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360.

Se la comunione pasquale può darsi ai non digiuni.

Nella parrocchia X. quando si porta la comunione ai malati per soddisfare al precetto pasquale, la si dà pure a quelli che per grave bisogno presero qualche medicina. Che dire di questa usanza?

È quistione fra i TT. se per soddisfare al precetto pasquale si possa talvolta dare la comunione agl'infermi non digiuni. Alcuni negano; altri affermano (V. nostre Consultaz. Mor., Vol. I, Cons. LI, n. 6). Ciò posto, se non si può ottenere la debita dispensa della S. Sede; nè la comunione può farsi ad ora più presta, ed anche notturna salvando il digiuno (V. Gury, Comp. T. II, n. 334), crediamo che si possa stare ai non pochi TT. (fra i quali il D'Annibale T. III, n. 290), i quali reputano lecita in tal caso la comunione ai non digiuni.

361.

Se la comunione ai non digiuni può darsi per
infermità diuturna.

In J. agli ammalati diuturni che non possono osservare il digiuno, la comunione si concede ob devotionem, interdum, cioè ora ogni quindici giorni, ora ogni otto, ed ora anche ogni tre giorni, adducendo che tale è la consuetudine.

I TT. non consentono generalmente che in una malattia non pericolosa di morte, benchè diuturna, si possa dare la comunione ai non digiuni (V. nostre Consultaz.

1. c. n. 5, e Lehmkul T. II, n. 161). Perciò la prefata consuetudine è riprovevole. Nel caso nondimeno di una malattia diuturna, senza pericolo di morte, che impedisce il digiuno, si consiglia di chiedere la dispensa dal S. Officio, che suol concederla colla clausola bis in mense se trattasi di persone laiche, e bis in hebdomada se di religiose.

Nondimeno oggidì, per benigna concessione del S. P. Pio X, in forza del recente decreto della S. C. del Concilio 15 sett. 1906, gl'infermi cronici di oltre un mese, se hanno in casa il Santissimo, ovvero l'oratorio per la messa, possono ricevere due volte per settimana la comunione quando, a giudizio del confessore, siano costretti di prendere qualche cosa per modum potus. Se poi han bisogno che il Santissimo si parti dalla pubblica chiesa, possono così comunicarsi una volta al mese.

362.

Circa la manifestazione delle cose che un penitente abbia udite dal Confessore.

Nel Monastero di N. è consuetudine che la Superiora interroghi talune religiose sulle cose dette e udite in confessione. Si chiede: Possono manifestarsi dal penitente le cose udite dal Confessore? 2.o Può la superiora religiosa richiedere tali cose dalle suddite? 3.o Che dire dell'uso invalso nel Monastero di N. ?

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Al 1.o Si disputò un tempo fra i TT. se non solo il confessore ma ancora il penitente sia tenuto al sigillo sacramentale (V. Layman L. V, Tr. VI, c. 14, n. 20). Prevalse però la sentenza comune che disobbliga il penitente da tal sigillo, il quale è stato introdotto in grazia appunto del penitente, non già del confessore.

Nondimeno è parimente dottrina comune che il penitente, se non è tenuto al sigillo sacramentale circa le cose udite dal confessore, è tenuto ad uno strettissimo secreto naturale. Si ascolti S. Alfonso (VI, 647): - Etiam secundum aliquos ipse poenitents (tenetur ad sigillum); verum probabilius est eum tantum teneri secreto naturali ratione materiae, si id ea requirat, tacere audita a confessario... quia sigillum institutum est tantum in favorem poenitentium, non confessariorum, quapropter ius sigilli non confessariis sed tantum poenitentibus confertur. Veruntamem omnes cum Holzman dicunt teneri poenitentem vinculo secreti naturalis de dictis a confessario, quorum propalatio ei damnum posset afferre. Mihique videntur teneri poenitentes huic secreto (quamvis naturali) strictius quam alii; alii enim voluntarie consilia praebent, sed confessarius obligatur necessario ad dandum consilium poenitenti; ut ille sibi caveat a damnis spiritualibus, ideo poenitens rigorosius tenetur cavere ne confessario damnum obveniat ob consilium sibi praestitum ".

Lo stesso insegnano gli altri autori anche moderni. Il D'Annibale dice (Summ. L. III, n. 362 nota 44): « Ipse autem poenitens circa ea quae a confessario accepit, didicit, tenetur secreto commisso, quod heic arctius obligat

ข.

