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nè il valore dei nostri si spense, nè il nostro danaro uscì fuori del nostro paese. Così non attribuiremo ad amore del pubblico bene, ma piuttosto a necessità, astuzia, ambizione, che i principi sottentrati alle repubbliche proteggessero gli studi e i loro coltivatori; nondimeno quella protezione, paragonata coi costumi di altre età, fu testimonio di un secolo migliorato. Finito quel lungo scisma di cui s'è toccato, i pontefici Nicolò V e Pio II protessero altamente le lettere, delle quali furono essi medesimi illustri coltivatori. Filippo Maria Visconti, non ostante la sua indole viziosa ed inerte, Francesco Sforza, in mezzo alle guerre, e Lodovico il Moro, nella perfidia de' suoi pubblici e privati delitti, favorirono in Lombardia i letterati, gli artisti ed ogni maniera di studi. I marchesi Gonzaga e la Casa d' Este fecero delle corti di Mantova e di Ferrara un albergo di dotti, e, come alcuni amarono dire, un soggiorno delle Muse. Lo stesso vale dei marchesi di Monferrato, dei duchi d'Urbino, di quei di Savoia, diventati in questo secolo principi del Piemonte, e d' altri minori di stato, che gareggiavan coi grandi. Alfonso re di Napoli non volle mostrarsi indegno di sedere sul trono di quel Roberto da cui il Petrarca avea voluto essere giudicato meritevole della corona. Ma sopra tutto i Medici di Firenze, che di ricchezze vincevano i re, e (per trovarsi in un paese repubblicano) avevano più che gli altri bisogno d'abbagliare il popolo, profondevano immensi tesori a comperar libri, stipendíare e proteggere letterati. E Lorenzo il Magnifico, mentre gareggiava coi principi nel promuovere splendidamente gli studi, mettevasi come studioso e scrittore tra i primi del suo tempo. Già nel secolo XIV, per cura principalmente del Petrarca, del Boccaccio e d'alcuni altri letterati, l'Italia possedeva un buon numero di codici greci e latini, e maestri e cultori non pochi di quelle lingue. Col favore dei principi e di quanti agognavano al principato, e dopochè furon cessate le disastrose scorrerie dei barbari, poterono moltiplicarsi e arricchirsi le raccolte di tali codici; si fondarono biblioteche e accademie: furono aperte nuove scuole, diventarono più illustri e più frequentate le antiche. A misura che i Musulmani occuparono le città dell'imperio greco, sopra tutto poi allorchè Maometto II s'impadroni di Costantinopoli, molti dotti, ai quali parve men duro l'esiglio che l'aspetto e il dominio di quei vincitori, portarono in Italia un gran numero

di manoscritti, e vi diffuseró lo studio della lingua greca, la quale in breve diventò quasi comune tra noi. L'uso della stampa, trovata in Germania e venuta assai presto in Italia, moltiplicò poi i libri, e ne diminuì incredibilmente il prezzo, sicchè andarono per le mani di molti, agevolando l'acquisto delle cognizioni e diffondendo nell' universale della nazione la cultura letteraria propriamente detta. In questo secolo insomma cessarono parecchie di quelle cause che nei precedenti avevano impediti o difficoltati gli studi, e molte ne concorsero che poterono agevolarli, non più ad alcuni pochi, ma a tutti.

SCRITTORI DEL SECOLO XV.

Dopo quanto si è detto, può recar maraviglia che questo secolo abbia somministrato sì scarsa materia al presente Manuale. Ma i letterati di quella età si volsero a dissepellire e pubblicare le antiche ricchezze letterarie, piuttostochè a crearne di nuove; oltrecchè essendo vinto dall' ammirazione il giudizio, avvenne che molti scrivessero in latino, disprezzando come inetta alle scienze ed alle gravi materie della storia e della politica, o mal capace di gentilezza, la così detta lingua volgare. Opinione poco men che incredibile, quando si consideri che potevan vedere come con quella lingua Dino Compagni e i Villani avessero già raccontata la storia del Ioro tempo, e l' Allighieri avesse potuto descriver fondo a tutto l'universo ed esprimere quanto allora sapevasi di filosofia. Vedevano inoltre con quanta dolcezza e armonia il Petrarca aveva cantato d' amore; come Bartolomeo da San Concordio aveva, per così dire, scolpite le più belle sentenze dei filosofi antichi; il Boccaccio così vivamente rappresentato i costumi, le passioni, i vizi del secolo; il Cavalca e molti altri descritto con efficacissima semplicità le opinioni religiose che ancor duravano al loro tempo, e il fervore e le penitenze dei primi cristiani. E nonpertanto quella erronea opinione prevalse: e di qui nasce che, mentre nella storia della nostra letteratura il secolo XV ha una grande importanza, e molti uomini di quel tempo hanno avuta una somma efficacia sulla cultura letteraria universale, le lettere italiane, non poterono allora rallegrarsi di molti nobili frutti,

