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1. An haeretici poenitentes de necessitate coram tario et testibus abiurare debeant - 2. Utrum ubi impune grassatur haeresis, non sufficiat eos abiurare coram poenitentario in foro interiori - 3. An iurare debeant de necessitate quod a similibus abstinere velint

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4. Utrum propter periculum periurii non expediat remittere tale iuramentum - Resp. Ad 1. Affirmative. Ad 2. Non sufficere si velint absolvi in foro externo: sufficere autem si tamen in foro interno absolvant, dummodo poenitentiarius sit delegatus ab Episcopo (qui delegandi habeat facultatem) iuxta formulam facultatis Ad 3. Affirmative. - Ad. 4. Non expedire, nec licere -. Donde si raccoglie che nell'abiura deve intervenire il giuramento di non più consentire nei commessi errori e deve farsi, pel foro esterno, innanzi al notaio ed ai testimoni.

Nonpertanto quando ci fosse una giusta ragione, la S. C. di Propaganda ha soluto dispensare da tale formalità ed ha consentito che l'abiura si presti innanzi al Vercovo ed alquante persone, siccome dichiarò al Vescovo di Meatte (Miden) d'Irlanda il di 26 giugno 1790 (Collect. cit. n. 1681), e più esplicitamente al Vescovo di Limerick (Limericien.) pur dell'Irlanda il dì 8 aprile 1786 (Collect. cit. n. 1686) con queste parole; - Non est necesse ut qui a catholica fide defecerunt, ad eamque postmodum reverti cupiunt, publicam abiurationem praemittant, sed satis est ut privatim coram paucis abiurent, dummodo tamen promissa servent, ac revera abstineant communicare cum haereticis in spiritualibus aut quidquam facere quod haeresis protestativum sit. Idem sentiendum de iis qui haeresim, in qua usque ab initio educati fuere, privatim abjurent

Circa la formola poi per la detta abiura, questa non è quella prescritta da Pio IV ed inserita nel Pontificale, ma è la speciale da emettersi col rito indicato nell'ap

posita istruzione del S. Officio del dì 20 luglio 1859, che trovasi nel Monit. Eccl. Vol. VIII, Par. I, pag. 130.

Dal fin qui detto ricavasi chiarissima la risposta al doppio quesito della nostra quistione.

37.

Se i congiunti di una religiosa che viene a morte possano appropriarsi il mobile appartenente ad essa.

In L. viene a morte una religiosa di voti solenni, dimorante nel chiostro. I congiunti, dal perchè il chiostro scarseggia di religiose ed è prossimo a chiudersi, richiedono ed ottengono dalla superiora tutto quello che si apparteneva alla religiosa defunta. È lecito tutto ciò?

È regola canonica che tutto quanto si appartiene ad una religiosa di voti solenni, non è della religiosa, ma della Comunità: « Quidquid monachus acquirit pro communitate acquirit". - Di qui viene che una religiosa di tal fatta, senza il permesso del Vescovo, se trattasi di somma piccola (non più di L. 50), o della S. Sede, se trattasi di somma rilevante, non può dare ad altri ciò che è di sua spettanza, e neanco può rinunziare a favore di altri ciò che le viene o per donazione, o per testamento; ma tutto va di pieno diritto alla comunità.

Nel caso proposto, nè i congiunti della religiosa defunta potevano appropriarsi il mobile di questa: nè la superiora poteva concederlo, purchè non si fosse trattato di materia parva. Nè vale il dire che il convento era prossimo a chiudersi; giacchè ciò non disobbliga dalle leggi della Chiesa e non rende lecito quello ch'è illecito. Chiuso che sarà il convento, il mobile delle religiose defunte e quant'altro appartiene alla comunità

deve andare in mano del Vescovo, il quale, giusta le istruzioni, deve conservarlo a disposizione della S. Sede, per addirsi ad opere pie o di culto o di beneficenza.

Ma vi ha pene per chi si appropria il mobile di una suora, o per la superiora che lo concede?

Il Tridentino Sess. 22 cap. 11 de ref. colpisce di scomunica generalmente riservata alla S. Sede tutti coloro che usurpano bona, census, fructus, emolumenta che appartengano a chiese od a luoghi pii, come sono i monasteri; e punisce ancora della medesima pena ed anche maggiore il chierico il quale concorre a quella frode con consentire. Or chi si appropria del mobile di una suora defunta, si avvale della legge laica che ha disconosciuti i vincoli canonici ed ha reso i diritti civili alle religiose che liberamente e per voto solenne vi aveano rinunziato. Egli è perciò in tutto il rigore del termine un usurpatore, e non può sfuggire la scomunica del Tridentino, nè l'obbligo di restituire alla comunità il mal tolto.

