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d'una possibile monarchia italiana impersonata in quel Sovrano. In essa adunque il Petrarca espone il concetto che se mai, come gli pare opportuno, l'Italia dovesse unirsi in monarchia, degnissimo capo di quella sarebbe stato il Re di Napoli. << Io non mi lascio pur dubitare essere la Monarchia quella che tra le forme di governo è piú acconcia a riunire e ristorare le forze degli Italiani, cui la ferocia delle guerre civili ebbe disperse. E come questo hommi io per certo e riconosco alla fiacchezza nostra necessario il braccio d'un re, cosí vorrai tu credermi se dico fra tutti i re nessuno da me potersene desiderare migliore del nostro.... ». Ammettiamo pure che questa lettera non abbia una grande importanza, ma conviene pur riconoscere che un'idea simile sarebbe parsa a Dante una profanazione e che il Petrarca dà prova d'una assai tepida speranza d'un risorgimento dell'impero, se poté desiderare cosí aumentata la grandezza di quel Re, che all'attuazione di quel sogno era stato il principale ostacolo e che, cresciuto in potenza, l'avrebbe reso, con l'unità d'Italia, del tutto inutile, e che finalmente qui l'imperialismo cede il posto alla concezione, sia pure fuggevole, d'un' Italia di per sé stante, e al sogno imperiale si contrappone il concetto nazionale.

Se questa lettera non prova proprio decisamente il guelfismo angioino del Petrarca, prova

tuttavia, e piú avanti vedremo di meglio, che l'impero non era il suo fine supremo, bensí fine supremo era la felicità d'Italia e, come su questo proposito egregiamente scrive il Filippini, <«< i mezzi si possono abbandonare e cambiare quando non corrispondono allo scopo e ve ne siano altri piú opportuni ».

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Concludendo ora, per quanto risguarda adunque e opinioni politiche del nostro Autore, prima del suo incontro con Cola di Rienzi, ci pare di poter asserire quanto segue. Che il Petrarca cioè desiderò e sollecitò il ritorno dei pontefici a Roma, mostrando di ripromettersi da essi anche quei vantaggi che sono effetto del governo civile; che, pur deplorando l'assenza di Cesare da Roma, egli vagheggiava come perfetta forma di governo e felicissimo e gloriosissimo stato quello di Roma repubblicana, ritenendo causa prima della decadenza di quella grandezza la monarchia fondatavi da Cesare; che l' impero romano spettava a Roma e che con tal nome esso si sarebbe chiamato sempre e la traslazione di quell' autorità ai tedeschi era l'effetto d'un atto violento per il quale Roma era stata spogliata de' suoi diritti; spogliazione più di nome che di fatto, giacché l'impero era fatalmente insito in Roma stessa; che una tale

istituzione non era però da ritenersi assolutamente necessaria alla felicità e grandezza d'Italia, né alla pace del mondo, ma come istituzione umana, destinata quando che sia a perire; talché non era andar contro i disegni della divina provvidenza lo sperare che l'Italia potesse tornar grande o per il concorde volere degli Italiani o per il forte braccio d'un monarca che ne avesse ravvivate le sorti. Quanto alle gare e divisioni politiche, che travagliavano allora l'Italia, non si può dire che il Petrarca vi prendesse parte alcuna, limitandosi a sognar nel passato e a deplorare il presente. Egli divenne attivo e di sognatore accennò a farsi milite d'un'idea, quando il caso lo fece incontrare con Cola di Rienzo.

III.

Il Petrarca e Cola di Rienzo

Nel 1343, sulla porta d'una chiesa in Avignone, a Francesco Petrarca, che avidamente lo ascoltava, Cola di Rienzo schiudeva i segreti suoi intendimenti, quanto gli bastava l'animo di fare, perché Roma tornasse all'antico luogo di dignità e grandezza e il Petrarca, ancora incerto di sognare, diviso tra la gioia, che il fermo parlare di quel

focoso apostolo suscitava nel suo animo, e la téma che a quelle magnifiche promesse non si mostrasse avversa la fortuna « che agli animosi fatti mal s'accorda », chiedeva trepidante a sé stesso: << oh se mai fosse... oh se mai potesse accadere... oh se mi desse il cielo di tanta impresa, di tanta gloria esser partecipe »'.

E fu vero! e da quando giunsero nel 1347 in Avignone le lettere che annunziavano l'affermarsi e il compirsi della rivoluzione romana, il Petrarca non cessò dal porsi con focose lettere d'esortazione, di lode, di consiglio, al fianco dell'animoso tribuno, incoraggiandolo all'opera.

Il Petrarca non aveva avuto fino allora, come abbiamo visto, un preciso programma politico né lo ebbe più tardi. Infatti chi ricercasse, altrimenti che per congettura, negli scritti del nostro Autore che cosa precisamente egli sperasse da Cola o per converso a quali ultimi fini mirasse il Tribuno, resterebbe certo deluso. L'hortatoria, che è pur sempre il documento più importante di quest'epoca fortunosa, non contiene che rallegramenti al popolo per la ricuperata libertà e, tra molte amplificazioni retoriche e i continui paragoni di Cola, terzo Bruto, coi più famosi eroi dell'antica libertà,

S. T. II (Famil., II, pag. 199).

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2 FILIPIINI, op. cit., v. XI, pag. 7 e 12.
5 Varie, 48a (Famil., V, pag. 397).

fiere invettive contro i nobili, che egli vorrebbe esclusi dal governo della cosa pubblica, come piú tardi ebbe pure a suggerire ai quattro cardinali riformatori dello stato di Roma; ma nulla che alluda ai fini precisi di quel movimento.

Tuttavia, poiché sappiamo, e queste lettere ce ne fanno testimonianza, che tra il Tribuno e il Poeta non c'era alcuna divergenza circa questi fini, è chiaro che noi li possiamo ricavare da quanto Cola veniva operando e scrivendo; osserveremo cosí nel Petrarca una mirabile concordanza di pensiero e d'azione, con quanto egli aveva fino a quel punto creduto e sperato.

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Credo anch'io col Filippini, che Cola sia stato l'ispiratore del Petrarca, colui che ha dato forma alle indeterminate aspirazioni del Poeta e che tramutò i vaghi sogni di quello in palpiti di generosa speranza. Tanto più è logico adunque che nelle opere e negli scritti del Tribuno cerchiamo l'oggetto e il contenuto della fede politica del Petrarca.

La prima parte dei provvedimenti di Cola risguardava il « buono stato » di Roma e mirava a toglier la città dalla soggezione dei baroni, sottomettendoli all'impero della legge comune per ridar quindi ai Romani la libertà e, purgando la città e le strade dai ladroni, anche la pubblica

1 FILIPPINI, op. cit., v. XI, pag. 7.

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