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l'antica Lega Lombarda. Però Federico s'accorse di dovere evitare una lotta della quale non era agevole uscir vittorioso, e riconciliossi col papa facendolo arbitro fra lui e le città collegate. La pace fu stabilita con queste condizioni che Federico restituisse (come allora dicevasi) la sua grazia alle città; e queste dovessero somministrargli un certo numero di soldati per l'impresa d' Oriente, ch' egli di nuovo promise e di nuovo poi differì; finchè non vi fu costretto dalla scomunica di Gregorio IX creato pontefice nel 1227.

Mentre era assente, i suoi nemici presero animo, e gli si levarono contro. Però egli, composte in Oriente alla meglio le cose, affrettò il suo ritorno; nè mai ebbe sincera amicizia o pace durevole nè col papa nè colle città.

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Innocenzo IV in un concilio tenuto a Lione nel 1245 lo dichiarò decaduto dall' imperio; e la lotta durò fino all'anno 1251 in cui Federico morì.

L'erede di Federico fu suo figlio Corrado, già eletto re dei Romani; e per lui teneva il governo di Sicilia e di Napoli Manfredi suo fratello naturale. Questi, al dire di alcuni, per cupidigia di regno aveva soffocato già il padre; dipoi avvelenò Corrado; nè si diede pensiero del figliuolo di lui, Corradino, che doveva esserne erede; affrettando coi delitti e colla discordia la rovina di Casa Sveva. Ma tutto questo è incertissimo.

I papi che in quel tempo si succedettero, scomunicarono Manfredi e gli mossero guerra; ma trovandosi inabili a vincerlo, sostenuto come era dalla fazione ghibellina, chiamarono in Italia Carlo d'Angiò fratello di Luigi IX re di Francia. Costui nel 1265 ricevette da Urbano IV l'investitura del regno di Napoli e di Sicilia. L'anno dopo, Manfredi morì combattendo presso Benevento.

Il giovine Corradino venne dipoi di Germania (dove il padre lo avea lasciato fanciullo) per ricuperare coll'armi l'eredità de' suoi antenati: fu vinto a Tagliacozzo e fuggì travestito; ma cadde nelle mani di Carlo, e finì sul patibolo nell'ottobre del 1268. Così Carlo restò padrone del regno. Ma della sua prosperità e della manifesta sua ambizione ingelosì ben tosto la Corte di Roma. Gregorio X, desideroso di suscitargli un ostacolo, si volse a far rivivere la dignità imperiale vacante dopo la morte di Federico II; sicchè poi nel 1273 fu eletto Rodolfo d' Absburgo.

Quest'imperatore, occupato in continue guerre al di là delle Alpi, non discese mai in Italia: giovò nondimėno al papato per l'opinione comune che, bisognando, non gli mancherebbe d'aiuto; e gli accrebbe anche potenza, concedendo a Niccolò III nel 1279 il disputato possesso delle terre lasciate dalla contessa Matilde.

A Carlo d'Angiò nocevano intanto le cattive sue leggi e i modi altieri e oltraggiosi di tutti coloro che eran venuti di Francia con lui: e queste cagioni, aggiunte al dolore che porta sempre con sè ogni dominazione straniera, diedero origine ad una segreta congiura delle principali famiglie per chiamare al trono Pietro re d'Aragona, o piuttosto sua moglie Costanza figliuola di Manfredi, ed ultima di Casa Sveva. Mentre poi quelle pratiche procedevano lente ed occulte, le incessanti violenze degli Angioini provocarono il popolo ad una subita rivoluzione, conosciuta sotto il nome di Vespri Siciliani perchè ebbe principio al tocco del Vespro addì 30 marzo 1282 dinanzi a una chiesa fuor di Palermo. In pochi giorni furono uccisi per tutta l'isola quanti Provenzali o Francesi vennero alle mani del popolo sollevato; col quale si unirono i grandi, già (come si è detto) disposti a ribellarsi, ed ora desiderosi di volgere a proprio profitto quel movimento. Pare che in questa congiura fosse adoperato principalmente un Giovanni da Procida: il quale, spogliato da Carlo di quanto gli avevano dato gli Hohenstaufen, erasi rifuggito alla Corte aragonese. Una tradizione durata come certissima fino ai di nostri, confondendo la congiura che si veniva preparando dai signori coll' improvvisa sollevazione del popolo, attribuì poi a quest'uomo solo quasi tutto quel grande e terribile avvenimento.

