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144.

Ingerenza del confessore nel testamento.

Tizio manifesta a Cajo sacerdote in confessione che ha disposto per testamento di tutte le sue sostanze a favore di un fratello a sè affettuoso, trascurando un altro fratello, dal quale ha ricevuto dei dispiaceri. Cajo confessore lo rimprovera di que st'avversione e di questa vendetta che vuol fare del secondo fratello, e gl'impone a rifare il testamento ed a disporre che la sua proprietà sia divisa ad ambedue i fratelli predetti. Si chiede: 1.o Che dire della condotta del confessore Cajo?

Ai fratelli, per obbligo di giustizia, non compete nessuna parte legittima: onde il testatore è libero a disporre delle sue sostanze come a lui meglio piace. Per obbligo di carità, sarebbe tenuto a considerare i soli fratelli poveri nel caso che siano bisognosi di soccorso. Il confessore perciò solo in quest'ultimo caso può e deve obbligare il penitente a disporre a favore di fratelli, benchè ingrati. Nel caso nostro dunque, se non si tratta di fratello povero, non poteva il confessore obbligare Tizio a rifare il testamento, giacchè questi usus erat jure suo. Dovea questi solo perdonare al suo fratello.

145.

Restituzione da imporsi ad un figlio di famiglia.

Simplicio, ragazzo a dodici anni, rubò ad una famiglia del vi cinato cinque lire, che consumò in baldorie. Non ha come restituire, se non per mezzo del padre. Si chiede: Il confessore deve obbligare il fanciullo a manifestare al padre il furto perchè restituisca ?

Il confessore deve esortare il fanciullo a rivelare al

padre il furto: quanto ad obbligarlo, non può; giacchè nemo tenetur prodere seipsum. Debitore è il figlio, non già il padre: al figlio deve imporsi l'obbligo di restituire quanto prima gli sarà dato.

146.

Se, in forza della concessione fatta ai Vescovi di dispensare in periculo mortis dagl'impedimenti dirimenti nei matrimonii de' concubinarii, si possa dispensare da quello di clandestinità.

Tarquinio parroco, chiamato presso il letto di morte di un forestiere, civilmente unito con una donna parimenti forestiera, capitati amendue nella sua parrocchia, è richiesto di congiungerli in matrimonio cristiano. Avvalendosi delle facoltà apostoliche comunicategli dal Vescovo, e non avendo tempo di consigliarsi coll'Ordinario, li dispensa dall'impedimento di clandestinità e, benchè non parroco proprio, li unisce in matrimonio. Un'altra volta, recatosi in luogo solitario presso un moribondo suo filiano, il quale era assistito non da altri che da una concubina, e pregato di unirli in matrimonio, benchè senza testimoni, dispensa ancora qui dall'impedimento di clandestinità. e celebra il loro connubio. Si chiede: 1o Può il Vescovo, ovvero il parroco, dispensare dall'impedimento di clandestinità in pericolo di morte, in forza del decreto del S. Officio del 20 febbraio 1888? (V. Mon. Eccl. Vol. V, Par. II, pag. 35). 2o Che è da dire della condotta del parroco Tarquinio?

16

Il cit. decreto del S. Officio attribuisce agli Ordinarii la facoltà, qua dispensare valeant sive per se, sive per ecclesiasticam personam sibi benevisam, aegrotos in gravissimo mortis periculo constitutos, quando non suppetit tempus recurrendi ad S. Sedem, super impedimentis

quantumvis publicis matrimonium iure ecclesiastico dirimentibus, excepto sacro presbyteratus ordine, et affinitate lineae rectae ex copula licita proveniente ».

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La S. Sede adunque, in forza di questo decreto, permette ai Vescovi di dispensare in pericolo di morte da tutti gl'impedimenti dirimenti di diritto ecclesiastico benchè pubblici, esclusi solamente l'ordine del presbiterato e l'affinità in linea retta ex copula licita. In questa concessione perciò non va escluso l'impedimento di clandestinità ch'è di diritto ecclesiastico.

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E la inclusione di tale impedimento è secondo lo scopo del medesimo decreto, il quale fu dato ut morituri in tanta temporis angustia in faciem Ecclesiae rite copulari, et propriae conscientiae consulere valeant Se venisse escluso dalla concessione l'impedimento di clandestinità, i moribondi che ne sarebbero legati non potrebbero regolarizzare la loro unione col sacramento della Chiesa, nè provvedere ai bisogni della propria coscienza.

