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E che il Vescovo solo abbia il diritto di approvare le preci estraliturgiche da recitarsi pubblicamente nelle chiese di sua diocesi, lo si dimostra dalla potestà e dall'obbligo conferitogli dal Tridentino di provvedere a tutto ciò che riguarda il culto di Dio: Quaecumque in Dioecesi ad Dei cultum spectant, ab Ordinario diligenter curari, atque iis, ubi oportet, provideri aequum est » (Sess. 21, Cap. 8, de ref). Perciò la S. C. dei Riti dichiarò essere del Vescovo l'esaminare e l'approvare le nuove litanie da recitarsi in Chiesa nelle funzioni estraliturgiche (28 oct. 1882); come pure il permettere che dopo la Messa il sacerdote reciti qualche preghiera (31 aug. 1867 (V. Mon. Eccl. Vol. VI, Par II, p. 212).

Che poi le tasse da esigere debbano approvarsi dall'Autorità diocesana è cosa risaputa. Benedetto XIV de Syn. Dioec. lib. V., c. IX dimostra con molte autorità che spetta al Vescovo il determinare lo stipendio delle messe, tenendo presenti le necessità del Clero. Ciò vale altresì per qualsivoglia altro stipendio o diritto che riguarda il clero, ovvero il parroco, sapendo di avarizia e di turpe mercimonio se si volesse da questi soli determinare.

Nel caso proposto poi non basta che il Vescovo approvi la modificazione dell'inno e dell'emolumento: fa d'uopo anche tenerne innanzi tempo informati i fedeli; giacchè questi, dando l'antico stipendio, hanno diritto alla recitazione dell'antico inno, intervenendo un quasicontratto do ut facias; e però è necessario avvisarli delle mutazioni introdotte, affinchè essi sappiano quello che dovrà farsi dopo lo stipendio pagato (1).

(1) Benedetto XIV per le Messe avventizie che non si possano celebrar tutte nella chiesa dove si commettono, suggeri di mettere in pubblico una tabella in cui si avvertono di ciò gli oblatori, i quali, dando lo stipendio per le Messe, danno pure il loro tacito consenso che qualche parte di esse siano celebrate altrove (Bened. XIV, Inst. Eccl. 56).

34.

Se nella Comunione possano dividersi le particole, o se possa darsene più di una a ciascun fedele.

Cirillo, quando le particole sono in numero minore de'comunicandi, suol dividerle sempre; e per contrario quando sono in numero maggiore, suol darne più d'una a ciascun fedele, opinando di far così cosa utile e salutare per la maggior durata delle specie, e però della presenza reale di G. C. in colui che lo riceve. Opera bene Cirillo?

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Quanto al dividere le particole, ciò è consentito in caso di necessità. Ecco un decreto della S. C. dei Riti: - Utrum tuto sequi valeat regula Ritualis Parisiensis sic expressa: Si quando Communio danda est, inventus non fuerit sufficiens numerus hostiarum, poterunt aliquot hostiae dividi in plures particulas, quae singulis distribuantur; et quatenus non sit sequenda, utrum quibusdam saltem in circumstantiis temporis, locorum et personae sequi possit? - Resp.: Servetur consuetudo dividendi particulas si adsit necessitas (16 mar. 1833 in Veronen. ad. I, n. 2704). Non crediamo poi che si richiegga una necessità grave perchè ciò possa farsi. La divisione delle particole non è contraria alla istituzione eucaristica, in cui G. C. fregit panem deditque discipulis suis. Perciò quante volte i richiedenti dovessero rimanere senza comunione, o dovessero aspettare del tempo per comunicarsi, crediamo che possano in simili casi dividersi le particole.

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Ma se ne può dare più di una a ciascun fedele? La falsa devozione di alcuni di oggidì non è nuova. Fin dal secolo XVII solevansi dare ad un solo più particole, ovvero una particola di maggiore dimensione, opinando che in siffatta guisa maggior frutto si ricaverebbe da questo gran Sacramento. Ma la S. C. del Concilio giu

stamente condannò tale usanza, col decreto del 12 febbraio 1679, approvato da Innocenzo XI, il quale prescrive: " Episcopi, parochi seu confessarii insuper admoneant, nulli tradendas plures Eucharistiae formas seu particulas, neque grandiores, sed consuetas ». Benedetto XIV, il quale riporta questo decreto (De Sacrif. Miss. lib. III, Cap. XX, n. 1), ne raccoglie: "Non licere ad falsam confovendam devotionem, uni vel plures particulas, vel maioris moduli hostiam praebere V'ha dunque stretto obbligo di non dare a ciascun fedele più di una particola, nè una particola più grande delle consuete.