perchè la nostra lingua, coltivata da pochi, e lasciata all' arbitrio del popolo, decadde anzichè avanzarsi per quasi tutto quel secolo.

LEON BATTISTA ALBERTI.

Nei primi anni del secolo XV, forse nel 1404, nacque Leon Battista Alberti in Venezia da genitori fiorentini che le civili fazioni avevan costretti a emigrare. Mandato dal padre a Bologna si diede allo studio con tal fervore che venne in pericolo fin della vita; e nell' età di venti anni potè dare tal saggio del suo ingegno e della sua cultura da essere non lodato soltanto ma ammirato dai dotti. Secondo l'usanza del secolo, quel primo frutto de' suoi studi ebbe un titolo greco e fu composto in latino; ed è un dramma o scherzo comico intitolato Filodossio o l'amator della gloria, dove si crede che rappresentasse sè stesso. Del resto l'Alberti abbracciando col suo ingegno veramente straordinario le arti belle e le lettere, fu pittore, scultore e architetto, fu poeta e prosatore latino e italiano, scrisse in tutte due queste lingue trattati di belle arti e libri di filosofia morale; meritò di sentirsi chiamare dai contemporanei Vitruvio moderno, e di essere annoverato anche oggidì fra gli scrittori di prosa italiana, più degni che la gioventù si proponga di voler imitare. Perciocchè a Leon Battista Alberti appartiene il trattato Del governo della famiglia attribuito finora ad Agnolo Pandolfini; il quale trattato non è solamente stimato la più bella prosa di quel secolo, ma uno dei pochissimi libri dove la materia e la forma siano quanto mai possa desiderarsi convenienti fra loro, utili ed esemplari. Il dottore Anicio Bonucci al quale dobbiamo la prima edizione compiuta delle Opere volgari dell' Alberti (Firenze, Tipografia Galileiana 1843-49) trovò che il Governo della famiglia costituisce il terzo libro di un' opera intitolata Della famiglia, composta dall' Alberti; il quale ricopiò ben due volte quel libro, la prima per farne dono alla famiglia Pazzi, la seconda per la famiglia Pandolfini, variando i nomi degl' interlocutori per pigliarli dalla famiglia alla quale indirizzava il suo libro, ed anche introducendo qua e là qualche nuovo pensiero o mutando alcune frasi, come esigevano le mutate persone,

e come suole avvenire principalmente agli uomini di fino gusto, quando ricopiano le proprie cose scritte già da alcun tempo. Leon Battista Alberti morì poi in Roma l'anno 1472.

Dell' uso del tempo.

