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che il Petrarca rappresentava in sé, si chinò prudente se non riverente l'Imperatore. Il colloquio fu assai cordiale; il Poeta aspettava però Cesare alla prova: «a diffinire qual Cesare ei sia.... le azioni e i fatti ci daran sicuro argomento....' »; tuttavia la sua vanità era soddisfatta. « Certo, egli scrive, che in questa congiuntura a nessun italiano venne ottenuto quello che a me, da Cesare invitato, pregato, scherzare, disputare con Cesare ». Ahimè, dove sono andati i superbi disdegni per «< i vergognosi avanzi delle spade romane! » E questa molla della vanità seppe troppo bene far agire nell'animo del nostro poeta il bonario ed accorto Boemo. Come finisse quella spedizione è noto. L'Imperatore, coronatosi a Roma, se ne tornò di gran fretta in Germania e il Petrarca lo salutò con una fiera lettera, nella quale gli faceva dire per bocca del padre e dell'avo: « Sarai a parole Imperatore dei Romani, ma in verità Re solamente di Boemia » 2. Bella e degna lettera la quale sola, nell'amarezza della delusione, mi sembra attestare che in realtà da quel freddo calcolatore il Petrarca avesse sperato quello che neppure il magnanimo e cavalleresco Enrico VII aveva potuto compiere. Ma troppo dissimili da essa le altre che seguono, le quali, ben Inngi dall'attestare, come

1 Famil., XIX, lett. 3a, pag. 161.

2 Ibid., XIX, 12a, pag. 202.

vorrebbe lo Zumbini ', la fede incrollabile del Petrarca nell'impero e nell'imperatore, attestano solo che al laccio della vanità il Poeta s'era lasciato prendere e che, passato quel primo momento di sdegno, non seppe mettersi per l'unica strada che gli restava; attendere cioè altri fatti che cancellassero quella vergogna in dignitoso silenzio, ma non perseguire, com'egli fece, l' indegno Cesare con lodi e titoli che suonano come altrettante adulazioni. Giacché, se rettamente egli aveva sentenziato che l'imperatore che delle cose italiane non si curava non era imperatore romano, ma re tedesco e se aveva salutato il Boemo fuggiasco dall'Italia col titolo di re di Boemia; quali altri fatti erano sopravvenuti per fargli mutar giudizio e indurlo a nuove speranze? Non era anzi il contegno di Carlo tale da togliergli anche le ultime che per caso gli fossero rimaste? Come può giudicarsi adunque fuor che una voluta illusione, una calcolata adulazione il credere che quell'« imperatore dei preti >> fosse, com'egli lo chiama, quasi comicamente, << supremo moderatore delle temporali bisogne » ? E che altro fuor che una pietosa menzogna il titolo d'imperatore romano del quale il Poeta stesso l'aveva, coerentemente alle proprie opinioni, che ora veniva miseramente rinnegando, ritenuto indegno? Finché il Petrarca sperò, quando

ZUMBINI, op. cit., pag. 84.

poteva aver qualche ragione di sperare e condannò, quando era giustificata dai fatti la condanna, io credo che sia giusto dar peso alle sue parole; ma quando, acconciandosi ai fatti, inganna con gli altri sé stesso e chiama imperatore romano Carlo IV, egli esce in una vuota formula, che attesta l'assenza di ogni politica idealità e lo vediamo piegarsi all'adorazione d'un « nome vano soggetto» che egli aveva mostrato di riconoscere come tale. Davvero che egli poteva ripetere di sé stesso, quel che già aveva scritto in una fa

mosa canzone

Quel che fo' veggio e non m'inganna il vero
mal conosciuto!

senza

Lungi dall'essere un'attestazione di fede nel decrepito (la parola è di Carlo IV) istituto dell'impero, quale era impersonato nel Re di Boemia, e il Petrarca ce ne porgerà un'altra prova, quelle lettere ci mostrano un'altra volta l'ingenita debolezza del nostro poeta, di quel Petrarca che una parola del Visconti bastò a trat

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? Non intendo con ciò di unirmi al coro di quanti hanno biasimato il Petrarca per il suo soggiornare presso i Visconti; non so ravvisare colpa alcuna nel Poeta per questo fatto, del quale assai bene lo scagionò, con assennatissime parole, il Novati (in Rivista d'Italia, anno VII, fasc. VII, pag. 145 6.).

tenere alla Corte di Milano, prima da lui con gravi parole biasimata, di che ebbero tanta ragione di meravigliarsi i suoi amici e sopra tutti il Boccaccio. Carlo ben lo seppe, ed ora con lettere amorevoli, ora donandogli una tazza d'oro, ora nominandolo conte palatino, ora facendogli annunciare dalla imperatrice Anna la nascita d'una sua bambina, lo tenne legato al proprio carro, che non era invero quello d'un trionfatore; e il Petrarca, sodisfatto nella propria vanità, solo reputava dover suo di rinnovare tratto tratto quelle sue inutili esortazioni all'Imperatore, perché scendesse in Italia, mentre però mostrava di ritenerlo, anche cosí negligente e non curante, e di titolo e di fatto imperatore dei romani. L'ultima di queste lettere è di poco posteriore al 1363'.

Nel 1368 Urbano V, da poco reduce a Roma, vi entrava da Viterbo dove s'era scontrato con Carlo IV che lo accompagnò « a piedi, reggendo le briglie del suo palafreno, umilmente fino a S. Pietro » 2. Cosi, mentre la sella era occupata da Pietro, Cesare « poneva mano a la bridella »! Il Petrarca parve allora ignorare che esistesse un

1 Famil., V, 120.

2 GREGOROVIUS, III, 494, op. cit.

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imperatore romano. In verità era quanto di meglio potesse fare! Quali fossero le sue ultime speranze e quale l'oggetto immutato della sua vera fede politica ci è detto nella Invectiva nella quale, pur facendo la debita parte all'orgo

1 Non credo davvero a quanto congettura lo Zumbini (op. cit., pag. 196) circa la esultanza del Petrarca alla notizia dell'ingresso in Roma di Urbano V e di Carlo IV nella forma descritta. Egli si fonda sopra una lettera di Coluccio Salutati che, descrivendo quell' ingresso, manifestava al Boccaccio la gioia che egli, il Salutati, ne aveva provata; fondamento, come ognun vede, assai poco solido. Meglio mi pare che si possa congetturare quel che il Petrarca provasse, allo spettacolo di quella umiliazione, da quanto egli stesso dice d'aver provato in un'occasione non diversa. In una sua lettera (Famil., v. 4, pag. 250) scrivendo a Neri Mo. rando di non so quale servile ossequio tributato da Carlo IV al Legato pontificio, cosí si esprime: <«< Or che direbbe quel grande fondatore della monarchia (Cesare) vedendo questo suo successore innanzi ad un umile sacerdote umiliarsi e rammentando che un di l'orgoglioso Re delle Gallie, venuto negli accampamenti supplice ai piè di Cesare, come Floro racconta, i regali adornamenti e le armi deposte : ' prendi, gli disse, son tue per-ché d'uom forte, tu fortissimo uscito sei vincitore?' Ben mille e mille de' cosifatti riscontri mi verrebbero sotto la penna, ché ricca di per sé stessa è la messe e fa eloquenti lo sdegno: pure faccio forza per tenermi a freno, né questo pure che dissi avrei detto se proprio la collera non me l'avesse cavato di bocca ». Questo scriveva nel 1356; e sdegno e collera non minori è probabile che egli provasse nel 1368 all'annuncio di quest'altra umiliazione di Cesare!

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