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ischeletrita, o balbettava ascetica nelle cronache monacali, tra la lingua del Lazio che finiva e i dialetti che iniziavano un'altra lingua. Aure di canti e d'amore le giunsero dalle aranciere della Provenza, dove le reminiscenze greche e romane s'erano congiunte alle vigorose idealità germaniche. La poesia amorosa de' trovatori non venne dal popolo, ma discese al popolo signorilmente contegnosa e uniforme, più di spirito che di sentimento, gaia, cesellata, elegante, nata sul liuto. Baroni e conti, con cavalieri e paggi d'umile origine, i quali però sotto le armi avevano imparato il fino amore, diventarono veri pellegrini dell'arte. Tuttavia l'omaggio trovadorico non ricercava il cuore della fanciulla o della donna; circondava la dama, come l'incenso una dea. E nulla toglieva che la dama fosse moglie altrui. Il bacio spirituale del poeta poteva sfiorar la sua fronte, senza farla arrossire; tanto erano simili tra loro quegli amori e quei canti, tanto erano altere quelle dame, tanto era straniero ai sensi quel culto.

La scintilla provenzale, trascorrente per la Penisola, s' accendeva qua e là dove trovasse migliori disposizioni alla fiamma. Nel Monferrato, nella Lunigiana, a Ferrara, a Bologna, cominciarono a modularsi canzoni e sirventesi in lingua occitanica da trovatori italiani. Nè possiamo diminuire l'importanza di quel movimento primitivo, mentre lo stesso Dante, che riprese ne' suoi contemporanei il difetto di sentimento vero, riconobbe in Arnaldo Daniello il miglior fabbro del parlar materno, che in versi d'amore e prose di romanzi soverchiò tutti.

Nella Sicilia, isola ricca e beata, tra le fantastiche vicende e grandezze delle corti de' Normanni e degli Svevi, dove l'arte moresca ricamava il marmo, e disponeva portici e fontane, tra cui la tradizione ellenica s'addormiva in ozj soporiferi e profumati, in due forme di poesia amorosa si cominciò a tentare il verso dialettale del paese. Ardimento gentile, perchè meglio s'onora la patria e si canta d'amore nell' idioma proprio che nell' altrui. La forma aulica s'attenne peggiorando alle consuete maniere cavalleresche, e cercò vanamente innestarsi sull'albero secco provenzale, che veniva sempre più torcendosi e accartocciandosi negli ultimi fogliami. La forma popolare, in dispute, contrasti e pastorelle, fu quasi sempre fieramente realista, come i lampi di sensualità che fuggivano dagli occhi grecoarabi di quelle brune isolane.

Ma ecco il tempo che il giovine popolo italiano, avendo già chiuso co' suoi padri latini un grande periodo di storia, sente ch'è vicino a riaprirne un altro. Cammina sulle rovine de' monumenti caduti, anelando a porsi sul limitare dell' avvenire che sarà suo; e sdegnoso d'imitazioni, scruta nella coscienza propria qualche novità che lo faccia degno de' suoi destini. E cominciava la poesia d'amore nel volgare toscano. Dopo i primi rudimenti d'arte nazionale in Guittone e nel Guinicelli, si formava la bella scuola de' tre spiritualisti poeti, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e l'Alighieri. Nel dolce stil novo la donna assumeva quasi sempre qualità di cielo. L'amore, spennato, del vecchio paganesimo, e assiderato nelle forme di Provenza, rientrava ne' canti, con ventilare d'angeliche ali. La vaga e indeterminata idealità femminea de' trovatori diventò luce intorno alla fronte e all' anima di donna vera. Lo studio della vita, un caro nome di persona appartenente al popolo, lo stesso ordinamento politico delle genti toscane in Comune, ch' escludeva da un lato gli omaggi timidi del vassallaggio, e dall' altro le inaccessibili alterigie delle dame nelle corti e nei manieri, una cura nuova di esprimere il sentimento proprio a dettatura d'amore, furono le cagioni e gl' intenti del dolce stile. Però tutto questo non impedi che l'amore ritenesse dai Provenzali, ed accrescesse anche, per consuetudine e genialità di studj, una particolare tendenza al raziocinio speculativo; e si mantenesse le più volte tanto casto e riservato, che noi possiamo pensare a Madonna Bice, sposa del cavaliere de' Bardi e amata dall'Alighieri, senza sentire un urto tra il cuore e la mente.