Il medesimo Benedetto XIV ne reca la ragione, con allegar le seguenti parole del Can. Ubi pars dist. 2 de Consecrat.: Ubi pars est Corporis est totum. Eadem ratio est in Corpore Domini quae in manna, quod in eius figura praecessit, de quo dicitur: Qui plus collegerat non habuit amplius: neque qui minus paraverat, invenit minus. Non est omnino quantitas visibilis in hoc aestimanda mysterio, sed virtus sacramenti spiritualis ». Lo stesso insegna l'Angelico in 3 p. q. 79 a. 7 ad. 3.

Cirillo perciò opera male sì nel primo e sì nel secondo caso. Nel primo, giacchè non è lecito sempre dividere le particole, ma quando ci sia una giusta ragione. Nel secondo, essendo vietato dar più di una sola particola a ciascun comunicando.

Del resto, è bene qui ricordare l'avvertimento che dà intorno a ciò il chiarissimo Martinucci: Particularum numerus congruere debet cum communicandorum numero, ne celebrans adigatur eas consumere si supersint, vel frangere ac dividere si desint » (Manuale Sacrar. Caerem. Vol. I, lib. I, c. 11, n. 34 in nota).

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35.

Se basti la licenza del Vescovo per ammettere delle persone di servizio nei monasteri di clausura papale.

Nei monasteri di clausura papale, per ammettervi delle persone di servizio che vi dimorino abitualmente, basta la licenza del Vescovo; ovvero si richiede la venia Apostolica?

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Nei monasteri di clausura papale il Vescovo, come delegato della S. Sede, ha facoltà di permetterne l'ingresso ad estranei nei soli casi di necessità. Si ascolti il Tridentino Sess. 25 de reg. et monial. c. 5: Ingredi autem intra septa monasterii nemini liceat, cuiuscumque generis aut conditionis, sexus vel aetatis fuerit, sine Episcopi vel superioris licentia, in scriptis obtenta, sub excommunicationis poena ipso facto incurrenda. Dare autem tantum Episcopus vel Superior licentiam debet in casibus necessitatis. Donde si raccoglie che, potendo il Vescovo dar licenza nei soli casi di necessità, vuol dire che può dare la licenza ad actum, non ad habitum. Può ancora il Vescovo, dice S. Alfonso lib. VII n. 223, commettere alla Badessa, al Confessore o ad altri la facoltà di concedere questa licenza: « Bene tamen poterit praelatus generaliter committere abbatissae vel confessario aut alteri viro prudenti facultatem concedendi licentiam aliis ad ingrediendum. Ma ciò sempre per una determinata necessità, e finchè dura la necessità medesima.

Può dirsi cosi dell'ingresso di una serviente? Laddove si trattasse di una necessità passeggiera, p. e. di compiere qualche lavoro a cui non sono valide le monache; di assistere a qualche inferma in grave pericolo a cui le monache non sono atte, potrebbe il Vescovo concedere da sè la licenza, benchè fosse della durata di più giorni. Ma laddove il bisogno fosse duraturo per mesi e per anni, non crediamo che si estenda a tanto la po

testà del Vescovo. Ciò si prova dal già esposto, e ancora da una dichiarazione della S. C. de' VV. e RR. al Vescovo di Lima del dì 19 genn. 1751 (Collectanea S. C. EE. et RR. edit. Rom. 1885 pag. 373) del tenore seguente: - Amplitudini tuae munus erit sub gravibus poenis, etiam censurarum, interdicere ac prohibere admissionem famularum, quae non pro Communitate seu pro aliqua seu aliquibus monialibus absque Sedis Apostolicae indulto omnino necessario, temere admitti intra claustra consueverant. Dove si dice necessario l'indulto apostolico per l'ammissione delle serve di suore private, non perchè non sia necessario anche per quelle della intera comunità, ma perchè ivi deploravasi solo quell'abuso. Del resto la pratica vigente oggidì presso la S. C. predetta di concedere siffatte licenze quante volte i Vescovi ne facciano domanda può togliere ogni dubbio. E noi sappiamo che, concorrendovi giuste ragioni, la S. C. suol dare ai Vescovi la facoltà di permettere l'ingresso e la dimora delle inservienti nei monasteri di clausura papale o a tempo determinato, p. e. ad triennium, o per un qualche numero di casi.

36.

Circa l'abiura che richiedesi in assolvere un eretico.

È necessario serbarsi la formola del Pontificale Romano per l'abiura di un protestante? Può considerarsi detta abiura fatta in pubblico, quando alla presenza di più testimoni vien fatta nella cappella del Seminario, o nell'oratorio del Vescovo?

L'abiura degli eretici, che si convertono, regolamente dovrebbe farsi innanzi al notaio ed a'testimoni, second o molte dichiarazioni del S. Officio. Eccone una del 25 giugno 1715 (Collectanea S. C. de Prop. Fide n. 1682) :

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