Taluno potrà dire che la presenza del proprio parroco e dei due testi è la forma sostanziale del matrimonio, da cui non si può prescindere. Ma si consideri che tal forma fu indotta dal Tridentino (Sess. 24 cap. 1 de ref. matr.) quando venne sancito l'impedimento di clandestinità. Prima del Tridentino tal forma non avea luogo, come non ha luogo dove il Tridentino non è pubblicato, Se adunque si può togliere colla dispensa l'impedimento di clandestinità, può dispensarsi ancora sulla forma sostanziale del matrimonio.

Finchè perciò la S. Sede non dichiari diversamente, in forza del cit. decreto del S. Officio, può benissimo dispensarsi in pericolo di morte anche dall'impedimento di clandestinità, sempre quando non ci sia tempo o di avere il proprio parroco ed i testi, ovvero di munirsi di facoltà superiori. I matrimonii poi così celebrati,

quand'anche risanino gl'infermi, dovranno sempre considerarsi come validamente celebrati.

Queste cose noi scrivemmo prima che il S. Officio avesse autorevolmente decisa la quistione. E la decisione venne e conferma pienamente quanto abbiamo dimostrato. Fu chiesto infatti alla S. C. Utrum in citatis decretis (S. R. et U. Inquis. 20 febr. 1888 et 1 mar. 1889) vere comprehendatur etiam facultas dispensandi ab impedimento clandestinitatis, adeo ut ex. gr. parochus ab Episcopo habitualiter delegatus, possit in sua paroecia vel coniungere non suos, sed extraneos inibi casu existentes, dispensando a praesentia parochi proprii, ad quem nullimode valeat haberi recursus; vel etiam coniungere suos, sed sine testibus, pariter dispensando ab eorum praesentia, cum omnino non sint qui testium munere fungi possint. E la Suprema S. C. in fer. IV 13 dicembre 1899, rescrisse: Affirmative (Mon. Eccl. Vol. XI, p. 481). — Non v'ha dubbio alcuno perciò che il parroco possa in pericolo di morte dispensare anche dall'impedimento di clandestinità, ed unire in tal caso in matrimonio anche senza la forma sostanziale prescritta dal Tridentino.

147.

Se colla seconda messa di binazione si può soddisfare ad obblighi di carità

Nella chesa B. è stata eretta una pia Associazione, di cui fanno parte sacerdoti e laici, col solo obbligo di celebrare o far celebrare una messa dopo la morte di ciascun associato. Ora si brama sapere se i sacerdoti, autorizzati a binare la S. Messa, possano soddisfare a quest'obbligo per sè e per gli altri associati ancora, applicando gratis la seconda Messa.

La seconda messa, coloro che hanno la facoltà di binare, non possono applicarla per nessun obbligo di giustizia retribuito. Possono però applicarla per obblighi di carità senza stipendio. Così la S. C. il dì 5 marzo 1887 in Vivarien., al dubbio: An sacerdos qui, ex statutis sodalidatis, cui nomen dedit, tenetur missam celebrare pro sodali defuncto, possit, ad satisfaciendum huic oneri secundam missam in subsequenti festo, ex binatione celebrandam, applicare in casu » rispose: - Affirmative (Mon. Eccl. Vol. V, Par. I, pag. 27). Così pure la stessa S. C. il dì 14 sett. 1878 in Nanceyen. – Tullien. et Nemausen. (Mon. Eccl. Vol. I, pag. 553). Nel caso adunque della Chiesa di B. i sacerdoti binanti possono benissimo applicare la seconda messa per soddisfare l'obbligo dell'Associazione.

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148.

Se la questua del purgatorio può andare in beneficio del predicatore quaresimalista.

Lucio parroco ha dato del proprio l'onorario al predicatore. Può indennizzarsene applicando a sè parte di quanto si raccoglie dalla questua del purgatorio, solita farsi nella 4. Dom. di Quaresima ?

Può, se è consuetudine, risaputa dal popolo (com'è in moltissimi luoghi), che quanto si raccoglie (o tutto o in parte) dalla detta questua va in beneficio del predicatore. Altrimenti non può; giacchè le elemosine dei fedeli devono applicarsi al solo scopo inteso dagli oblatori.

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