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cuno dei singoli paesi componenti la Diocesi, ai 19 settembre vien segnato pei parrochi l'obbligo di celebrare pro populo. Si domanda: Esiste un tale obbligo per tutte le Diocesi dell'ex-reame di Napoli ?

Dicemmo altrove (v. Quest. 4) che Pio IX di santa memoria nella Encicl. Amantissimi del 3 maggio 1858 prescrisse ai curati di celebrare la messa pro populo in tutte le feste commemorate da Urbano VIII nella Costit. Universa per orbem del 13 settembre 1642, quand'anco alcune di quelle posteriormente fossero state abolite quanto al doppio precetto. Ora in detta Costituz., fra le altre feste, si fa commemorazione anche di quelle « unius ex principalioribus in quocumque regno, sive provincia, et alterius pariter principalioris in quacumque civitate, oppido, vel pago, ubi hos patronos haberi et venerari contigerit. Dunque la festa di S. Gennaro, essendo questi il principale patrono di tutto l'antico regno delle Due Sicilie, era prima di doppio precetto in tutte le Diocesi del Napoletano.

Venne poi la Costit. di Pio VII Paternae charitati del di 10 aprile 1818, la quale aboli per le provincie Napoletane il doppio precetto nella festa di S. Gennaro e lo riserbò solo per la città di Napoli: Pro urbe vero Neapolis retineantur festa S. Ianuarii et S. Antonii de Padua, ac pro urbe Panormi festum S. Rosaliae ».

CL

Donde si raccoglie che il di 19 settembre, festa del glorioso S. Gennaro, patrono principale delle provincie Napoletane, tutti i curati di queste provincie hanno l'obbligo di celebrare la messa pro populo.

27.

Se la Messa pro populo possa applicarsi

ai defunti.

La Messa de' parroci pro populo comprende solo i viventi, o si estende anche ai morti?

Benedetto XIV nella Cost. Cum semper oblatas; Pio IX nella Encicl. Amantissimi, e tutti gli altri che parlano dell'obbligo della messa pro populo, si rapportano al Tridentino, il quale definisce quest'obbligo, dichiarandone la natura.

Il Tridentino adunque, Sess. 23 cap. 1, così dice: - Cum praecepto divino mandatum sit omnibus quibus animarum cura commissa est, oves suas agnoscere, pro his sacrificium offerre etc.— Il precetto divino l'abbiamo nei luoghi stessi citati dal Concilio, cioè nell'Ev. di S. Giov. 21, 15, e negli Atti Ap. 20, 28. Nel primo sta detto: Cum ergo prandissent, dicit Simoni Petro Iesus: Simon Ioannis, diligis me plus his? Dicit ei: Etiam Domine, tu scis quia amo te. Dicit ei: Pasce agnos meos ». Nel secondo si legge: Attendite vobis et universo gregi, in quo vos Spiritus sanctus posuit episcopos regere ecclesiam Dei ».

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Da tutto ciò vuolsi raccogliere che l'obbligo ne' curati di applicare pro populo è quello stesso che hanno di pregare, il che fa parte della sollecitudine e del pascolo spirituale che debbono ai fedeli commessi alla loro cura. Pare adunque che siano in obbligo di applicare solo per quelli, cui debbono questo pascolo di salute, cioè per coloro che sono sotto la propria giurisdizione. I morti nè possono essere più guidati dai parroci, nè sottostanno alla giurisdizione di essi.

Pei morti il Rituale vuol che si celebri la Messa prima della tumulazione: Quod antiquissimi est insti

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tuti, illud, quantum fieri poterit, retineatur, ut missa praesente corpore defuncti, pro eo celebretur antequam sepulturae tradatur. Missa... praesente corpore non omittatur E con ciò si provvede al suffragio delle anime de' fedeli defunti. Questa messa è chiamato il parroco a celebrarla. Ma è tenuto a celebrarla gratis pei poveri? Non v'ha nessuna legge generale che a ciò l'obblighi, essendo la sola messa pro populo imposta ai parroci dai canoni. Abbiamo detto nessuna legge generale, potendo esservi o statuto sinodale, o mandato del Vescovo, ovvero consuetudine speciale che a ciò li obblighi (V. De Herdt S. Lit. Prax. Vol. III, n. 236).

I curati adunque nella messa pro populo non possono, secondo noi pensiamo, esplicitamente applicarne il frutto medio anche ai fedeli defunti, essendo chiamati con altre messe a suffragare le anime di costoro. Del resto, non è necessario, anzi non conviene, specificare l'applicazione della messa pro populo, bastando applicarla per tutto e solo quel fine che la Chiesa intende.

