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29.

Se chi ignora l'impedimento petendi debitum ne sia scusato.

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Il confessore Fabiano, allorchè gli avviene qualche caso d'impedimento ad petendum, suol domandare al penitente se conoscesse la pena comminata dal diritto, e nel caso negativo, non riputandolo incorso in detta pena, lo ammonisce che se commette altre volte l'incesto sarà privo del diritto petendi debitum. II Confessore Sebastiano, in caso simile, temendo che il penitente con tale ammonizione possa in seguito trasgredire la legge dell'impedimento, si contenta solo d'interrogarlo se per l'incesto commesso sapeva di cogliere qualche pena, ed alla risposta negativa, mandarlo in pace, senza nulla dire dell'impedimento. Si chiede: Operano bene Fabiano e Sebastiano ?

In quanto al confessore Fabiano fa d'uopo vedere se l'ignoranza della pena di questo impedimento scusi dal contrarlo. V'ha quistione fra i TT. S. Alfonso (L. VI, n. 1074) dice a bastanza probabile la sentenza che afferma, sostenuta da chiari DD. e ripetuta probabile ancora da taluni TT. della parte avversa. La ragione si è che l'impedimento non è mera inabilità, ma pura pena. Or la pena, qnando non è ordinaria (quando, cioè, non si possa prevedere neanco in confuso), ma straordinaria come questa, è probabilissimo, giusta il S. Dottore, che non s'incorre quando s'ignora. Questa opinione può dunque seguirsi nella pratica. Il confessore Fabiano perciò si regola bene con riputare non incorsi in tale impedimento i penitenti che lo ignoravano.

Deve intanto avvertirli per l'avvenire? Qui entra il caso del confessore Sebastiano. Insegnano tutt'i TT. con S. Alfonso che di regola ordinaria il confessore è obbligato d'istruire il penitente circa le disposizioni della legge che lo riguardano: però quando prevede che l'am

monizione non sia per giovare, non solo può ma deve astenersene (Ligor. L. VI, n. 610). E deve ancora, giusta l'opinione del S. Dottore (l. c. n. 616 Utrum in fin.), benchè dubiti su tal giovamento.

Da questa teorica discende che non rettamente operano nè Fabiano nè Sebastiano: il primo con avvertir sempre i penitenti di questa pena; il secondo con non avvertirli mai. Debbono avvertirli quando è certo che adempiranno la legge: non debbono, quando è certo ovvero è dubbio che non adempiranno. Del resto chi è facile a commettere il gravissimo delitto dell'incesto dà chiaro a presumere che sarà facile ancora a disprezzarne la pena: e però nella pratica va più commendata la condotta di Sebastiano, anzichè quella di Fabiano.

30.

Se si può assolvere l'incestuoso, senza dispensarlo
dall'impedimento ad petendum.

Qualora il penitente abbia incorsa la pena dell'impedimento ad petendum, perchè la conosceva, potrà il confessore assolverlo subito dai peccati, non escluso l'incesto, senza dispensarlo dal detto impedimento; e chiestane dipoi al Vescovo la facoltà, riabilitarlo a quel diritto ?

Non esitiamo a rispondere affermativamente, purchè il penitente sia disposto all'assoluzione; cioè quando sia tolta l'occasione volontaria dell'incesto, e il penitente sia pronto a non avvalersi intanto del diritto petendi debitum, a ritornare al confessore nel debito tempo, ed a sottomettersi alle ingiunzioni che gli verranno prescritte. Imperocchè l'assoluzione dai peccati è ben distinta dall'assoluzione dalla pena: la prima può stare benissimo senza la seconda.

Nè si dica che il penitente potrebbe trasgredire l'ingiunzione non petendi o potrebbe non più ritornare al confessore. Giacchè ciò potrebbe farlo altresì, e forse con più facilità, se non ricevesse l'assoluzione; la quale recandogli colla divina grazia forza maggiore contro le tentazioni, più difficili gli rende le ricadute, e più facile il ritorno al confessore. In generale, quando il penitente può esser subito assoluto, non lo si deve mai rimandare senza riconciliarlo con Dio.

31.

Se cadano in censura gli usurpatori
dei beni dei sacri patrimonii.

L'usurpazione del patrimonio ecclesiastico di un sacerdote, al cui titolo è stato ordinato, porta la scomunica papale in general modo riservata ?

