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mpere, grandissima quantità ità della patria rifiutare, diRomani cittadini, non l'oro, tori dell'oro posseder voleala sua mano propria incenfallate avea il colpo che per a pensato avea? Chi dirà di adicatore del suo figliuolo a more del pubblico bene, senza io ciò avere sofferto? e Bruto ilmente? Chi dirà de' Decii che posero la loro vita per hi dirà del cattivato Regolo, emandato a Roma per comresi Cartaginesi a sè e agli Romani, avere contra sè per ma, dopo la legazion ritratta, solo da umana natura mosso?

Quinzio Cincinnato fattto tolto dall'aratro, dopo il temcio, spontaneamente quello allo arare essere tornato? Chi nillo, sbandeggiato e cacciato sere venuto a liberare Roma suoi nemici, e dopo la sua spontaneamente essere torio per non offendere la senatà, senza divina istigazione? mo petto di Catone, chi pre. te parlare? Certo maggiorare di te non si può, che tauitare Jeronimo, quando nel ella Bibbia, là dove di Paolo che meglio è tacere che poco manifesto essere dee, rimemvita di costoro e degli altri dini, non senza alcuna luce della à, aggiunta sopra la loro buona sere tante mirabili operazioni anifesto essere dee, questi ecni essere stati strumenti, colli zedette la divina Provvidenza ano Imperio, dove più volte raccia di Dio essere presenti. se Iddio le mani proprie alla dove gli Albani colli Romani pio per lo capo del regno comquando uno solo Romano nelle la franchigia di Roma? Non to le mani proprie, quando li i, tutta Roma presa, prendeano ampidoglio di notte, e solamente 'un' oca fe' ciò sentire? E non o le mani, quando per la guerra

d'Annibale, avendo perduti tanti cittadini che tre moggia d'anella in Affrica erano portate, li Romani vollero abbandonare la terra, se quello benedetto Scipione giovane non avesse impresa l'andata in Affrica per la sua franchezza? E non pose Iddio le mani, quando uno nuovo cittadino di piccola condizione, cioè Tullio, contro a tanto cittadino quanto era Catilina, la Romana libertà difese ? Certo sì. Per che più chiedere non si dee a vedere, che spezial nascimento e spezial processo da Dio pensato e ordinato fosse quello della santa Città. E certo di ferma sono opinione, che le pietre che nelle mura sue stanno siano degne di reverenza; e 'l suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per gli uomini è predicato e provato.

VI. - Di sopra nel terzo Capitolo di questo Trattato promesso fu di ragionare dell' altezza della Imperiale Autorità e della Filosofica. E però, ragionato della Imperiale, procedere oltre si conviene la mia digressione a vedere di quella del Filosofo, secondo la promissione fatta. E qui è prima da vedere quello che questo vocabolo vuol dire; perocchè qui è maggior mestiere di saperlo, che sopra lo ragionamento della Imperiale autoritade, la quale per la sua Maestà non pare essere dubitata.

È dunque da sapere che Autorità non è altro che atto d'Autore. Questo vocabolo, cioè Auctore, senza questa terza lettera c, può discendere da due principii: l'uno si è d' un verbo, molto lasciato dall'uso in grammatica, che significa tanto quanto legare parole, cioè AUIEO. E chi ben guarda lui nella sua prima voce, apertamente vedrà che ello stesso lo dimostra, che solo di legami di parole è. fatto, cioè di sole cinque vocali, che sono anima e legame d'ogni parola; e composto d'esse per modo volubile, a figurare immagine di legame. Chè, cominciando dall'A, nell' U quindi si rivolve, e viene diritto per I nell' E, quindi si risolve e torna nell' O; sicchè veramente immaginan questa figura A, E, I, O, U, la qual'è figura di legame. Ed in quanto Autore viene e discende di questo verbo, si prende solo per li Poeti, che coll' arte musaica le loro parole hanno legate: e

di questa significazione al presente non s'intende.