28.

Circa la potestà che hanno i sacerdoti
di benedir le persone.

Ciriaco sacerdote a tutte le persone che gli domandano la benedizione, sì per le vie, sì nelle case, e si nelle chiese, la impartisce ben volentieri. È lecito ciò ad un semplice sacerdote?

È proprio del sacerdote il benedire: a lui conferisce il Vescovo nella sacra ordinazione tal facoltà colle parole: Ut quaecumque benedixeris benedicantur ». Però non tutto può egli benedire, essendo riservate al Vescovo talune benedizioni.

Può intanto benedire le persone?

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La benedizione ad ogni classe di persone, si per le vie, sì nelle case, e sì nelle chiese, è propria del Vescovo. Quando episcopus, dice il Cerimoniale de' VV. (Par. I, Cap. IV n. 1), ambulat vel equitat per suam civitatem vel dioecesim, manu aperta, singulis benedicit ». E ciò è così vero, che lo stesso Vescovo non può benedire in luoghi di altre Diocesi; e l'Abbate e qualsivoglia prelato inferiore, tuttochè con giurisdizione, senza speciale facoltà della S. Sede, non possono benedire nemmeno i loro sudditi, come la S. C. de' Riti defini con decreto generale del 27 settembre 1659 ad 13, n. 1131.

Se cio è vietato a' prelati, molto più è vietato ai semplici sacerdoti. Non mai dunque questi possono be

nedire i fedeli?

Possono certamente benedire, giusta il De Herdt (Prax. Pontif. I, cap. 4, n. 35):

a) in fine della messa, secondo la rubrica del Messale;

b) gl'infermi che visitano, giusta la forma del Rituale;

c) coloro che da essi ricevono la S. Comunione, dopo l'amministrazione della medesima.

Oltre a ciò, dove ci sia consuetudine, può un sacerdote, dopo il canto de' Vesperi, delle litanie o di altre preci, vestito di cotta e stola, benedire il popolo colle parole Benedictio Dei omnipotentis etc., siccome sogliono fare i predicatori in fine dei loro corsi (S. R. C. 27 aug. 1836 in Veronen. ad 4, n. 2745).

Certamente poi un sacerdote semplice, come qualsivoglia prelato inferiore, non può benedire tutti i fedeli per le vie indistintamente more Episcoporum.

Può benedirli quando ne sia richiesto o in altre determinate circostauze?

Non mancano autori che negano (V. Rev. théologique 1 ser. 1856 fol. 431 ap. De Herdt 1. c.), ascrivendo tale facoltà solo ai Vescovi. Ma con pace di questi Autori,

a noi piace meglio seguire la opinione del dotto Gardellini, il quale in una nota del cit. decr. della S. C. dei Riti in Veronen. eruditamente dimostra come il divieto ai sacerdoti di benedire i fedeli era anticamente solo per la benedizione in fine della messa, dovendola dare il Vescovo o in sua mancanza l'Arciprete (1). Fuori della messa non v'ha proibizione al sacerdote di benedire; anzi è cosa buona e salutare che i fedeli siano benedetti, contenendo la benedizione invocativa una calda preghiera che il sacerdote innalza a Dio in nome della Chiesa, pel bene e pel vantaggio di colui ch'è benedetto. Si ponga mente alle parole del detto chiariss. Autore:

Fatendum quidem est auctores omnes (qui negant sacerdotes habere hanc benedicendi facultatem) loqui semper de benedictione a simplici sacerdote danda in fine missae, de qua supra sermo fuit, quamque impertiri popolo antiquis temporibus ei non licebat. Sed cum nulla super hoc benedicendi ritu extra missam extet prohibitio, cum bonum aliquod spirituale vel etiam temporale per hanc benedictionem ex divina benignitate sacerdos adprecetur, cum denique haec consuetudo quasi undique invaluerit, atque hinc iure putandum est aut expresse aut saltem tacite factam esse vel fieri sacerdotibus ab Episcopis dioecesanis hanc populo extra missam benedictionem impertiendi facultatem -.

Dal fin qui detto si raccoglie che Ciriaco non è meritevole di censura quando benedice i fedeli che gli richiedono la benedizione.

(1) Donde l'uso odierno che quando il Vescovo assiste alla messa di un sacerdote, se è cantata, dà lui la benedizione, se è letta consente che la dia il celebrante.

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