiunge:

1 Firenze, Le Monnier, 1853.

"E per quel vizio del nipotismo è posto in inferno tra i simoniaci: un genere di peccatori particolarmente odiato e vituperato in que' secoli, dopo l'immortal guerra lor mossa da Gregorio VII, (ivi).

E, se dunque il peccato della simonía, e con esso il vizio del nipotismo, era stato già fulminato di anatema da quel gigante de' papi che fu Ildebrando, il divino poeta non faceva che rendersi interprete della pubblica opinione e de' decreti sinodali. Acerbi, senza dubbio, sono i rimproveri che Dante fa a Niccolò III, sí che insieme ne restano vituperati altri tre, simoníaci del pari.

"Ma (ripiglia il Balbo) notisi, come fin di qua, alla prima occasione in che Dante morde i papi, ei s'affretti a protestare della sua riverenza alla lor sede, (ivi, pag. 223).

Nell' animo di Dante, adunque, non era livore, ma fede, e fede schietta, come lo stesso Balbo riconosce ed afferma.

Morto Niccolò III, il simoniaco, "regnarono in dodici anni tre papi„ (ivi, pag. 224); e Dante non parla che di Celestino V: "Che fece per viltate il gran rifiuto, (Inf., III, 60). Ove sta, quindi, l'odio di Dante contro il Papato?

"E (continua il Balbo) rimasta due anni vacante la Sede per la difficoltà dell'elezione, fu eletto, a marzo 1294, a malgrado suo, un umile e santo eremita, che prese il nome di Celestino V. Il quale, provatosi a regnare, e non sapendo parteggiare (ch' era tutt'uno allora), fra pochi mesi rinunciò; sforzatovi più o meno da colui che immediatamente gli succedette, e poi lo trasse in prigione, e vel lasciò morire: papa Bonifacio VIII, (ivi, pag. 224-225).

[ocr errors]
[ocr errors]
[ocr errors]
[ocr errors]

Il Balbo, appoggiandosi al Rainaldo (Ann. eccl., I, IV, pag. 156 e seg.) ed al Petrarca (De vita solit., lib. II, sect. III, c. 18) dichiara "fuor di dubbio esser quella "l'ombra. di san Celestino. E, se dunque era santo, perché Dante lo gittava nell' Antinferno fra "l'anime triste di coloro, che visser senza infamia e senza lodo? Allora non era ancora canonizzato; e quindi l'Alighieri non era tenuto a riconoscerlo come tale. Sia pure; ma papa Celestino V era morto in concetto di santità. E Dante sperava, appunto dalla santità di lui, una grande opera: cioè, la rinunzia o l'abdicazione, non già della sede apostolica o del potere spirituale, ma della teocrazia. Bisognava, quindi, che deponesse la spada, non il pastorale; la corona di re, non la tiara; lo scettro d'oro, non la croce. Bisognava ch'ei dicesse, spectante mundo: L'opera di Carlo Magno fu la suggestione di Satana; io, perciò, me ne spoglio, e torno, sul grande esempio di Cristo, ad essere il pastore delle anime. Il sistema teocratico o divino,

tore e seguace.

che costò tante lagrime e tanto sangue all'Impero ed alla Chiesa, è il redivivo sistema giudaico o fariseo; io, perciò, ex catedra, lo condanno come peccaminoso, e dichiaro empio chiunque se ne faccia fauNon piú Guelfi o Ghibellini, ma fratelli; ed io, nel nome di Gesú, sono il padre di tutti in terra. Ma ecco il coraggio apostolico, che papa Celestino V non ebbe; e di qui “la viltà di cui Dante l'accusava, ed a ragione. Per tal modo, il papa, accogliendo e benedicendo l'imperatore in Roma, avrebbe adempiuto al grande ideale del poeta, e Roma sarebbe tornata ad essere il centro della unità del mondo. E, sotto questo aspetto considerato, chi potrebbe condannare Dante? Il Balbo, il quale suppose ch' ei fosse tanto adirato contro Celestino V, perché questi col suo "rifiuto, avea posto in soglio il suo maggior nemico, (ivi, pag. 225), mostra di non aver bene inteso la mente di quel divino; e, quindi, attaccato alla esteriorità de' fatti, non seppe elevarsi con quell' anima grande e leggervi i piú alti fini e reconditi.

66

Cosí, con arti subdole o simoniache, giunse anch'egli al papato, Bonifacio VIII; e 'l ritratto, che 'l Muratori ne fa (negli Annali, sotto la data 1303, t. VIII, p. 12) "con la sua solita imparzialità, ma con forza insolita (scrive il Balbo), è questo:

"

"Nella grandezza dell'animo, nella magnificenza, nella facondia ed accortezza, nel promuovere gli uomini degni alle cariche, e nella perizia delle leggi e de' canoni, ebbe pochi pari; ma perché mancante di quell'umiltà che sta bene a tutti, e massimamente a chi esercita le veci di Cristo, maestro d'ogni virtú e sopratutto di questa, e perché pieno d'albagía e di fasto, fu amato da pochi, odiato da moltissimi, temuto da tutti. Non lasciò indietro diligenza alcuna per ingrandire ed arricchire i suoi parenti, per accumular tesori anche per vie poco lodevoli. Fu uomo pieno d'idee mondane, nemico implacabile de' Ghibellini per quanto poté; ed essi, in ricompensa, ne dissero quanto male mai seppero; e il cacciarono ne' più profondi burroni dell'inferno, come si vede nel poema di Dante. Benvenuto da Imola parte il lodò, parte il biasimò, conchiudendo infine ch'egli era un magnanimo peccatore. E divulgarono aver papa Celestino V detto, ch'egli entrerebbe nel ponteficato qual volpe, regnerebbe qual lione, morrebbe come cane

Che avrebbe detto il Balbo, se avesse potuto leggere i documenti vaticani, che, oggi soltanto, vengono alla luce del mondo? Avrebbe, di gran lunga, modificato la sua opinione, ed aggiustato maggior fede a Dante, che, se tanto inveiva contro "lo Principe de' nuovi Farisei (Inf., XXVII, 85), ne avea ben d'onde. Ma non isfugga un particolare che tanta luce spande su le opere e su la vita di Dante: allorché, addí 7 di settembre 1303, avvenne la tremenda catasfrofe di Anagni

« ÖncekiDevam »