Sayfadaki görseller
PDF
ePub

Lassollo fare il Roman, nè fu muto
Rendergli un bel saluto.

Disse il signor al Roman: Ben vegniate;
Siete voi troppo lasso; o come state?
E fêllo a' suoi famigli disarmare,1
E 'l caval governare.

Per man lo prese, e 'n sala l' ha menato,
Dov' era riccamente apparecchiato.
Venuta l'acqua, e quel signor dicea:
O gentiluom, andatevi a lavare.
Ed ei senza tardare

Presto facea il suo comandamento.
Lavossi quel Roman come volea;
E po' in capo di mensa lo fe stare;
E senza dimorare,

A far i suoi comandi non fu lento.
Mangiato ch' ebbon con suo piacimento,
Vennono al tempo poi a un ricco letto.
Disse il signor perfetto:

O gentiluomo, entrate in questa sponda ;
Ch'era dall' altra sua sposa gioconda.
Ed ei v' entrò, nè fe al dir diviso:?

Ma quel signor da poi nel mezzo entrava,
E così si posava.

Al giorno chiaro ciascun s'è levato.
Lavossi quel Roman le mani e 'l viso,
E quel signor dell'acqua gli donava :
Ei non gliel contrastava.

Armossi tosto, e poi prese commiato.
Ma poco fu dal castel dilungato,
Che tornò indietro con chiaro visaggio,
E disse: O signor saggio,

Perchè non mi hai tu fatto bastonare,
Siccome agli altri sei uso di fare?

Disse il signor: Perchè non l' hai servito; ›
Chè il mio comandamento hai tutto fatto.
Ma egli c'è alcun matto

Che vuol esser signor di casa mia.

1 E fello ce. Ordinò ai servi che l'aiutassero a levarsi di dosso l'ar.

matura.

2 Nè fe cc. Obbedì, non fece diversamente da ciò che gli era detto. 3 Non hai servito. Non l'hai meritato; uso antiquato del verbo servire.

S'i' dico: Togli, -i' son mal ubbidito,
Ma che io tolga ei mi risponde ratto;
E par che sia di patto,

Che a ciò ch' io dico tengan questa via,
E voglion pur del mio far cortesia : 1
Ond' io per questo gli fo gastigare.
Tu hai saputo fare,

Ch' a' miei comandi non hai contradiato;
E però non se' stato bastonato.

Canzon mia di': Chi non vuol bastonate,

Chi arriva a casa altrui, ed egli piaccia,
Quel che gli è detto faccia,

E faccial tosto senza far contese:

2

Ch' egli è buono imparare all' altrui spesc.

1 E voglion ec. Vogliono donare essi a me la roba min.

2 Ed egli piactia. Forse: Ed e gli piaccia, soltint. di esservi, di starvi.

SECOLO DECIMOQUINTO.

NOTIZIE STORICHE.

La morte di Gian Galeazzo Visconti muțò la condizione delle cose, e fors' anche i destini d' Italia: la quale pareva prossima a unirsi e quietare nel dominio di un solo, e fu in quella vece più che mai divisa, sconvolta da guerre intestine, corsa da eserciti forestieri.

Cagione di questi mali fu innanzi tutto lo stesso Visconti; che divise il suo Stato, e ne assegnò una parte al primogenito Giovanni Maria colla città di Milano e il titolo di Duca, un'altra parte al secondogenito Filippo Maria col nome di Conte di Pavia, e la città di Pisa con altre terre a Gabriele suo legittimato. Oltracciò, per la giovinezza di questi eredi, bisognò commettere i pubblici affari ad una Reggenza; alla quale Gian Galeazzo medesimo deputò alcuni de' suoi consiglieri e generali, facendone capo sua moglie Caterina. Costoro furono ben presto discordi; e Caterina accrebbe quel male secondando l'arroganza di Francesco Barbavara, pochi anni addietro cameriere del duca, ma allora tanto innanzi con lei, che disponeva di ogni cosa a suo arbitrio.

Già subito dopo la morte di Gian Galeazzo i Fiorentini collegati con Bonifazio IX avevano obbligata la Reggenza a cedere Bologna, Perugia ed Assisi. Le discordie intestine poi incoraggiarono parecchie città lombarde a liberarsi; e la pertinacia di Caterina a favorire il Barbavara fu cagione che i capi delle milizie, per non rovinare con lei, voltisi al privato vantaggio, usurpassero quelle provincie che avrebbero dovuto difendere. In breve ai figli di Gian Galeazzo rimasero le sole città di Milano e Pavia; nè quivi pure poterono dirsi padroni e sicuri: perchè in Pavia prevalevano i Beccaria coi loro fautori: in Milano una parte della cittadinanza, dicendosi guelfa, sosteneva colle armi le pretensioni di Caterina; finchè poi vinta e rifuggitasi in Monza, finì di vivere il giorno 17 ottobre 1404, se

condo alcuni di angoscia e terrore, secondo altri di veleno.

