indusse in Roma l'amore delle libere îstituzioni. Vi è lodato il secondo Bruto, che Dante pone in bocca a Lucifero : animosaque pectora Bruti ante oculos habeo, stupeoque ubi condere ferrum audeat Tra gli eroi romani è fatto segno di grandissime lodi Pompeo, il rivale di Cesare; ben cinquanta esametri (e la rassegna dell'epoca, che va da Annibale alla morte di Augusto, non ne comprende che centocinquanta) sono dedicati a lui; appena venti a Cesare, e la metà sono in biasimo di colui, che osò spegnere la libertà romana: O felix, si forte modum sciat addere ferro!? nesciet heu! noletque miser; sed turbine mentis victrices per cuncta manus in publica vertit viscera, civili foedans externa cuore proelia et emeritos indigno Marte triumphos. Giudizio in tutto conforme a quello che il Petrarca aveva già, in una lettera a Stefano Colonna il giovane, espresso con parole anche più gravi, deplorando come gravissimo errore quello di Pompeo, che a Durazzo si era lasciato sfuggir vivo di mano Cesare, lasciando cosí libero il corso alle maggiori sventure che s'abbattessero mai sulla Ibid., 1. II, vv. 155-151. 2 Ibid., 1. II, vv. 228-232. repubblica. « Da questo, egli scrive, ebbero origine le pubbliche calamità della Tessaglia e la miseranda morte dello stesso guerriero in Egitto e quindi la fine in Africa di Catone e della libertà spenta con lui, la dolorosa strage in Ispagna di quei che rimasero ed in Roma lo spogliato tesoro..... Indi gli ostinati assedî di Perugia e di Modena e l'eccidio crudelissimo dei Parmigiani.... e Farsaglia un' altra volta bagnata del nostro sangue.... Indi finalmente la lunga serie dei danni immensi che infino ai nostri tempi miseramente si estese.... dei quali.... non è dato di prevedere o di sperare la fine»'. Ho voluto citare intero questo tratto, per un confronto, che non sarà certo privo di valore, giacché i fatti qui lamentati come deplorevoli effetti dell'aver Pompeo lasciato libero Cesare, sono, come ognun vede, quelli stessi che Dante ricorda e glorifica tra le migliori benemerenze dell'aquila imperiale : Quel che fe' poi ch'egli usci di Ravenna e saltò Rubicon, fu di tal volo poi vêr Durazzo e Farsalia percosse ▲ Famil., 1. III, 3a, pag. 411; la lettera è del 1333. scese folgorando a Iuba, E, poiché in questi versi è ricordato Cassio, non vogliamo tralasciar di ricordare che il Petrarca, come non condanna Bruto, cosí non seppe biasimare Cassio. «Ti sovverrà d'aver letto come quel Cassio, il quale unitamente ad altri con mano audace (cui non oso chiamar scellerata per non diffinir con una parola la dubbiosa natura di quell'azione) trafisse Cesare.... ». 2 Se nell'Africa adunque, per tornare ad essa, è glorificato l'impero, non è però certo glorificata la monarchia, effetto dell'ambizione e della violenza del suo fondatore, la cui vittoria fu causa, secondo il Petrarca, della rovina dell'impero stesso. Giustamente quindi asserí lo Zumbini che « ideale del Petrarca fu sempre l'antica repubblica romana » * e non so come possa il Brizzolara parlare, trattando di questo periodo della vita del nostro 3 1 Paradiso, c. VI. 2 Senili, lib. VIII, 3a. 3 ZUMBINI, op. cit., pag. 96. 4 + BRIZZOLARA, v. VIII, pag. 541, op. cit. Anche il GEIGER (op. cit., pag. 165): « Sembra che ne' suoi primi anni non parteggiasse affatto per l'Imperatore ». poeta, d'ideali monarchici. Segue nell' Africa il Petrarca, toccando d'Augusto e della pace mondiale e poi del precipitar dell'impero, rattenuto per poco dagli sforzi dei buoni imperatori, nel novero dei quali non è posto, certo per la sua origine spagnuola, quel Traiano che Dante, seguendo una pia leggenda, ha collocato nel suo Paradiso, e soli e ultimi sono ricordati Vespasiano e Tito. Il succedersi sul trono di Roma degli imperatori d'origine straniera è considerato dal Petrarca come una violenza ed una intollerabile vergogna: sceptra decusque imperî, tanto nobis fundata labore, externi rapient, Hispanae stirpis et Afrae. Quanto un simile lamento contrasti con una bene intesa dottrina dell'impero universale, quale ad esempio quella di Dante, non è chi non veda, e qual giudizio dovesse fare il Petrarca dei Cesari tedeschi, dalle parole citate risulta, mi pare, assai chiaramente. In lui prevale invece il sentimento della italianità e, poiché l'impero non dovrebbe esistere, secondo lui, che per la grandezza di Roma e la gloria d'Italia, la presenza degli stranieri sul trono dei Cesari gli pare un brutto controsenso Africa, 1. II, vv. 274-278. un'usurpazione: sono gli schiavi seduti sul soglio eretto dal sudore e dal sangue dei loro dominatori. Peggio quand'esso passi nelle mani dei tedeschi, quando La contemporanea presenza in Roma di Pietro e di Cesare, i due Soli, il sacro romano impero insomma, non sono nemmeno ricordati in questa rassegna delle glorie e delle sventure romane. Né io riesco a comprendere come mai, dopo d'aver passati in rassegna nel suo mirabile studio sull'Africa, anche i passi che ho piú sopra trascritti, possa lo Zumbini scrivere che per il Petrarca << l'impero tedesco.... era sempre romano e sempre sacro ». Mentre dettava quei versi dell'Africa intanto, no, di certo. A consolar di tanta iattura il figlio, Scipione gli predice la perennità dell' impero romano. Ma quale perennità! A Roma è concessa l'immortalità del « dolce amico» di Aurora, la squallida sede dell' impero vincetur ab annis rimosoque situ paulatim fessa senescet Ibid., vv. 292-293. I tedeschi gli sembravano i meno adatti a regger l'impero (Famil., pagg. 249-50). 2 ZUMBINI, op. cit., pag. 227. 3 Africa, 1. II, vv. 301-303. |