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Conversione di Giovanni Colombini a Dio.

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Nell'anno del Signore 1355 essendo un giorno tornato Giovanni a casa con desiderio di preştamente mangiare, e non trovando (com' era usato) la mensa e i cibi apparecchiati, s'incominciò a turbare colla sua donna e colla serva riprendendole della loro tardità, allegando che per strette cagioni gli conveniva sollecitarsi di tornare alle sue mercanzie. Al quale la donna benignamente rispondendo disse: Tu hai roba troppa e spesa poca; perchè ti dái tanti affanni? E pregollo ch' egli avesse alquanto di pazienza, chè prestissimamente mangiare potrebbe; e disse: Intanto ch'io ordino le vivande, prendi questo libro e leggi un poco; e posegli innanzi un volume che conteneva alquante vite di Santi. Ma Giovanni scandalizzatosi prese il libro e gittandolo nel mezzo della sala, disse a lei: Tu non hai altri pensieri che di leggende; a me convien presto tornare al fondaco. E dicendo queste e più altre parole, la coscienza lo cominciò a rimordere in modo che ricolse il libro di terra e posesi sedere. Il quale aperto, gli venne innanzi per volontà divina la piacevole storia di Maria Egiziaca peccatrice, per maravigliosa pietà a Dio convertita. La quale in mentre che Giovanni leggeva, la donna apparecchiò il desinare, e chiamollo che a suo piacere si ponesse a mensa. E Giovanni le rispose: Aspetta tu ora un poco, per infino che questa leggenda io abbia letta. La quale avvegnachè fosse di lunga narrazione, perchè era piena di celeste melodia, gli cominciò addofcire il cuore; non si volle da quella lezione partire, per infino che al fine pervenisse. E la donna vedendolo così attentamente leggere, tacitamente ciò considerando, n'era molto lieta,. sperando che gli gioverebbe a edificazione della sua mente; però che non era già usato leggere tali libri. E certo adoperando la divina grazia, cosi avvenne: chè però quell' istoria in tal modo gli s'impresse nell' animo, che di continuo il dì e la notte la meditava. E in questo fisso pensiero il grazioso Iddio gli toccò il cuore in modo, che incominciò a disprezzare le cose di questo mondo, e non essere di quelle tanto sollecito, anzi a fare il contrario di quello ch' era usato. Imperocchè in prima era sì tenace, che rade volte faceva limosina nè voleva che in casa sua si faces

1 Il quale aperto. Ablativo assoluto; come se diccsse: E quando ebbe sperto quel libro, gli venne ecc.

2 La quale storia; ed è oggetto di leggeva.

se; e per cupidità ne' suoi pagamenti s'ingegnava di levar "qualche cosa dal patto fatto; ma dopo la detta salutifera lezione, per vendicarsi della sua avárizia, dava spesso due cotanti di elemosina che non gli era addimandato, e a chi gli vendeva alcuna cosa pagava più danari che non doveva avere. E così incominciò a frequentar le chiese, digiunare spesso, e a darsi all'orazione e all' altre opere divote. Ed essendosi per alquanto tempo in simili opere pie esercitato, crescendo di virtù in virtù e ogni dì nella via del Signore migliorando, facendo a' poveri larghe elemosine, vennegli in desiderio di voler essere al tutto povero e mendico per amor di Gesù Cristo, acciocchè in tutto spogliato di sè e d'ogni cura terrena potesse speditamente seguitare il poverello Cristo suo Signore.

Morte di Giovanni Colombini.

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Come fedelissimo cristiano chiese il santo sacramento dell'estrema unzione; la quale con buono conoscimento devotissimamente ricevette. E approssimandosi al transito della morte, i, suoi diletti fratelli si posono intorno a lui in orazione, pregando affettuosamente Dio, che gli avesse misericordia. E il sacerdote gli fece le raccomandigie dell'anima2 e altro salutifero officio; e ultimamente gli lesse la passione del nostro Signore Gesù Cristo secondo che è scritta nel santo evangelio. E quando fu a quella parola che dice: in manus tuas, Domine, commendo spiritum meum, allora quella benedetta anima sciolta dal corpo andò, secondo che chiaramente si crede, alla gloria di vita eterna; e fu in sabato a di ultimo di luglio dell'anno del Signore 1367. E avvegnachè quando i santi uomini passano di questa mortale vita non si dovesse piangere, perocchè vanno a vita immortale; nientedimeno, passato che fu il beato Giovanni di questo secolo, intra' sopradetti suoi figliuoli si levò un grande pianto, vedendosi avere corporalmente perduto si ottimo e dolcissimo padre. E più che gli altri Francesco Vincenti pareva che di dolore si consumasse: il quale gittandosegli al collo, e per tutto baciandolo, con alta voce diceva: O padre mio Giovanni, perchè m' hai cosi lasciato ? È questa la compagnia che io da te speravo? Chi sarà oggimai il mio consiglio? chi fia il mio sostegno? da chi troverò mai simile conforto ? Tu eri a me