L'altro principio, onde Autore discende, siccome testimonia Uguccione nel principio delle sue derivazioni, è uno vocabolo greco che dice Autentin, che tanto vale in Latino, quanto degno di fede e d' obbedienza. E così Autore, quinci derivato, si prende per ogni persona degna d'essere creduta e obbedita. E da questo viene quello vocabolo, del quale al presente si tratta, cioè Autoritade; per che si può vedere che Autoritade vale tanto, quanto atto degno di fede e d'obbedienza.

Manifesto è che Aristotile sia degnissimo di fede e d'obbedienza; e che le sue parole sono somma e altissima autoritade, così provare si può. Intra operarii e artefici di diverse arti e operazioni, ordinati a una operazione o arte finale, l'artefice ovvero operatore di quella massimamente dee essere da tutti obbedito e creduto, siccome colui che solo considera l'ultimo fine di tutti gli altri fini. Onde al cavaliere dee credere lo spadaio, il frenaio e 'l sellaio e lo scudaio, e tutti quelli mestieri che all'arte di cavalleria sono ordinati. E perocchè tutte le umane operazioni domandano uno fine, cioè quello della umana vita, al quale l'uomo è ordinato, in quanto egli è uomo; il maestro e l'artefice che quello ne dimostra e considera, massimamente ubbidire e credere si dee; e questi è Aristotile: dunque esso è degnissimo di fede e d'obbedienza. Ed a vedere come Aristotile è Maestro e Duca della ragione umana, in quanto intende alla sua finale operazione, si conviene sapere che questo nostro fine, che ciascuno disia naturalmente, antichissimamente fu per li savi cercato. E perocchè li desideratori di quello sono in tanto numero, e gli appetiti sono quasi tutti singolarmente diversi, avvegnachè universalmente si è uno, pur malagevole fu molto a scerner quello, dove direttamente ogni umano appetito si riposasse.

Furono dunque filosofi molto antichi, delli quali primo e principe fu Zenone, che videro e credettero questo fine della vita umano essere solamente la rigida Onestà; cioè rigidamente, senza rispetto alcuno, la Verità e la Giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla

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strare allegrezza, di nulla passione avere sentore. E difiniro così questo Onesto: quello che senza utilità e senza frutto per sè di ragione è da laudare. E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici: e fu di loro quello glorioso Catone, di cui non fui di sopra oso di parlare.

Altri filosofi furono, che videro e credettono altro che costoro; e di questi fu primo e principe uno filosofo, che fu chiamato Epicuro, che veggendo che ciascuno animale, tosto ch'è nato e quasi da Natura dirizzato nel debito fine, che fugge dolore e domanda allegrezza, disse questo nostro fine essere Voluptade (non dico voluntade, ma scrivola per p); cioè diletto senza dolore. E però tra 'l diletto e 'l dolore non ponea mezzo alcuno, dicendo che Voluptade non era altro che non dolore; siccome pure Tullio recitare nel primo di Fine de' Beni. E di questi, che da Epicuro sono Epicurei nominati, fu Torquato, nobile Romano, disceso dal sangue del glorioso Torquato, del quale feci menzione di sopra.

Altri furono, e cominciamento ebbero da Socrate, e poi dal suo successore Platone, che ragguardando più sottilmente, e veggendo che nelle nostre operazioni si potea peccare e si peccava nel troppo e nel poco, dissero che la nostra operazione, senza soperchio e senza difetto, misurata col mezzo per nostra elezione preso, ch'è Virtù, era quel fine, di che al presente si ragiona; e chiamârlo Operazione con virtù. E questi furono Accademici chiamati, siccome fu Platone e Speusippo suo nipote chiamati così per lo luogo, dove Platone studiava, cioè Accademia; nè da Socrate non presero vocabolo, perocche nella sua filosofia nulla fu affermato.

