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DALLE POESIE MINORI.

Si duole vedendosi abbandonato dalla sua amica.
Non so qual io mi voglia,

O viver o morir; per minor doglia.
Morir vorrei, chè 'l viver m' è gravoso
Veggendomi per altri esser lasciato ;
E morir non vorrei, chè, trapassato,
Più non vedrei il bel viso amoroso,
Per cui piango, invidioso

Di chi l'ha fatto suo e me ne spoglia.

A Maria Vergine.

Non treccia d'oro, non d' occhi vaghezza

Non costume real, non leggiadria,
Non giovinetta età, non melodia,
Non angelico aspetto nè bellezza,
Potè tirar dalla sovrana altezza

Il re del cielo in questa vita ria
Ad incarnare in te, dolce Maria,
Madre di grazia, specchio d' allegrezza;

Ma l'umilità tua, la qual fu tanta

Che potè romper ogni antico sdegno Tra Dio e noi e fare il cielo aprire. Quella ne presta dunque, madre santa; Sicchè possiamo al tuo beato regno, Seguendo lei, devoti ancor salire.

O regina degli angioli, o Maria,

Ch' adorni 'l ciel co' tuoi lieti sembianti,
E stella in mar dirizzi i naviganti

A porto e segno di diritta via ;

Per la gloria ove sei, vergine pia,

Ti prego guardi a' miei miseri pianti;
Increscati di me, tômmi davanti
L'insidie di colui che mi travia.
Io spero in te ed ho sempre sperato:
Vagliami il lungo amore e riverente
El qual ti porto ed ho sempre portato.
Dirizza il mio cammin; fammi possente
Di divenire ancor dal destro lato
Del tuo Figliuol fra la beata gente.

AMBROSOLI. I.

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IACOPO PASSAVANTI.

Frate Iacopo Passavanti nacque in Firenze negli ultimi anni del secolo XIII, per quanto almeno si congettura dagli eruditi, i quali credono ch' egli fosse intorno al sessantesimo anno dell'età sua quando nel 1357 morì. Nel 1317 vestì l'abito di san Domenico nel convento di santa Maria Novella; poi fu mandato dai Superiori dell' Ordine a Parigi, affinchè in quella Università, allora tanto famosa, coltivasse il nobile ingegno di cui già si mostrava fornito. Quando ritornò in Italia attese per qualche tempo ad ammaestrare in divinità i suoi compagni di Religione; e, come colui ch' era tenuto non meno dotto che buono e prudente, fu sollevato alle maggiori dignità nell' Ordine suo. Pubblicò parecchie opere, fra le quali lo Specchio della Penitenza; dove, pregato da molti, ridusse a certo ordine per iscrittura volgare ciò che nella fiorentina lingua volgarmente avea predicato nell'anno 1354. Quest' opera (la quale fu dunque posteriore al Decamerone) è ricca di molta dottrina, e procede assai ordinatamente, con uno stile facile, chiaro e lodatissimo per la proprietà delle voci del pari che per la dolce loro commessura e pel suono del periodo, fontano ugualmente dalla negligenza del volgo e da quella troppa ricercatezza che al Boccaccio era piaciuta. Dino Compagni, Bartolomeo .da San Concordio e Iacopo Passavanti sono de' più antichi ed anche dei più perfetti scrittori che vanti l'Italia.

Leggesi che a Parigi fu uno maestro che si chiamava ser Lò, il quale insegnava Logica e Filosofia, e avea molti scolari. Intervenne che uno de' suoi scolari tra gli altri, arguto e sottile in disputare, ma superbo e vizioso di sua vita, morì. E dopo alquanti di, essendo il maestro levato di notte allo studio, questo scolaro morto gli appari: il quale il maestro riconoscendo, non senza paura domandò quello che di lui era. Rispose, che era dannato. E domandandolo il maestro se le pene dello 'nferno erano gravi come si dicea; rispose, che1 infinitamente maggiori, e che colla lingua non si potrebbono contare; ma ch'egli gliene mostrerebbe alcuno saggio. Vedi tu, diss' egli,

1

Che 'erano infinitamente maggiori. Colla lingua. Parlando.