Ma che è da dire della superiora? Il Tridentino punisce i chierici consenzienti all'usurpazione, non altre persone; e qui fa d'uopo di stretta interpretazione, perchè siamo in odiosis. La superiora perciò che consente a tale indebita appropriazione e la favorisce, pecca senza dubbio gravissimamente, ma non cade nella censura. Se poi consente mal volentieri perchè le si fanno minacce di far valere la legge civile, in tal caso, premessa la debita protesta, non commette colpa col condiscendere.

Ciò, in vista solo dell'usurpazione che si commette. Imperocchè se ci sia giusta ragione di concedere ad altri il mobile di una religiosa defunta, la superiora che secondo le regole della casa, amministra i beni mobili non preziosi, sta nel suo diritto, e però non commette peccato. Pei soli beni immobili e pei mobili preziosi, fa mestieri in tal caso del beneplacito Apostolico, sotto pena di scomunica nemini reservata, giusta la Estrav.

Ambitiosae (V. Bouix de Iure Regular. Vol. II, Sect. V, Subect. III, Cap. II).

38.

Circa la designazione del patrino nella Cresima,
per la cognazione spirituale.

Giulio, designato da' genitori di Cajo a tenerlo da patrino nella Cresima, è impedito di presentarsi; e però commette in iscritto a Procolo di far le sue veci. Mentre il Vescovo è già per amministrare il Sacramento, Procolo colla sua carta di procura presentasi al pro-parroco. Questi, credendo che ciò non si possa fare senza l'intesa del parroco, dice a Procolo: sii tu il vero patrino di Cajo. Procolo consente, e cosi Cajo vien cresimato. Chi sarà qui il vero patrino, Giulio, ovvero Procolo?

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Che uno possa far da patrino per procura, è cosa risaputissima, Secundum iura, dice il Ferraris a tal proposito (V. Baptismus, art. VII, n. 17), potest quis medio procuratore quod per seipsum citando la reg. 76 de Reg. iuris in 6: Qui facit per alium, perinde est ac si faciat per se ipsum E però, insegna lo stesso scrittore, sull'autorità di molti decreti della S. C. del Concilio, in tal caso non è il procuratore che contrae la cognazione, ma il mandante.

2.

Ma chi è che ha il diritto di designare validamente il patrino? Alcuni opinano che questa facoltà sia nei genitori e sia pure nel parroco; sicchè il parroco possa pure validamente (benchè illecitamente) mutare la persona del patrino, deputata dai genitori. È questa l'opinione di Tamburino e di La Croix, non contraddetta da S. Alfonso, Lib. VI, n. 146. Ma la comune de' TT. concordemente insegnano che per la validità i patrini devono essere designati dai genitori; e il parroco allora

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solamente può deputarli, quando i genitori non l'abbiano fatto. Si ascolti il Ferraris l. c. n. 13: Patrinos designare spectat ad parentes, non autem ad parochum; unde si alii a parocho et alii a parentibus sint designati, contrahunt cognationem solum designati a parentibus. Colligitur aperte ex Conc. Trid. Sess. 24 de ref. matr. c. 2 his verbis: Parochus antequam ad baptismum conficiendum accedat, diligenter ab his ad quos spectabit - sciscitetur quem vel quos elegerint ut baptizatum de sacro fonte suscipiant, et eum vel eos tantum ad illum suscipiendum admittat, et in libro eorum nomina describat ; ubi clare demonstrat, primo electionem patrinorum non ad parochum pertinere, dum ipse debet inquirere quinam sint electi; secundo, alios omnes ab electis a parentibus excludendos ".

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Ciò posto, nel nostro caso, abbiamo che i genitori han deputato Giulio, non Procolo a patrino di Cajo loro figlio. Abbiamo pure che Giulio ha legittimamente commesso a Procolo di rappresentarlo, come procuratore, a quell'atto. La delegazione di Procolo era valida, quand'anco non ci fosse la venia del parroco. È vero che il pro-parroco, ignaro di tal procedura, credendo necessario il consenso del parroco, ha detto a Procolo di sostener le parti di patrino. Ma si vuol riflettere: 1. che la sentenza più comune e più vera de' TT. non riconosce valida la mutazione che faccia il parroco della persona del patrino designata; 2. che nel caso non era il parroco che faceva tal mutazione, ma il pro-parroco, il quale non aveva mandato alcuno dal parroco; - 3. che la mutazione poggiava sopra un falso supposto, sulla credenza, cioè, che la procura non fosse valida. Per tutte queste ragioni par chiaro che non Procolo ma Giulio sia il vero patrino di Cajo.

Nè si dica che Procolo si presentò al Vescovo non come procuratore di Giulio, ma come vero patrino; imperocchè egli non ne aveva avuto il mandato nè dai

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