Fratelli. I seguaci dell' Ordine da lui fondato: perciò li chiama poi anche figliuoli.

2 Raccomandigie. Ora non si direbbe altrimenti che raccomandazioni dell' anima.

ottimo maestro e padre; tu illuminavi la mente; tu m'infiammavi l'affetto, e sempre mi drizzavi per la salutifera via. O Giovanni mio dolcissimo; io non piango te, ma piango me: perocchè tu se' ito a godere, io sono rimasto a tribolare; io sono ben lieto della tua felicità, ma son dolente della mia miseria. O amatissimo Giovanni! con ogni desiderio supplico la tua carità, che preghi Dio che mi tragga presto di queste tenebre, e conducami a stare teco nella perpetua luce. Oh ! quando sarà quell' ora che con teco mi ritrovi. — E dicendo l'ottimo Francesco queste e più altre parole, da capo l'abbracciava, baciandogli con molte lagrime le mani e il volto. E con simili parole tutti gli altri poverelli fortemente si lamentavano; e ciascuno narrava de' gran beneficii e dei dolcissimi ammaestramenti da lui ricevuti; e per grande ora in simil modo piansono.

JACOPO SANNAZZARO.

La famiglia de'Sannazzari si tramutò da Pavia a Napoli nel 1380 seguitando Carlo di Durazzo. Quel re e il suo successore Ladislao l' arricchirono di molti doni; Giovanna II ne la spogliò: sicchè Jacopo nato nel 1458 ebbe parenti nobili e illustri, ma già decaduti dall' avita ricchezza.

I suoi progressi nello studio furono rapidissimi, e ne diede assai presto bei frutti.

Nell' età di otto anni s'innamorò di una fanciulla per nome Carmosina Bonificia; e, giovine ancora, credendosi per lontananza guarire della cocente e mal corrisposta passione, abbandonò la patria, e andò in Francia. Non giovandogli poi quel soggiorno, si ricondusse a Napoli, ma trovò che la donna da lui amata era morta.

Rivide una seconda volta la Francia accompagnando il re Federico, a cui Luigi XII e Ferdinando di Spagna avevano tolto il regno: perocchè, gratissimo alle non larghe beneficenze avute da quel principe, come lo vide infelice, gli fece dono di quasi tutta la propria sostanza, e lo seguitò nell' esiglio.

Morto poi Federico, ritornò a Napoli, e quivi stette fino all'anno 1530 nel quale morì. Negli ultimi tempi del viver suo, ebbe il dolore di perdere la villa di Mergoglino che il re Federico gli aveva donata, e che il principe d' Orange fece distruggere perchè non servis

di ricovero ai soldati del maresciallo Lautrec. Sicchè poi si racconta che quando il Sannazzaro, già in sulla morte, sentì che quel principe era stato ucciso, disse di morir consolato, poichè quel barbaro nemico delle Muse avea pagata la pena dell' immensa sua ingiuria, vendicata da Marte.

Del resto fu il Sannazzaro uomo di tutta pietà, d' animo mite e di costumi illibati.