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questa coppa di sofismi della quale io paio vestito ? Questa mi grava e pesa più che se io avessi la maggiore torre di Parigi, o la maggiore montagna del mondo in su le spalle; e mai non la potrò porre giù. E questa pena m'è data dalla divina giustizia per la vanagloria ch'i' ebbi del parermi sapere più che gli altri, e spezialmente di sapere fare sottili sofismi (cioè1 argomenti di sapere vincere altrui disputando). E però questa cappa della mia pena n'è tutta piena; perocchè sempre mi stanno davanti agli occhi a mia confusione. E levando alto la cappa che era aperta dinanzi, disse: Vedi tu il fodero di questa cappa? Tutto è bragia e fiamma ardente di fuoco pennace, il quale senza veruna lena mi divampa e arde. E questa pena m'è data per lo peccato disonesto della carne, del quale fui nella vita mia viziato, e continuâlo infino alla morte senza pentimento o proponimento di rimanermene. Onde, conciossiacosachè io perseverassi nel peccato senza termine e senza fine, e averei voluto più vivere per più potere peccare, degnamente la divina giustizia m'ha dannato, e tormentando mi punisce senza termine e senza fine. E, oh me lasso! che ora intendo quello che, occupato nel piacere del peccato, e inteso a' sottili sofismi della logica non intesi mentrechè vivetti nella carne; cioè per che ragione si dea dalla divina giustizia la pena dello 'nferno senza fine all'uomo per lo peccato mortale. E acciocchè la mia venuta a te sia con alcuno utile e ammaestramento di te, rendendoti cambio di molti ammaestramenti che desti a me, porgimi la mano tua, bel maestro. La quale il maestro porgendo, lo scolare scosse il dito della sua mano che ardea in su la palma del maestro, dove cadde una piccola goccia di sudore, e forò la mano dall' uno all' altro lato con molto duolo e pena, come fosse stata una saetta focosa e aguta. Ora hai il saggio delle pene dello 'nferno, disse lo scolaro: e urlando con dolorosi guai spari. Il maestro rimase con grande afflizione e tormento per la mano forata ed arsa, nè mai si trovò medicina the quella piaga curasse; ma infino alla morte rimase così forata: d'onde molti presono utile ammaestramento di correzione. E il maestro compunto, tra per la paurosa visione e per lo

Cioè ec. Questa spiegazione fu aggiunta da qualche copista. 2 Questa cappa ec. Questa cappa che mi serve di pena.

3 Pennace nel senso di Tormentoso, Pieno di pena, meglio si scriverebbe penace. Ora è noto che si disse ignis pennatius un fuoco artifiziato, che in guerra scagliavasi da luogo a luogo con gran celerità e gran rovina. Senza lena. Senza respiro, senza interruzione. Continuâlo. Continuailo, lo continuai.

5 Bel maestro. Ora diremmo caro maestro, o simile.

duolo, temendo di non andare a quelle orribili pene delle quali aveva il saggio, deliberò di abbandonare la scuola e 'l mondo.