Il re d'Aragona non tardò, a venire in campo con intenzione di cacciar gli Angioini da tutto il regno. La guerra per altro durò poi così a lungo, che ne Carlo d'Angiò nè Pietro di Aragona poterono vederla finita: e l'esito fu, che la Sicilia toccasse agli Aragonesi; Napoli con quanto è al di qua dello Stretto, restasse agli Angioini.

Frattanto era morto Rodolfo d' Absburgo senza esser venuto in Italia nè anche a pigliar la corona. Nè ci vennero Adolfo di Nassau e Alberto d'Austria suoi successori. Laonde può dirsi che dopo Federico II, per tutto il secolo XIII, le città d'Italia non ebbero da parte dell'imperio ostacolo alcuno a ben progredire: ma fu

rono impedite dalle proprie loro discordie. I nobili che nel secolo precedente s'erano trasferiti dai castelli nelle città, avevan recate dentro un medesimo cerchio di mura quelle animosità che prima solevano esercitarsi da terra a terra. Il popolo si divise aderendosi agli uni od agli altri di que' potenti; i quali non tardarono poi ad acquistarsi autorità e nome di principi. Così in Milano nel 1241 Pagano della Torre, e poi nel 1247 suo nipote Martino furono eletti a difendere i popolani dai nobili, il primo con nome di Protettore del popolo, il secondo con quello di Anziano della Credenza o del Consiglio maggiore; ma già nel 1263 Filippo fratello di Martino aveva preso il titolo di Podestà perpetuo; dipoi Napo o Napoleone quello di Anziano perpetuo del popolo e Vicario imperiale. Egli tenne dal 1265 al 1277 autorità principesca e la consolidava nella sua famiglia, se non si fosse trovato a fronte di un'altra famiglia più potente e più fortunata, qual fu la famiglia Visconti. La quale, dopo una grande vittoria riportata dall'arcivescovo Ottone (Visconti) sopra i Torriani, fondò una signoria che durò fino alla metà del secolo XV. Di questa maniera tramutaronsi in principati anche i governi liberi di altre città.

La forma repubblicana si mantenne nelle città marittime di Pisa, Genova e Venezia, ed anche in Firenze. Ma Pisa, sconfitta dai Genovesi alla Meloria nel 1284, cessò di poter gareggiare colle altre due, e andò sem pre più decadendo. Genova, potentissima in mare, contese lungamente a Venezia il commercio d' Oriente; ma divisa da interne fazioni, non ebbe quella stabilità di istituzioni e quell'ereditaria sapienza di Stato che son fondamento alla potenza. Venezia non meno agguerrita di Genova, nè meno studiosa di procacciarsi ricchezze, la vinse di lunga mano nella sapienza politica, nella forma e nella stabilità del suo reggimento. Al principio di questo secolo il doge Andrea Dandolo, capo della quarta Crociata, conquistò Zara, ed espugnò Costantinopoli, ottenendo per la repubblica un quartiere di quella città e le isole dell' Arcipelago. Quindi i Veneziani presero Candia e Corfù, si stesero nella Grecia, e cominciarono a intromettersi nelle cose di Terraferma. Sul finire del secolo poi, giudicando che alcune famiglie per ricchezze e per gloria militare diventassero pericolose alla libertà, ricorsero a un rimedio nuovo e animoso, conosciuto sotto il nome di Chiusura del gran Consiglio: perciocchè scris

sero in un registro chiamato Libro d' Oro i nomi delle famiglie che allora componevano quella magistratura veramente sovrana, e stabilirono che nessun' altra potesse entrarvi mai più. Ed a custodia di questo nuovo ordine fu allora istituita un'altra magistratura, detta Consiglio dei Dieci, la cui vigilante severità durò poi terribile finchè durò la repubblica.