Giovanni Maria, principe erudele ed inetto, faceva sbranare da mastini a ciò ammaestrati chiunque venivagli in odio, e comportava frattanto che lo Stato fosse in balía d'uomini ambiziosi, ai quali non aveva nè coraggio nè abilità di opporsi; e mentre con oltraggi incessanti attiravasi l'odio delle principali famiglie, perdeva sempre più l'amore del popolo che i disordini del suo governo rendevano infelicissimo. Però alcuni giovani d'alto stato gli congiurarono contro, e l'uccisero (16 maggio 1412): e il popolo, senza curarsi di lui, corse ad uccidere Squarcia Girami suo canattiere, e stromento delle sue crudeltà.

In quel medesimo giorno morì anche Facino Cane, il più fortunato e fors' anche il più accorto tra i generali di Gian Galeazzo. Già da qualche tempo aveva saputo far sì che tutti e due i fratelli Visconti lo eleggessero governatore dei loro Stati: perciò nel tempo del quale parliamo avrebbe potuto osare qualche gran cosa, se la

morte non lo avesse tolto di mezzo.

Filippo Maria assunse immantinente il titolo di Duea. In Milano per altro erano intanto gridati Signori Ettore e Gian Carlo Visconti; ed anche in Pavia facevanoi Beccaria ogni sforzo per volgere a loro profitto quell'improvviso disordine. Per sottrarsi a tante difficoltà Filippo Maria sposò Beatrice Tenda vedova di Facino Cane; del quale così, sotto nome di dote, ereditò i possessi, le ricchezze, e fin anco i generali e i soldati. In poco tempo, coll'opera principalmente di Francesco da Carmagnola, riacquistò gran parte di quello che avevano posseduto i suoi antenati. Ricuperata la Lombardia, e compostosi con Firenze e Venezia che sole gli si potevano opporre, volse i suoi pensieri a Genova, datasi nella fine del secolo scorso al re di Francia deludendo le arti e le speranze di Gian Galeazzo. Il re francese vi aveva mandato come suo luogotenente il maresciallo di Boucicaut; il quale comportandosi da tiranno diventò odiosissimo: e nondimeno quando in Milano cominciarono le discordie e le gare già mentovate, Giovanni Maria aveva creduto di poter trovare in lui un sostegno; ed egli aveva accolto l'invito, e vi era accorso col meglio delle sue milizie in qualità di Governatore. Genova traendo profitto da quell' assenza, uccise il suo Vicario, e si dichiarò indipendente; e il Boucicaut non potendo

nè ricuperare quella città nè tenere Milano, aveva dovuto ritornarsene scornato in Francia. Ma i Genovesi ricaddero tosto nelle antiche loro discordie: e le fazioni che successivamente prevalsero, indebolirono lo Stato per tal maniera, che nel 1421 dovettero vendere Livorno ai Fiorentini collegatisi contro di loro col nuovo duca di Milano, sottomettersi al duca stesso, e ricevere il Carmagnola come suo rappresentante.

Durò ancora per qualche tempo la prosperità di Filippo Maria; nè da altro poi che dalla sua stolta ingratitudine fu interrotta. Già nell' anno 1418, recatosi a noia la moglie, principio di tutta la sua fortuna, l'aveva fatta ignominiosamente morire, accusandola d'infedeltà. Ora poi abbandonatosi alle suggestioni di parassiti e di astrologi, coi quali era solito vivere, diventò sospettoso del Carmagnola: il quale non volendo tollerare l' ingratitudine e sapendo fin dove avrebbe potuto trascorrere quel tiranno, allontanossi repentinamente da lui per mettersi al soldo della repubblica di Venezia. La quale allora collegossi coi Fiorentini contra il Visconti. Le vittorie del Carmagnola si stesero in breve fino a Brescia ed a Bergamo: la repubblica veneta parve in procinto di far sua la Lombardia pel valore e la felicità di quel condottiero. Ma dopo una battaglia vinta a Maclodio rimandò liberi ottomila prigionieri, che riforniti di armi ritornarono in campo. Questa, forse non altro che generosità militare, parve al senato veneto indizio di mutata fede; e poichè le sorti della guerra dopo quel fatto non corsero più così prospere come prima, il sospetto diventò sempre maggiore: il Carmagnola chiamato a Venezia sotto onorevol pretesto, fu accusato di tradimento e decapitato; nè abbiamo certezza se fosse reo o innocente.

Filippo Maria, abbandonato dal Carmagnola, gli aveva sostituito Francesco Sforza, del quale dovremo parlare più sotto: bastandoci dire per ora che il duca fu ingrato anche verso di lui; e costringendolo a cercare salvezza presso i suoi nemici, ridusse più volte sè stesso in termine di perdere ogni cosa. E così sospettando sempre di tutti, e pur costretto per la sua inettezza a fidarsi di qualcheduno, continuo malamente la sua signoria fino all' anno 1447, nel quale cessò di vivere il giorno 17 agosto. Di due mogli (Beatrice Tenda e Maria di Savoia) non ebbe alcun figlio; però fu l'ultimo dei Visconti; e i possessi di questa casa passarono, co

« ÖncekiDevam »