Leggesi scritto da Elinando che nel contado d'Anversa fu uno povero uomo, il quale era buono, e che temeva Iddio; ed era carbonaio, e di quell'arte si vivea. E avendo accesa la fossa de' carboni una volta, e stando la notte in una sua capannetta a guardia dell' accesa fossa, senti in sull'ora della mezza notte grandi strida. Uscì fuori per vedere che fosse; e vide venire verso la fossa correndo e stridendo una femmina scapigliata e gnuda, e dietro le venía un cavaliere in su uno cavallo nero correndo, con un coltello ignudo in mano; e della bocca, e degli occhi, e del naso del cavaliere e del cavallo uscia fiamma di fuoco ardente. Giugnendo la femmina alla fossa che ardea, non passò più oltre, e nella fossa non ardiva a gittarsi; ma correndo intorno alla fossa, fu sopraggiunta dal cavaliere che dietro le correa; la quale1 traendo guai presa per li svolazzanti capelli, crudelmente feri per lo mezzo del petto col coltello che tenea in mano. E cadendo in terra con molto spargimento di sangue, la riprese per l'insanguinati capelli, e gittolla nella fossa de' carboni ardenti: dove lasciandola stare per alcuno spazio di tempo, tutta focosa e arsa la ritolse; e ponendola davanti in sul collo del cavallo, correndo se n'andò per la via dond' era venuto. La seconda e la terza notte vide il carbonaio simile visione. Donde, essendo egli domestico del conte d'Anversa (tra per l'arte sua e per la bontà la quale il conte, ch' era uomo d'anima, gradiva), venne al conte, e dissegli la visione che tre notti avea veduta. Venne il conte col carbonaio al luogo della fossa, e vegghiando insieme nella capannetta, nell'ora usata venne la femmina stridendo, e 'l cavaliere dietro; e feciono tutto ciò che 'l carbonaio avea veduto fare. Il conte, avvegnachè per l'orribile fatto che avea veduto fosse molto spaventato, prese ardire: e partendosi il cavaliere spietato con la donna arsa attraversata sul nero cavallo, gridò, scongiurandolo che dovesse ristare e sporre la mostrata visione. Volse il cavaliere il cavallo, e fortemente piangendo rispose e disse: Da poi, conte, che tu vuoli sapere i nostri martìri, i quali Iddio t'ha voluto mostrare, sappi ch'io fui Giuffredi tuo cavaliere e in tua corte nodrito. Questa femmina alla quale io sono tanto crudele e fiero, è dama Beatrice, moglie che fu del caro tuo

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La quale: oggetto del verbo feri; ma la sintassi, troppo latina, rie sce alcun poco oscura. 2 Sporre. Esporre, dichiarare.

cavaliere Berlinghieri. Noi, prendendo piacere di disonesto amore l'un dell' altro, ci conducemmo a consentimento di peccato, il quale a tanto condusse lei, che per potere più liberamente fare il male, uccise suo marito. Perseverammo nel peccato infino all'infermità della morte; ma nella infermità della morte, prima ella e poi io tornammo a penitenza, e confessando il nostro peccato ricevemmo misericordia da Dio; il quale mutò la pena eterna dello 'nferno in pena temporale di purgatorio. Onde sappi che noi non siamo dannati, ma facciamo a cotale guisa,1 come hai veduto, nostro purgatorio; e avranno fine quando che sia2 li nostri gravi tormenti.

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Venendo una volta santo Ambrogio da Milano, dond'cra arcivescovo, a Roma dond' era natio, e, passando per Toscana, venne a una villa nel contado della città di Firenze, che si chiama Malmantile: dove essendo con tutta sua famiglia in uno albergo per riposarsi, venne a ragionamento coll' albergatore, e domandollo di suo essere e di sua condizione. Il quale gli rispose e disse, come Dio gli avea fatto molto di bene, e che tutta la vita sua era stata con grande prosperità, e giammai non avea avuta alcuna avversità. Io ricco, io sano, io bella donna, assai figliuoli, grande famiglia: nè ingiuria, onta o danno ricevetti mai da persona: riverito, onorato, careggiato di tutta gente, io non seppi mai che male si fosse o tristizia; ma sempre lieto e contento sono vivuto e vivo. Udendo ciò, santo Ambrogio forte si maraviglio: e chiamando la famiglia sua, comandò ch'e cavalli tosto, fossero sellati, e immantinente ogn' uomo si partisse, dicendo: Iddio non è in questo luogo, nè con questo uomo al quale ha lasciato avere tanta prosperità. Fuggiamo di presente, che l'ira di Dio non venga sovra di noi in questo luogo. E così partendosi con tutta sua compagnia, anzichè molto fossono dilungati, s' aprì di subito la terra, e inghiotti l'albergo e l'albergatore, i figliuoli, la moglie, e tutta la sua famiglia, gli arnesi e tutto ciò ch' egli possedea. La qual cosa udendo santo Ambrogio, disse alla sua famiglia: Or vedete, figliuoli, come la prosperità mondana riesce a mal fine!

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1 A cotale guisa cc. In questa guisa, in questo modo che tu hai veduto.

2 Quando che sia. Una qualche volta; non saranno eterni.

3 A Roma ec. È noto che sant' Ambrogio nacque, secondo alcuni in Treveri, secondo altri in Lione.

Che. Che cosa. Più sotto famiglia sigħifica i serventi,

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