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gusto, e scrive: « Dove trovare a giudice un Augusto? Ben uno ne ha l'Italia, anzi sol uno il mondo intero: Roberto, re di Sicilia. O Napoli avventurata, che per incomparabile felicitá l'unico. splendore sortisti del secol nostro!» Le quali parole non indicano certo una scarsa stima e, quale che fosse lo scopo che il Petrarca si proponesse scrivendole, ci attestano come già viva in lui, fin dal 1326, quella riverenza verso re Roberto, alla quale non venne mai meno; tanto che può con sicurezza attestarsi essere stato quel regnante, agli occhi del nostro Poeta, l'ideale del perfetto monarca. È tuttavia possibile che il Petrarca da giovane avesse idee imperialiste, ma non certo molto determinate, se gli permettevano di lodare colui che all'impresa di Enrico VII, sceso a restaurare l'impero, era stato il principale oppositore, mentre d'altra parte la riverenza professata nella lettera al Boccaccio del 1363, a Federico II,

Nel Rerum memorandarum (lib. I, pag. 394, ediz. cit.), il Petrarca afferma di conoscere le discordi opinioni degli uomini circa quel Re, ma dichiara che queste non lo distoglieranno dal citarlo come esempio di varie virtú, quando gli sembrerà giusto di ciò fare. E non solo re Roberto, ma anche Carlo II è lodato come « di cuore veramente Cesareo », tale « che nulla mai seppe negare ad alcuno » (Famil., III, pag. 450). È appena necessario ricordare quanto diverso suoni per entrambi il giudizio di Dante e specialmente per Carlo II.

non gli impediva di reputare tiranno l'Aragonese ' di Sicilia, nelle cui vene scorreva pure il sangue di quell' imperatore. Vedasi adunque se non sia un dir troppo l'affermare che il Petrarca da giovane ebbe la fede « dei Ghibellini e dei Guelfi bianchi; fede politica dantesca, o poco diversa », ' mentre l'unico documento sincrono ce lo palesa cosí caldo ammiratore del capo dei guelfi.

Un altro sentimento invece, se vogliamo prestar fede al Petrarca stesso, era, fin da quei tempi, assai vivo nel suo animo: l'aborrimento dalla Corte d'Avignone, l'odio contro quei pontefici e quei prelati che, dall'avvilimento di Roma deserta, traevano motivo di compiacenza, quanto si dolevano del vigoroso grandeggiare delle altre parti d'Italia. Narra infatti il Petrarca nella XV delle « Sine titulo » o « Sine nomine » che dir si voglia, che ardendo (circa il 1320) la guerra promossa da Giovanni XXII contro Milano, non mancò, tra i cortigiani d'Avignone, chi consigliasse il papa di togliere all'Italia e il papato e l'impero e di questo consigliere, uno dei tanti nemici di Roma e dell'Italia di quella Corte, dice il Petrarca << tunc faciem puer noram et, quantum poterat aetas, invalido animo execrabam ». Aveva dunque contratto

e v.

1 Epistole metriche, v. 2o, pag. 286 (Milano, 1831). II, pag. 190.

2 ZUMBINI, op. cit., pag. 75.

fin dal 1320, 0 giú di lí, circa a sedici anni, il Petrarca, contro la Corte d'Avignone, quel fiero disdegno, che fu in lui cosí vivo ed ardente poi, per tutta la vita, e che ebbe l'ultimo suggello nelle fiere pagine della « Invectiva ».

Ad ogni modo, il primo scritto del Petrarca, che abbia carattere politico, è l'epistola poetica ad Enea Tolomei1, nell'occasione della discesa in Italia di Giovanni di Boemia, nel 1333; ma, sebbene in essa sia ricordato l'antico dominio degl'italiani sul mondo, tanto che la guerra, recata allora dalle armi francesi, è considerata dal Petrarca quale un atto di fellonia,

en, hoc tempore surgit In dominum servus.... » ; 2

dell'Imperatore non è fatto cenno né tampoco del Papa, non solo, ma ogni speranza di riscossa è posta dal Poeta, non già in un qualsiasi veltro venturo, o Cesare o Papa, non negli inalienabili diritti di Roma, ma soltanto nella concordia degli italiani .

Certa animo spes una sedet: fors impia, bella
cessabunt, subitum pigeat dum cernere regem;
nam gladios ac pila tenet quis terruit orbem
Itala posteritas, exemplis dives avorum.

ed. cit.

Epist. poet. (in Poemata minora), v. II, pag. 35,

2 Ibid., pag. 40.

Ibid., pag. 48.

Che il Poeta non invochi alcun Cesare tedesco in Italia, è spiegato dallo Zumbini col fatto che l'impero era allora vacante'; e sta bene; tuttavia, quale miglior occasione per deplorarne appunto la vacanza, di questa, nella quale l'Italia appariva tanto bisognosa d'una difesa ? Scende, per dirla con imagini care al Petrarca, giú dalle Alpi, il lupo, divoratore del gregge italico e il Poeta è costretto ad invocar dal gregge stesso, poiché manca il pastore, la forza di resistere all'invasore; ma come mai non gli uscí dal cuore un grido di protesta, un lamento contro la vacanza della sedia imperiale, mentre dei terribili effetti di essa egli aveva una solenne prova nell'Italia devastata da un ingordo straniero? Nulla di tutto questo; contro le armi dell'invasore egli esorta, come cosa di per sé esistente, conscia del suo valore, e, pur che voglia, bastante a sé stessa, l'Italia e scrive:2

Nos ubi? quo virtus? seu quo mavortius ardor? Quis vetat aut armare manus? aut volvere campis quadrupedes? Coelo quis tela? quis aequore classes ?

Nulla si opponeva a un tale generoso risveglio d'Italia, nulla; l'assenza di Cesare e Roma deserta, qui, sono del tutto dimenticate. E si noti che il Petrarca, in quella lunga epistola, si fa anche

ZUMBINI, op. cit., pag. 181. 2 Epist. cit., pag. 50.

a ricercare le cause della rovina d' Italia e le trova nelle discordie degl'italiani e, filosofando, nei molti odî che l'Italia ha suscitato, con l'esercitare il suo antico dominio sul mondo '. Egli spera che la concordia unisca ancora gl' italiani e allora chi si opporrà ad essi? E vede, nell'accesa fantasia, l'Italia di bel nuovo signora delle genti. Ma di Cesare, ripeto, non è fatta parola! Ora, o io m'inganno, o qui noi dobbiamo già riconoscere due fatti. Il primo è, che il Petrarca, costretto dalla realtà delle cose ad opporre allo straniero invasore non delle vane ombre, ma resistenza vera d'uomini vivi, è tratto a riconoscere l'Italia del suo tempo, di necessità avversa ai barbari stranieri e bisognosa di difendersi da essi; il secondo, che al concetto chiaro e preciso del sacro romano impero si viene qui sostituendo, come vedremo anche più innanzi, quella tendenza, che si potrebbe chiamare imperialismo, per la quale l'Italia deve, per forza ingenita, dominare sulle altre genti; tendenza che trovò una cosí diffusa e continua eco nella nostra letteratura, ma che si deve tener distinta dalla fede nel sacro romano impero, dalla quale dista di tanto, di quanto una indeterminata e sentimentale aspirazione è lontana da una chiara e positiva affermazione di diritto.

1 Epist. cit., pag. 42.
2 Ibid., pag. 52.

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