Il penitente adunque circa le cose udite dal confessore è tenuto ad un secreto anche più stretto del secreto commesso, che pure è assai più grave del solo naturale. E ciò, secondo S. Alfonso, dal perchè il confessore non è un consigliero volontario, ma un consigliero di officio, che è obbligato di suggerir al penitente i rimedii atti alla salute eterna. Non potendo adunque schermirsi dal dare questi rimedii, ha diritto che tutto sia nascosto col velo del secreto.

Ma vi ha pure un'altra ragione che dimostra l'obbligo sempre più stretto nel penitente del secreto. E questa

si è che il confessore, messo pure che il penitente esageri o lo infami, non si può difendere con giustificare sè stesso, trovando un obice insuperabile nel sigillo sacramentale che egli è obbligato di custodire integro anche col pericolo della vita. Il confessore perciò dovrebbe veder lacerata la sua riputazione, dovrebbe sostenere anche odii e vendette ingiustissime, e tacere! Qual colpa gravissima in un penitente che non abbia saputo custodire il secreto !

E si noti che il parlare delle cose udite dal confessore spesso sembra innocuo, ma nel fatto non è così. Non è raro il caso che si trovi da censurare sulla condotta del confessore, al quale il penitente narrò le cose tutt'altrimenti da quelle che sono; e neppure è raro il caso che il penitente non abbia ben capito ciò che il confessore gli disse, e storpia le parole ed il concetto di lui; spesso poi si attribuisce al confessore qualche suggerimento che ad altri torna grave e dannoso, creandogli molestie, rimproveri e persecuzioni altresì. Per tutte queste ragioni il penitente non dovrà mai dire ad altri le cose che udì dal confessore, il quale se dovrà osservare l'obbligo strettissimo del sigillo sacramentale sulle cose udite, ha diritto che le cose da lui dette al penitente restino sotto il legame del più stretto secreto.

Al 2.o La superiora religiosa poi che voglia di ciò interrogare le suddite, non solo pecca perchè le induce a tradire il secreto commesso dal confessore, ma pecca altresì perchè presume di conoscere l'interno delle loro coscienze: cose alle superiore severamente proibite. Ecco le ingiunzioni del celebre decreto Quemadmodum, della S. C. de' VV. RR.: Dopo aver disposto che sia del tutto cassato dalle regole di qualsivoglia Ordine o Istituto ciò che riguarda quovis modo ac nomine l'intima manifestazione del cuore e della coscienza dei sudditi, soggiunge nell'articolo II: Districte insuper (Sanctitas Sua) prohibet memoratis Superioribus et Superiorissis,

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cuiuscumque gradus et praeminentiae sint, ne personas sibi subditas inducere pertentent directe aut indirecte, praecepto, consilio, timore, minis, ant blanditiis ad huiusmodi manifestationem conscientiae sibi peragendam; subditisque e converso præcipit, ut Superioribus maioribus denuncient Superiores minores qui eos ad id inducere audeant; et si agatur de Moderatrice Generali, denunciatio huic S. Congregationi ab iis fieri debeat " (Mon. Eccl. Vol. VII, P. I, p. 6).

Adunque qui si fa divieto rigorosissimo ai superiori ed alle superiore di qualunque istituto e monastero sì di voti solenni e sì di voti semplici che non mai si arbitrino di interrogare in qualsivoglia maniera i loro sudditi sulle cose che riguardano il loro interno del cuore o della coscienza; e si fa obbligo ai sudditi di denunziare i superiori, che trasgrediscono tal di vieto, ai superiori maggiori, ed anche, se trattisi del superiore generale, alla S. Congregazione de' VV. e RR.

Or una superiora, che domanda a qualche suddita le cose dette o udite in confessione, la richiede appunto di cose che riguardano il loro interno del cuore o della coscienza, e pecca senza dubbio contro il detto decreto. La suddita poi ha stretto dovere di denunziare al Vescovo la Superiora che così faccia, e pecca se non adempie tal suo dovere.

Al 3.o Dal fin qui detto chiaramente si scorge quale intollerabile abuso regni nel monastero di N. c gravemente pecchi la Superiora in richiedere alle suore le cose udite in confessione, e queste in non denunziarla al Vescovo.

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