Veramente Aristotile, che Stagirita ebbe soprannome, e Senocrate Calcidonio suo compagno, per l'ingegno quasi divino, che la Natura in Aristotile messo avea, questo fine conoscendo per lo modo Socratico quasi ed accademico, limarono e a perfezione la filosofia morale ridussero, e massimamente Aristotile. E perocchè Aristotile cominciò a disputare andando qua e là, chiamati furono (lui, dico, e li suoi compagni) Peripatetici, che tanto vale quanto Deambulatori. E perocchè la perfezione di questa Moralità per Aristotile

O nome delli Accademici atti quelli che a questa o, Peripatetici sono chiaesta gente oggi il reggido in dottrina per tutte appellare quasi cattolica e vedere si può, Aristotile -e e conducitore della gente D. E questo mostrare si

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> ricogliendo, è manifesto tento, cioè che l'Autorità mmo, di cui s'intende, sia o vigore. E non repugna mperiale: ma quella senza losa; e questa senza quella non per sè, ma per la della gente: sicchè l' una giunta, utilissime e pienisgni vigore. E però si scrive Sapienza: Amate il lume a, voi tutti che siete dinanzi oè a dire: Congiungasi la rità colla imperiale a bene te reggere. Oh miseri, che reggete! e oh miserissimi, e! chè nulla filosofica autonge colli vostri reggimenti, -io studio nè per consiglio; i si può dire quella parola aste: 'Guai a te, terra, lo ciullo, e li cui principi da ano; e a nulla terra si può che seguita: Beata la terra obile, e li cui principi cibano a bisogno e non a lussuria.' nte, nemici di Dio, a' fianchi, rghe de' reggimenti d'Italia e dico a voi, Carlo e Federigo altri principi e tiranni; e a lato vi siede per consiglio ; te quante volte il dì questo mana vita per li vostri considditato. Meglio sarebbe a voi, ne volare basso, che come nibne rote fare sopra cose vilis

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oich'è veduto quanto è da Autorità Imperiale e la Filopaiono aiutare le proposte opiritornare al diritto calle dello esso. Dico adunque che questa nione del vulgo è tanto durata, altro rispetto, senza inquisi

zione d'alcuna ragione, gentile è chiamato ciascuno che Agliuolo sia o nipote d'alcuno valente uomo, tuttochè esso sia da niente. E questo è quello che dice: Ed è tanto durata La così falsa opinione tra nui, Che l'uom chiama colui Uomo gentil, che può dicere: I' fui Nipote o figlio di cotal valente, Benchè sia da niente. Per che è da notare che pericolissima negligenza è a lasciare la mala opinione prendere piede; chè così come l'erba multiplica nel campo non cultivato, e sormonta e cuopre la spiga del formento, sicchè, disparte agguardando, il formento non pare; e perdesi il frutto finalmente; così la mala opinione nella mente non gastigata nè corretta cresce e multiplica, sicchè la spiga della ragione, cioè la vera opinione, si nasconde e quasi sepulta si perde. Oh come è grande la mia impresa in questa Canzone, a volere omai così trafoglioso campo sarchiare, com'è quello della comune sentenza, sì lungamente da questa cultura abbandonata! Certo non del tutto questo mondare intendo, ma solo in quelle parti, dove le spighe della ragione non sono del tutto sorprese, cioè coloro diriz. zare intendo, ne' quali alcuno lumetto di ragione, per buona loro natura, vive ancora; chè dagli altri tanto è da curare, quanto di bruti animali; perocchè non minore maraviglia mi sembra, reducere a ragione del tutto spenta, che reducere in vita colui che quattro dì è stato nel sepolcro.

Poichè la mala condizione di questa popolare opinione è narrata, subitamente, quasi come cosa orribile, quella percuote fuori di tutto l'ordine della reprovazione, dicendo: Ma vilissimo sembra, a chi 'l ver guata, a dare a intendere la sua intollerabile malizia, dicendo costoro mentire massimamente; perocchè non solamente colui è vile, cioè non gentile, che disceso di buoni è malvagio, ma eziandio è vilissimo e pongo esemplo del cammino mostrato. Dove a ciò mostrare far mi conviene una quistione, e rispondere a quella in questo modo. Una pianura è, con certi campi e sentieri; con siepi, con fossati, con pietre, con legname, con tutti quasi impedimenti, fuori delli suoi stretti sentieri. E nevato è sì, che tutto cuopre la neve e rende una figura in ogni parte,