Dalla Dorada di Tolosa venne la Mandetta; e per Firenze s'incontrava, nelle comitive di maggio e nella sirventese di Dante, Giovanna Primavera. Furono esse le angelicate del Cavalcanti, nè forse le sole. Ma non hanno neppure la piccola storia di Beatrice. Da qualche lieve particolarità e da alcune parole della Vita Nuova, sappiamo che furono donne vere, sebbene non si togliessero mai il velo che le adombrava. Forse Guido era tratto a idoleggiarle, più che d'altro, da vaghezza di filosofare dolcemente in amore. Era consapevole della potenza del suo dire. Sentiva che quei modi d'arte amorosa, comuni alla nuova scuola, gli s'illuminavano d' un'alba chiara di poesia delicata ed alta. Ma tenero e stizzoso, come dice il Villani, quanto pensatore arguto e composto, pervagava volontieri anche in altri amori, e sospirava alla freschetta foglia, sotto cui lo aspettavano le forosette che, ridendo, gli facevano dimenticare gli occhi della Tolosana.

Neppure a Cino mancò la pieghevolezza a variabili amori. Di che Dante lo riprese. Il disegno delle sue angelicate, benchè condotto sopra sembianze di donne reali, ha linee poco dissimili dalle idealità femminee consuete. Meno ispirato di Guido e di Dante, è più elegiaco e più affine al Petrarca. Confonde la sua Selvaggia di Vergiole colla nostalgia dell'Appennino, in una sola e accorata passione di lacrime e di canzoni. Eppure di quella sua fanciulla poco più di Guido e molto meno di Dante ci racconta. Ma la verità vibra in ogni nota. E quando Selvaggia fu morta, avrebbe voluto che l'anima di lei, volando al cielo dalla nativa montagna, fosse stati dall'amico Dante posta vicino a Beatrice.

Ho veduto qualche cosa in vita mia che m'ha suscitato nell'anima il senso d' un quasi divino sogno. E mi pareva che avrei potuto avvezzarmi a poco a poco a quell' ambiente insolito, e tornare a rigustarne in alcuni rari momenti di solitudine meditativa. Racconto impressioni da me provate nella città vostra, o Fiorentini, al convento di San Marco. Li dentro poco sono entrati i secoli a variare la disposizione monastica e a turbare i silenzj antichi. Salita appena la grande scala del cenobio, si vede in alto una Vergine Annunziata dell'Angelico. È una figura sottile, snella, di spalle magroline, di nobilissima fisonomia. È seduta, ma come volesse levarsi per un certo smarrimento virgineo che la turba. Quella fanciulla quasi incorporea, quella pargola maestosa, doveva spiccar nell'ombra della notte, al poco lume d'una lampada, in tutta l'altezza inverosimile della sua persona, spirando rispetto grande di sè e pensieri castissimi. Più oltre, in una cella oscura, pel fioco giorno ch'entra da una finestrella sul chiostro, ho veduta la Madonna bianca. Chi vede la Madonna bianca non la dimentica mai più. Gesù incorona la Madre: ambedue sono vestiti di schietto bianco. Maria par coperta con petali di gigli, e nel viso è una rosa pallida incarnatina. Il resto è aria e luce. Una nuvoletta chiara è seggio d'ambedue. Ciò che dà nell'occhio è il candore: ciò che tocca l'anima è il candore: non altro. Dicevo fra me: a che paragonerò io queste due immagini di tanta idealità? E non trovavo risposta al pensiero. Oggi la trovo alla Beatrice della Vita Nuova, e alla Beatrice palingenesiaca. Non si dipinsero mai creature più spirituali di quell'Annunziata e di quella Madonna bianca; non si cantò mai donna più spirituale di Beatrice.