Il Tridentino Sess. 22 cap. 11 de ref. colpisce di scomunica in general modo riservata al Papa gli usurpapatori dei beni alicuius ecclesiae, seu cuiusvis saecularis vel regularis beneficii, montium pietatis aliorumque piorum locorum. Contempla perciò i beni delle chiese, dei beneficii, e dei luoghi pii fondati per autorità della Chiesa (V. Consultaz. Mor. Can. Lit. Cons. I n. 5); quei beni cioè che già furono segregati dalla privata proprietà e furono dedicati a Dio pel sostentamento de' templi del Signore, dei sacri ministri e dei poveri.

Or i patrimonii sacri, tuttochè destinati al sostentamento dei chierici, non si formano di beni segregati dalla proprietà privata e dedicati a Dio, e però non vanno communiti della censura tridentina contro gli usarpatori.

Vanno solo inclusi nel privilegio delle immunità, quanto alla esenzione dalle tasse e dai pubblici balzelli: giacchè essendo beni proprii dei ministri del Signore non ponno esser colpiti, secondo il diritto, da questi gravami.

32.

Se nelle feste abolite possa il parroco celebrare pro populo in qualunque chiesa.

L'obbligo della Messa pro populo nel parroco è personale ed è reale, vale a dire dev'egli celebrare in tutte le feste di precetto pel bene del suo popolo nella propria chiesa parrocchiale. Ora nelle feste abolite, può celebrare in chiesa diversa? In altri termini, in siffatte feste abolite, se v'ha l'obbligo personale della messa pro populo, v'ha pur l'obbligo reale?

Il capo Ut dominicis, 2, de Parochiis et alienis parochianis rigorosamente vuole che il parroco celebri ne' di festivi nella propria chiesa parrocchiale e non in altra. Lo stesso ha definito più volte la S. C. del Conc., come in Lucana 15 sept. et 12 nov. 1629 ed in Fanen. 17 nov. 1629. E la S. Rota (Decis. 469 n. 67, p. 19, 1. 2 rec.) sentenziò: Parochi tenentur omnibus diebus festivis missam celebrare in propria ecclesia, non autem in alia, quacumque consuetudine in contrarium non obstante ».

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La ragione poi di tale obbligo è in ciò che il parroco deve nei di festivi dar comodo ai suoi filiani di assistere alla S. Messa e deve istruirli colla predicazione della divina parola. Perciò la S. C. del Conc. il dì 14 dicembre 1872 defini: Parochum die festo a sua paroecia legitime absentem satisfacere suae obligationi missam applicando pro populo suo in loco ubi degit, dummodo ad necessariam populi commoditatem alius sacerdos in ec

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clesia parochiali celebret et verbum Dei explicet » (Mon. Eccl., vol. V, Par. I, p. 123).

Da tutto ciò può raccogliersi che nelle feste di precetto abolite, non essendoci obbligo nè da parte dei fedeli di ascoltare la S. Messa, nè da parte del parroco di predicare la divina parola, non ci sia neppure obbligo per quest'ultimo di celebrare la Messa pro populo nella propria chiesa, potendola celebrare dovunque gli piaccia. In questi giorni perciò di feste abolite l'obbligo della Messa pro populo non sembra più reale, ma solo personale. Tranne però se trattisi di quelle feste abolite, in cui perdura la divozione dei fedeli di udire la S. Messa, nelle quali feste non sembra cessato nei parroci l'obbligo di celebrare nella propria parrocchia.

33.

Circa gli emolumenti per le preci,
che si commettono dai fedeli.

In B. è usanza che nella festa del Santo Protettore si canti più volte nel giorno dal clero un lungo inno per commissione dei fedeli, i quali sogliono offrire perciò un piccolo stipendio. Affichè il prefato inno si canti con più di posatezza e senza fretta, ed anche in vista della esiguità dell'offerta, l'anzidetto inno vorrebbesi modificare ed accorciare. Può farlo il Clero?

Non può farlo per due ragioni: 1o perchè non il Clero, ma il Vescovo può approvare le preci da recitare o da cantare nelle chiese della propria diocesi - 2o perchè il clero non può recar mutazione sulle tasse che esige dai fedeli senza la venia del Vescovo, come il Vescovo non può cambiare le tasse della Curia senza il permesso della Santa Sede.

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