sicchè d'alcuno sentiero vestigio non si vede. Viene alcuno dall'una parte della campagna, e vuole andare a una magione ch'è dall'altra parte, e per sua industria, cioè per occorgimento e per bontà d'ingegno, solo da sè guidato, per lo diritto cammino si va là dove intende, lasciando le vestigie de' suoi passi dietro di sè. Viene un altro appresso costui e vuole a questa magione andare, e non gli è mestiere se non seguire le vestigie lasciate; e per suo difetto il cammino, che altri senza scorta ha saputo tenere, questo scôrto erra, e tortisce per li pruni e per le ruine, ed alla parte dove dee non va. Quale di costoro, si dee dicere valente? Rispondo: quello che andò dinanzi. Quest' altro come si chiamerà? Rispondo: vilissimo. Perchè non si chiama non valente, cioè vile? Rispondo: perchè non valente, cioè vile, sarebbe da chiamaro colui che, non avendo alcuna scorta, non fosse bene camminato ; ma perocchè questi l'ebbe, lo suo errore e 'l suo difetto non può salire; e però è da dire non vile, ma vilissimo. E così quelli che dal padre o da alcuno suo maggiore di schiatta è nobilitato, e non persevera in quella, non solamente è vile, ma vilissimo, e degno d'ogni dispetto e vituperio più che altro villano. E perchè l'uomo da questa infima viltà si guardi, comanda Salomone a colui che valente anticessore ha avuto, nel vigesimo secondo Capitolo de' Proverbi: Non trapasserai i termini antichi, che posero li padri tuoi;' e dinanzi dice, nel quarto Capitolo del detto Libro: La via de' giusti, cioè de' valenti, quasi luce splendiente procede, e quella delli malvagi è oscura, ed essi non sanno dove rovinano.' Ultimamente, quando si dice: E tocca a tal, ch'è morto, e va per terra, a maggiore detrimento dico questo cotal vilissimo essere morto, parendo vivo. Dov'è da sapere che veramente morto il malvagio uomo dire si può, e massimamente quegli che dalla vita del buono suo antecessore si parte. E ciò si può così mostrare: Siccome dice Aristotile, nel secondo dell' Anima, vivere è l'essere delli viventi; e perciocchè vivere è per molti modi (siccome nelle piante vegetare, negli animali vegetare e sentire, negli uomini vegetare, sentire, muovere e ragio

nare ovvero intendere), e le cose si deono denominare dalla più nobile parte, manifesto è, che vivere negli animali è sentire (animali dico bruti), vivere nell'uomo è ragione usare. Dunque se vivere è l'essere dell'uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto. E non si parte dall'uso della ragione chi non ragiona il fine della sua vita? E non si parte dall'uso della ragione chi non ragiona il cammino che far dee? Certo si parte. E ciò si manifesta massimamente in colui che ha le vestigie innanzi, e non le mira; e però dice Salomone nel quinto Capitolo dei Proverbi: 'Quegli morrà che non ebbe disciplina, e nella moltitudine della sua stoltizia sarà ingannato;' cioè a dire: Colui è morto, che non si fe' discepolo, e che non segue il Maestro; e questo è vilissimo. E di quello potrebbe alcuno dire: come è morto e va? Rispondo, che è morto uomo, ed è rimaso bestia. Chè, siccome dice il Filosofo nel secondo dell' Anima, le potenze dell'anima stanno sopra sè, come la figura dello quadrangolo sta sopra lo triangolo, e lo pentagono sta sopra lo quadrangolo; così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la sensitiva. Dunque, come levando l'ultimo canto del pentagono, rimane quadrangolo e non più pentagono; così levando l'ultima potenza dell'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto. E questa è la sentenze del secondo verso della Canzone impresa, nella quale si pongono l'altrui opinioni. VIII. Lo più bello ramo che dalla radice razionale consurga, si è la discrezione. Chè, siccome dice Tommaso sopra a Prologo dell'Etica, conoscere l'ordine d'una cosa ad altra è proprio atto di ragione; e quest'è discrezione. Uno de' più belli e dolci frutti di questo ramo è la reverenza, che debbe al maggiore il minore. Onde Tullio nel primo degli Offici parlando della bellezza che in sull'onestà risplende, dice la reverenza essere di quella; e così come questa è bellezza d'onestà, così lo suo contrario è turpezza e menomanza dell'onesto: il quale con trario irreverenza ovvero tracotanza di cere in nostro Volgare si può. E però ess

