PIETRO BEMBO Nacque a Venezia nel 1470. Nella fanciullezza dimorò qualche tempo a Firenze, ove dalla viva voce dei parlanti cominciò familiarizzarsi alle bellezze della lingua toscana, la quale poi coltivò con lunghissimo amore. A Messina studiò il greco sotto il famoso Costantino Lascaris, e a Padova e a Ferrara la filosofia. In quest'ultima città strinse amicizia con molti dotti, e vi conobbe la celebre Lucrezia Borgia, moglie ad Alfonso d'Este, alla quale poi divenne più che amico. Non curandosi di attendere alle faccende della Repubblica, come i suoi avrebber desiderato, si recò alla corte d'Urbino, e vi stette dal 1506 al 1512, amato e careggiato da tutti per le molte lettere, e per i gentili costumi di cui era adorno. Poi andato a Roma, vi fu caro a Giulio II, e carissimo a Leone X, che lo fece suo segretario, e lo incaricò di affari rilevantissimi. Nel 1521, preso da grave malattia, si portò a Padova, ove l'aria salubre, la quiete e gli agi della vita lo tornarono a prospero stato. Ed egli, innamorato di quel modo di vivere, rimase in quella città coltivando tranquillamente gli studii, e accogliendo in casa sua tutti gli uomini più chiari per ornamenti di lettere. In quel tempo la Repubblica di Venezia lo dichiarò suo istoriografo, carica che egli sostenne con molto onore, scrivendo in dodici libri la storia delle veneziane vicende. Nel 1539 Paolo III lo creò cardinale, ed egli allora tornò a Roma, ove stette poi sempre, quantunque fosse fatto vescovo di Gubbio e di Bergamo. Morì il 18 gennaio 1547. Nel secolo XVI non vi fu forse uomo tanto celebrato quanto il Bembo fu amico a tutti i dotti, a tutti i poeti tutte le corti e i grandi lo ricolmarono di onoranze, e lo adoperarono in gravissimi affari: ma dopo morte la sua fama alquanto diminuì, perchè, sebbene scrivesse elegantemente in italiano e in latino, fu giustamente ripreso di aver poco tenuto dietro alle cose, mentre poneva soverchio studio nelle parole e perchè la sua affettazione è talvolta insoffribile. Non ostante di ciò sono pregevoli molto i suoi Discorsi sulla lingua volgare, le sue Storie e le sue Lettere. La sua giovinezza la condusse scioperatissima dietro ad amori di donue, delle quali alcune amò di certo non platonicamente. Oltre a Lisabetta Quirini, e Lucrezia Borgia, amò anche una Morosina, per la quale scrisse sonetti e canzoni. In esse imitò servilmente il Petrarca, e non seppe mai dir nulla senza dipartirsi dal suo modello. Nulladimeno a lui si dà lode per avere richiamata la poesía all'autica eleganza, e risvegliato l'amore dei sommi poeti. All' Italia. O pria si cara al ciel del mondo parte, Chi, le più strane a te chiamando, insieme Dalla prima terzina pare che questo sonetto alluda alle guerre che si combatterono in Italia nel 1494, quando Lodovico il Moro invitò Carlo VIII di Francia a conquistare il regno di Napoli. Altri vuole che alluda alla venuta degli Svizzeri, chiamati dal legato di Giulio II per iscacciare i Francesi. V. 2. Che l'acqua cigne ec.: ricorda quel del Petrarca: Che Appennin parte, e il mar circonda e l' Alpe. V. 8. E pongon man ec.: anche questa è imitazione del Petrarca nella canzone: Spirto gentil che quelle membra reggi, ec. A Ferdinando II re di Napoli. Ben devria farvi onor d' eterno esempio Napoli vostra ; e 'n mezzo al suo bel monte E foste tal, che ancora esser vorrebbe Carlo VIII, chiamato alla conquista del regno di Napoli da Lodovico il Moro, passò in Italia nel 1494. Attraversata la Lombardia, venne in Toscana, e avrebbe dato legge a Firenze, se la sua baldanza non veniva abbattuta dal magnanimo ardimento di Piero Capponi. Andato nel regno di Napoli, se ne impadroni senza dar battaglia e il re Ferdinando, cui il padre Alfonso aveva addicato la corona, cedendo alla necessità, dovette fuggirsi. Intanto nell'Italia settentrionale si faceva una lega potentissima contro i Francesi, dei quali più non potevasi sopportar l'insolenza. A tal nuova Carlo, lasciate le feste e i sollazzi di Napoli, si messe in via per tornare in Francia. A Fornovo gli riuscì di aprirsi passo di mezzo all' armi de' collegati, e di scampare da tanta tempesta. Ma intanto i soldati lasciati a Napoli, colle loro rapine e soprusi d'ogni maniera, tanto si fecero odiare dai popoli, che questi presto richiamarono il re Ferdinando, e con lui alla testa, dopo vari combattimenti, gli cacciarono affatto del regno. Su questa cacciata si raggira il sonetto. V. 2. Il suo bel monte, è il Vesuvio. A Maria Vergine. Già donna, or dea, nel cui verginal chiostro, A salvar l'alma dall' eterno danno; Non tardar tu: ch'omai della mia vita Questo sonetto cha ha il pregio d' una semplice, grave e religiosa compunzione, è pur imitato dalla divina canzone. a Maria Vergine, l'ultima delle petrarchesche. Il Bembo supplica anch' egli la Vergine che lo sciolga dalla passione d'Amore, e principia un po' cangiando, un po' guastando le belle idee e parole del Petrarca; non però se ne scosta stanza 6 in fine: Prese Dio per scamparne Umana carne al tuo virginal chiostro; disse il Petrarca. Non mi piace il chiamar Dea la madre di Gesù, per l'uno e l'altro inchiostro, intende i suoi e sa di gentilesimo La qual se dal cammin dritto impedita, Migliore la lezione adottata da noi.. |