Abbiamo di lui alcune Rime quasi tutte d'amore, le quali poterono bensì acquistargli molte lodi a' suoi tempi, ma non bastavano al certo per tramandar glorioso il suo nome alla posterità. Alla durevole sua fama contribuirono molto più le poesie latine, e principalmente il poema De Partu Virginis, diviso in tre libri, e composto di circa mille e cinquecento esametri. Nessuno prima di lui, non escluso nemmanco il Poliziano, erasi mai tanto accostato a Virgilio. Scrisse eziandio in latino cinque Egloghe Pescatorie, nelle quali, oltre alla bontà dello stile, si loda la nuova invenzione; tre libri di Elegie e tre di Epigrammi. Le più di queste opere appartengono alla virilità ed anche alla vecchiezza dell' Autore; e il poema (nel quale spese venti anni) fu cominciato nel 1501 o forse nel 1506. Per queste opere adunque il Sannazzaro suol collocarsi fra gli scrittori che illustrarono il Cinquecento; ma come scrittore italiano appartiene al secolo XV, perchè l'Arcadia (dice Pietro Summonte nella prima edizione del 1504) è stata composta nella prima adolescenza del poeta. Quest' Arcadia è una specie di romanzo pastorale. L'Autore imagina una colonia di pastori (tra i quali colloca sè medesimo); e ne descrive le occupazioni, le usanze, i costumi, che pur sono imaginati da lui, nè furono nè potrebbero mai essere in veruna parte del mondo. Tutto il libro è diviso in dodici scene campestri. Una prosa descrive il luogo, i personaggi, le circo- stanze del tempo; séguita poi una poesia, dove qualche volta i pastori gareggiano cantando, qualche volta raccontano i loro amori, o celebrano qualche defunto. Nelle prose può dirsi che rinnovò in gran parte la purità del Trecento; e s'egli non raggiunse pienamente la naturalezza e la semplicità di quel secolo, si tenne almeno distante dall' eccessiva artificiosità del Boccaccio. Molte delle poesie sono in rime sdrucciole nelle quali è grande per certo la maestria dell' Autore, ma non degna per altro di muovere ad imitarla: e non di rado egli stesso,

vinto dalla difficoltà, fu costretto di ricorrere a latinismi nè belli, nè chiari, nè felicemente dedotti. Chi vorrebbe dire oggidì irascere, limula, erronico, comonico, senio, prelia e simili?

Descrizione del monte Partenio (Prosa I).

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Giace nella sommità di Partenio, non umile monte della pastorale Arcadia, un dilettevole piano, di ampiezza non molto spazioso, perocchè il sito del luogo nol consente, ma di minuta e verdissima erbetta sì ripieno, che, se le lascive pecorelle con gli avidi morsi non vi pascessero, vi si potrebbe d'ogni tempo ritrovare verdura. Ove, se io non m'inganno, son forse dodici o quindici alberi di tanto strana ed eccessiva bellezza, che chiunque li vedesse, giudicherebbe che la maestra natura vi si fosse con sommo diletto studiata in formarli. Li quali alquanto distanti, ed in ordine non artificioso disposti, con la loro rarità la naturale bellezza del luogo oltra misura annobiliscono. Quivi senza nodo veruno si vede il drittissimo abete, nato a sostenere i pericoli del mare; e con più aperti rami la robusta quercia, e l'alto frassino, e lo amenissimo platano vi si distendono, con le loro ombre non picciola parte del bello e copioso prato occupando: ed evvi con più breve fronda l'albero di che Ercole coronare si solea, nel cui pedale le misere figliuole di Climene furono trasformate: ed in un de' lati si scerne il noderoso castagno, il fronzuto bosso, e con puntate foglie lo eccelso pino carico di durissimi frutti; nell' altro l'ombroso faggio, la incorruttibile tiglia, e 'l fragile tamarisco, insieme con la orientale palma, dolce ed onorato premio de' vincitori. Ma fra tutti nel mezzo, presso un chiaro fonte, sorge verso il cielo un dritto cipresso, veracissimo imitatore delle alte mete, nel quale non che Ciparisso, ma, se dir conviensi, esso Apollo non si sdegnerebbe essere trasfigurato. Nè sono le dette piante sì discortesi, che del tutto con le loro ombre vietino i raggi del sole entrare nel dilettoso boschetto; anzi per diverse parti sì graziosamente li ricevono, che rara è quella erbetta che da quelli non prenda

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1 Nato ec. Perchè di abete si fanno le navi. 2 L'albero di che ec. Il pioppo delle cui frondi si coronò Ercole quando discese all' Averno. Le figliuole di Climene e del Sole sono le sorelle di Fetonte cangiate in pioppi sulle rive del Po, dove piansero inconsolabili il fratello caduto in quel fiume mal guidando il carro paterno.

3 Ciparisso uccise inavvedutamente un proprio cervo che gli era ca rissimo, e per dolore deliberò di morire. Allora Apollo lo convertì in ci presso.

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