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desimo luogo dice: Met■za di sapere quello che gli i lui, non solamente è di nte, ma di dissoluta;' che co dire, se non che arrouzione è sè medesimo non - è principio della misura aza. Perch'io volendo (con za e al Principe e al Filola malizia d'alquanti dalla per fondarvi poi suso la ità, prima che a riprovare pinioni proceda, mostrerò riprovando, nè contro alaestà, nè contro al Filosofo reverentemente. Che se in di tutto questo libro irrevestrassi, non sarebbe tanto o in questo Trattato; nel iltà trattando, me nobile e deggio mostrare. E prima non presumere contro alla Filosofo; poi mostrerò me re contro alla Maestà impe

que, che quando il Filosofo o che pare alli più, impossitto esser falso,' non intende ere di fuori, cioè sensuale, ma dentro, cioè razionale; conè 'l sensuale parere, secondo , sia molte volte falsissimo, te nelli sensibili comuni, là so spesse volte è ingannato. no che alla più gente il sole ezza nel diametro d'un piede: alsissimo, che, secondo il cerLa invenzione che ha fatto la one coll'altre sue arti, il diacorpo del sole è cinque volte llo della terra, e anche una a. Conciossiacosachè la terra metro suo sia seimila cinqueia, lo diametro del sole, che le apparenza appare di quan

piede, è trentacinque mila cinquanta miglia. Per che maristotile non avere inteso della pparenza. E però se io intendo ensuale apparenza riprovare, contro alla intenzione del Fi però nè la reverenza che a lui offendo. E che io sensuale aptenda riprovare è manifesto;

chè costoro che così giudicano, non giudicano se non per quello che sentono di queste cose che la fortuna può dare e torre; chè, perchè veggiono fare le paren. tele e gli alti matrimoni, gli edifici mirabili, le possessioni larghe, le signorie grandi, credono quelle essere cagioni di Nobiltà, anzi essa Nobiltà credono quelle essere. Che s'elli giudicassono coll'apparenza razionale, direbbono il contrario, cioè la Nobiltà essere cagione di queste, siccome di sotto in questo Trattato si vedrà.

E come io, secondochè veder si può, contro alla reverenza del Filosofo non parlo, ciò riprovando; così non parlo contro alla reverenza dello Imperio e la ragione mostrare intendo. Ma perocchè dinanzi all'avversario si ragiona, il rettorico dee molta cautela usare nel suo sermone, acciocchè l'avversario quindi non prenda materia di turbare la verità. Io, che al volto di tanti avversari parlo in questo Trattato, non posso brevemente parlare. Onde, se le mie disgressioni sono lunghe, nullo si maravigli. Dico adunque che, a mostrare me non essere irreverente alla maestà dello Imperio, prima è da ve. dere che è Reverenza. Dico che Reverenza non è altro, che confessione di debita' suggezione per manifesto segno. E veduto questo, da distinguere è intra lo irreverente e non reverente. Irreverente dice privazione, e non reverente dice negazione. E però la irreverenza è disconfessare la debita suggezione per manifesto segno : là non reverenza è negare la non debita suggezione. Puote l'uomo disdire la cosa doppiamente: per un modo puote l'uomo disdire tnonf offendendo alla verità, quando della debita confessione si priva; e questo propriamente è disconfessare: per altro modo può l'uomo disdire non offendendo alla verità, quando quello, che non è, non si confessa; e questo è proprio negare; siccome disdire l'uomo sè essere del tutto mortale, è negare propriamente parlando. Per che se io niego la reverenza dello Imperio, io non sono irreverente, ma sono non reverente; che non è contro alla reverenza, conciossiacosachè quello non offenda, siccome lo non vivere non offende la vita, ma offende quella la morte, ch'è di quella privazione; onde altro è la

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