Adopero il tempo in esercizi lodati, nollo adopero in cose vili nè frivole, ma negli studi delle lettere. Piacemi intendere le cose passate degne di memoria; udire i buoni ricordi, nutrire lo 'ngegno di leggiadre sentenze, ornarmi di lodati costumi. Ingegnomi nell'uso civile usare gentilezza e acquistare benivolenza; conoscere le cose umane e divine; essere copioso d'esempli, abbondante di sentenze, ricco di persuasioni, forte d'argomenti e di ragioni. Nè metto più tempo però che si ri-. chiegga; ma per non perderne punto, io osservo questa regola: mai sto in ozio, fuggo il sonno, nè giaccio, se non vinto da stracchezza. Cosi adopero il tempo, fuggo la pigrizia e la inerzia, facendo sempre qualche opera. E perchè l' una opera non mi confonda l'altra, e truovimi averne cominciate alcune e fornitone niuna, e forse avere fatte le peggiori e lasciate le migliori, la mattina, quando io mi levo, penso fra me stesso: Oggi, che ho io fare di fuori? tali e tali cose; annòverole, e a ciascuna pongo il tempo suo: questa stamani; questa oggi; quest' altra stasera; e così fo con ordine ogni mia faccenda, è senza perdimento di tempo. Dicono gli uomini, dotti e prudenti, che mai vidono uomo diligente andare, se non adagio. E di certo, quanto io pruovo in me ed ho provato, egli è verissimo, agli uomini negligenti fuggire il tempo; e se pure la volontà gli sollecita e il bisogno, perduta la stagione, gli è mestiero fare con fretta e con affanno quello che prima gli era facile e abile. E stievi a mente, che di ́niuna cosa è tanta copia, che non sia difficile fuori di stagione averla o trovarla. Ogni cosa alla stagione si porge pronta; fuori di stagione con difficoltà si truova. E però si vuole osservare il tempo, e secondo quello disporre, ordinare le faccende, darsi da fare, mai non perder tempo in vano. Dicovi, che i più lo

1 Nollo. Non lo. Così anche altrove.

? Persuasioni. Argomenti persuasivi.

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3 Mai. Più spesso Non mai; e secondo alcuni grammatici la voce mai da sè sola non fa negazione.

Gli è mestiero, per È a loro necessario; e così subito dopo Gli era, per Era a loro.

5 Si porge. Si appresenta da sè.

6 Darsi da fare. Assegnare a sè stesso le cose da fare.

dati ed i priori1 esercizi sono quelli, ne' quali la fortuna non ha licenza nè imperio; e prima a quelli vi conforto. Appresso, per non perdere tempo, fate come io fo. La mattina v' ordinate a tutto il dì, e seguite quello vi si richiede; poi la sera, innanzi vi posiate, ricogliete in voi quello che avete fatto il dì; e se siete stati in cosa alcuna negligenti, alla quale possiate per allora rimediare, subito vi supplite; e piuttosto vogliate perdere il sonno, che il tempo, cioè l'ordine e la stagione delle faccende. Il sonno, il mangiare, e simili cose si possono restaurare domani; ma la stagione del tempo e il tempo no. Pure, se accade, insegno a me stesso per l'avvenire colla, diligenza, che non mi intervenga più; e governomi in modo, che non ho di me medesimo da dolermi, ma piuttosto della fortuna: non mi adopero indarno, piglio onesto esercizio, nel quale con istudio e virile opera m'esercito, e seguito quello esercizio che rende più fama, più onore ed utile alla nostra famiglia, a noi, alla patria, e alla fortuna nostra.

Che non si debbono cercare le magistrature.

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Niuna cosa meno stimo, niuna cosa pare a me in uno uomo degna di minore onore, che trovarsi in questi stati pubblici:3 e sapete perchè? Imperchè non sono da pregiarli nè da desiderarli pe' pericoli, per le disonestà, per le ingiustizie hanno in loro, e perchè non sono stabili nè durabili, ma caduchi, debili e fragili e infami, per non reggerli bene, usare imperio piuttosto che dignità, comandare piuttosto che consigliare. Ogni altra vita, ogni altro studio, ogni altro stato m' è sempre più piaciuto, che questo degli stati o statuali: la quale vita debbe dispiacere a ciascuno. Vita d'ingiurie, d' invidie, di sdegni e di sospetti; piena di disagi, fatiche e incomodi, e piena di servitù; nebbia d'invidia, nugolo d'odio, folgore di nimistà sottoposta a ogni traverso vento. E che veggiamo noi di questi che si travagliano e danno assidui allo Stato, altra differenza che da' pubblici servi? Ragúnati, consiglia, pratica, priega questo, rispondi a quest' altro, servi costui, dispetta a uno altro, compiaci, gareggia, inchinati, scappucciati; e tutto il tempo dare a simili operazioni

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I priori. I primi, i principali.

2 Se accade (sottintendi) ch'io sia stato negligente.

3 Stati e statuali pubblici dice l'A. dove ora si dice comunemente impieghi e impiegati pubblici.

Per non ec. Qualora non si reggano bene; o forse: Perchè i più non li reggono bene.

Scappucciati. Levati il cappuccio, che allora usavano in vece del cappello.

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