Firenze, per le interne discordie e le frequenti mutazioni potrebbe paragonarsi a Genova; ma la esaltavano già fin d'allora fra tutte le nostre città l'ingegno acuto e gentile degli abitanti, e lo studio costante di tener cacciato d'Italia ogni dominatore straniero. Le discordie cominciarono privatamente nel 1215 tra le famiglie Buondelmonti ed Uberti per una promessa di matrimonio mancata; ma la protezione data da Federico II agli Uberti, le fece diventar generali e politiche, e distinse i contendenti coi nomi di Guelfi e Ghibellini. Quando poi, per la morte di Federico, prevalse la parte guelfa, cominciarono in Firenze le istituzioni repubblicane, con un governo di dodici Anziani e due Giudici forestieri (uno chiamato Capitano del popolo e l'altro Podestà) e insegne militari alle quali dovesse accorrere tutta la gioventù ogni volta che il Capitano o gli Anziani la chiamassero. Con questi ordini prosperò Firenze e fu senza dissensioni fino al tempo che Manfredi risuscitò i Ghibellini in tutta Italia. Con gli aiuti di quel principe, e guidati da Farinata degli Uberti, i Ghibellini fuorusciti sconfissero (nel 1260) i Guelfi presso Monte Aperti sul fiume dell'Arbia per modo che gli avanzati alla strage non osarono ritornare a Firenze, ma si rifuggirono a Lucca. I vincitori, stimando impossibile che Firenze cessasse mai d'esser guelfa, proposero di distruggerla, ma Farinata non comportò che un tal consiglio venisse ad effetto. Del resto, non prevalsero i Ghibellini se non quanto durò la fortuna di Manfredi; perciò, subito dopo la battaglia di Benevento già mentovata, ecco risorgere i Guelfi colle antiche loro pretensioni. Parve quindi necessario a coloro che governavano concedere quello di che, indugiando, potevano essere spogliati: però divisero la cittadinanza in dodici arti, sette maggiori e cinque minori, ciascuna con un suo magistrato e una sua bandiera sotto la quale nei bisogni si raccogliesse. Non per questo la città fu quieta. Ai Guelfi pareva aver ottenuto ben poco; i Ghibellini pentivansi di aver troppo concesso; e per la venuta di Corradino salivano in nuove speranze. Ma i

Guelfi commisero per dieci anni la signoria a Carlo di Angiò; cacciarono i Ghibellini e diedero alla città un governo ancor più popolare. Ben presto poi diventarond tanto insolenti, che nel 1282 si venne ad una rivoluzione pienamente democratica. Ordinossi che soltanto i mercanti e gli artigiani potessero avere magistrature, dalle quali i nobili rimanessero esclusi se non si scrivevano in qualcuna delle arti: il governo fu commesso ai Priori delle arti che poi si chiamarono Signori (o la Signoria) ed ebbero per loro dimora un palazzo con sergenti ed altri ministri che li servissero e onorassero. La città stette per qualche tempo quieta, e fiorì come capo dei Guelfi o di quanti volevano libertà e indipendenza nazionale: vinse gli Aretini nella battaglia di Campaldino (giugno 1289); abbattè i Pisani; fu temuta e pregiata non solo in Toscana ma in tutta Italia. Nondimeno nel 1293 si trovò necessario di aggiungere alla Signoria un gonfaloniere di giustizia a difesa dei popolani: poi persistendo i nobili a voler soperchiare, e trovando facilmente chi li favorisse, uno dei signori, per nome Giano della Bella, propose e vinse alcune leggi dette ordini della giustizia per reprimere i grandi, e li escluse da ogni pubblico ufficio. I quali, non osando combatterlo direttamente lo calunniarono di aspirare a farsi tiranno; sicchè abbandonato da una parte del popolo, per non diventar cagione di guerra intestina, lasciò la patria e morì nell'esilio. Non cessarono per questo le discordie civili: tuttavolta le ricchezze e le armi mantennero fiorente e temuta la repubblica fino all'anno 1300. Allora vennero da Pistoia i capi di due fazioni dette dei Bianchi e dei Neri, e divisero i Fiorentini sotto quei due nomi, benchè tutti fossero Guelfi. Coloro che aderironsi ai Neri furono a Roma e accusarono i Bianchi dicendo che si facevano Ghibellini.

Sedeva allora pontefice Bonifazio VIII creato nel 1294; il quale (così Dino Compagni) fu di grande ardire é alto ingegno, e guidava la Chiesa a suo modo e abbas sava chi non gli consentia. Benchè non avesse poter temporale, e nella stessa città di Roma fosse combattuto costantemente dalla famiglia Colonna, fece sentire gli effetti del suo ingegno e della sua indole, non pure in Roma e in Italia, ma in gran parte d'Europa. Ricusò lungamente di approvare l'elezione d'Alberto d' Austria a re dei Romani; fu avverso a Filippo il Bello re di Francia; mosse guerra agli Aragonesi di

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