Senonchè l'idealità squisita, il silenzio dei sensi, la grazia posta tutta nel gentil salutare, il gaudio posto tutto nella lode, la parsimonia del racconto, qualche rassomiglianza di questo amore cogli altri amori di donne angelicate contemporanee, e finalmente la traslazione di Beatrice defunta a rappresentare la scienza celeste, indussero alcuni commentatori, antichi e moderni, nell' opinione che Beatrice non fosse stata mai donna reale, ma un idolo puramente fantastico, od unicamente e sempre una personificazione allegorica. A dire il vero, questa opinione non ha allignato mai nell' animo mio. E però non sentii nè meraviglia nè letizia, quando il codice Ahsburnham nell' 86 ci diede l'ultima conferma della realtà storica di Beatrice, colle parole di Pietro di Dante che letteralmente traduco: «È da premettere che veramente una tal Madonna Beatrice « molto insigne per costumi e per bellezza, visse al tempo dell' au«tore nella città di Firenze, nata dalla casa di certi cittadini fio«rentini che si dicono Portinari. Finch' ella visse, Dante ne fu vagheggiatore e amatore, e fece in lode sua molte canzoni. Quando « fu morta, per renderne glorioso il nome, volle in questo poema assumerla il più delle volte come simbolo e tipo della teologia ». Doveva esser così, o noi non abbiamo mai avuto intelletto nè d'amore, nè di Dante, nè della natura umana. L'alta idealità che rifulge in Beatrice, non è negazione della persona sua vera. Idealità è splendore, col quale si manifesta all' amante e all' artista ogni cosa bella, nella vita della natura e dello spirito. È accrescimento di bellezza, fantasticamente intuita, alla bellezza reale. Prorompe come luce e calore, nell' accendersi della passione e del canto. L'artista giura che ogni maniera di perfezioni è nella persona diletta; non s'avvede ch' egli, amando e contemplando, eleva la donna all' amorosa idea della sua mente. Ella intanto ignora forse in gran parte la potenza sua ispiratrice sull' animo di lui. Ma l'ingenita verecondia e i decorosi costumi di Beatrice, più che la bellezza esteriore, fecero tanto degno ed efficace il suo dominio sul timido amico, che ne uscirono ambedue della volgare schiera, fortunati e solinghi autori d'una storia, divenuta estetica leggenda per coloro che chiamano antico il loro secolo.

Se l'idealità nasce nell' amore e s'affina, nessuna vita nuova cominciò mai dall' allegoria. Essa venne più tardi, Beatrice si levò a donna simbolica, rimanendo insieme donna reale e ideale, quando era già passata su quella dolce storia giovanile l'ala virginea della

morte; quando Dante senti il bisogno di vestire con forme più dotte, più durevoli e d'importanza universale, le visioni e i ricordi del tempo fuggito; e di confondere un castissimo e perseverante amore a tutti gli altri forti e virili amori sopravvenienti. Il primo senso con cui egli apprese la bellezza, fu la passione vera: le lacrime, la pietà, lo struggimento della persona ne fecero fede, poichè furono e sono in ogni tempo indubitati segnali d' interno ardore. Negare a Dante d'avere amato sinceramente e nobilmente la bella creatura che lodò nei canti, è un diminuirlo non del capo ma del cuore. E questa repugnanza non basta. V' è una folla di prove minute, costanti, crescenti, nella Vita Nuova, nel Convito, nella Commedia, nella stessa poetica corrispondenza di Dante con amici e congiunti, come Guido Cavalcanti, Cino e Forese, che ne assicurano della realtà storica di Beatrice. Nè è da escludersi la contesa testimonianza del Boccaccio. Per quanto egli avesse avuto la testa feconda di novelle, quella dell'amore di Dante per Beatrice sarebbe stata stranamente incredibile a Firenze, viventi gli stretti consanguinei dei Portinari e degli Alighieri. Ma più ripetute e diffuse s'incontrano le prove nella Vita Nuova e nella Commedia, opere unite fra loro per intimo legame, non altrimenti che l'adolescenza perugina di Raffaello ai suoi anni di Roma.

Chi legge la Vita Nuova dovrebbe porsi nelle condizioni d'animo in cui fu scritta: ingenuità ed amore. Bisogna tornar giovani di mente e d'entusiasmi, deponendo le abitudini scettiche e i sofismi dell'ipercritica. Bisogna non forzar mai la parola o la frase, oltre l'adagiato senso che le diede l'autore. E sarebbe ottimo avvedimento conservar questa disposizione nell'interpretare il poema. In ciò che riluce subito e spontaneo consiste il vero; nè di molte riprove ha sempre d' uopo la certezza. Con passo che segue e non previene, che seconda e non torce nè disvia, si dovrebbe accompagnare il Poeta. Nei luoghi oscuri ed ardui preferire di rimanere in prudente dubbiezza, pensando che l'artista ponesse talvolta a contrasti di chiarezze splendenti alcune volontarie caligini.

Ma nella Vita Nuova non è caligine alcuna. Il tenue dramma si spiega a questo sole, a queste primavere, per queste contrade, lungo i rivoli chiari delle campagne suburbane, sui balconi delle antiche case, e per le chiese fiorentine. Dante sdoppia se stesso in uno che piange ed ama, e in un altro che consiglia e conforta; si

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