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Sicilia per restituire quell'isola a Carlo II d'Angiò, dal quale principalmente riconosceva il pontificato; scomunicò principi e popoli; e volgeva nell'animo di sterminare d'Italia tutta la fazione de'Ghibellini, per recare la Santa Sede a quella grandezza a cui Gregorio VII e Innocenzo III avevan tentato già di sollevarla. Per compiere codesti disegni aveva chiamato appunto in Italia Carlo di Valois fratello del re di Francia, quando la nuova discordia, poc' anzi accennata, indusse i Fiorentini a rivolgersi a lui: ed egli mandò a Firenze quello straniero, in voce come paciere o coll' incarico di ridurre le fazioni a concordia, ma nel vero poi per opprimere i Bianchi. Del resto la venuta del Valois non sorti quell' effetto che Bonifazio se n'era promesso: perciocchè sebbene i Ghibellini di Toscana fossero molto abbassati, non per questo i Guelfi rimasero senza contrasti e senza sospetti: oltracciò non fu possibile ritogliere la Sicilia agli Aragonesi, nè la potenza del papa si allargò.

Sono questi i principali avvenimenti del secolo XIII; secolo di fazioni e di guerre, pieno di grandi calamità, ma ben anche di grandi fatti, e di sentimento nazionale.

Le fazioni si esercitavano quasi sempre sotto i nomi di Ghibellini e di Guelfi, i quali in origine furono nomi di due potenti famiglie della Germania nemiche tra loro. Quando la famiglia dei Ghibellini salì al trono imperiale col celebre Federico Barbarossa, cominciaronsi a confondere i nemici dei Ghibellini coi nemici dell'imperio; e il nome della famiglia avversaria alla Ghibellingia divenne generale a tutti coloro ch' eran avversi all' imperio; questa distinzione passò anche in Italia, e parve una tremenda vendetta lasciata da Federico tra i popoli che lo avevano vinto. Sebbene poi in Italia, dopo Gregorio VII, i pontefici fossero quasi sempre capi o fautori della fazione contraria all' imperio, non è da credere per altro che i Guelfi italiani fossero sempre partigiani della Chiesa. Le città lombarde, a cagione di esempio, erano Guelfe in quanto che ricusavano di sottomettersi alla potenza imperiale: si univan coi papi a combattere contro gl' imperatori, perchè l'alleanza dei papi dava loro un grande vantaggio nell' opinione dei popoli; nè perciò combattevan pei papi, ma sì per la propria libertà. Nè i papi unendosi colle città libere intendevano di combattere in favore della libertà, ma bensì per quella dominazione alla quale più o meno apérta

mente aspirarono tutti. Col volgere poi del tempo, cessata in gran parte la lotta fra il sacerdozio e l'imperio, i nomi di Guelfi e di Ghibellini significarono in generale due contrarie fazioni; e ridestaronsi ogni volta che due potenti famiglie, per qual si fosse cagione, venivano a discordia tra loro.

SCRITTORI DEL SECOLO DECIMOTERZO.

Tra i grandi avvenimenti di questo secolo deve collocarsi anche il principio della nostra letteratura; giacchè quel che abbiamo del secolo precedente può servir a provare in che stato trovavasi allora la língua volgare, ma non costituisce opere letterarie propriamente dette. La lingua si era venuta componendo e formando, dove più dove meno, in tutte le provincie d'Italia, come doveva per necessità avvenire in un tempo di governi municipali e repubblicani; ma le opere letterarie vennero naturalmente alquanto più tardi. Senza dubbio. deve conoscere anche quelle prime scritture chi vuol possedere compiutamente la storia della lingua italiana; e quella conoscenza non sarà per certo infruttuosa nè anche a chi studia con intenzione di farsi scrittore: ma allo scopo di questo libro basta non avere taciuto che si hanno scritture italiane innanzi al secolo XIII dal quale noi cominciamo. Fra i migliori dell' età precedente suole annoverarsi Folcacchiero dei Folcacchieri senese: e nondimeno, ecco la prima strofa d'una sua canzone riferita da Vincenzo Nannucci:

Tutto lo mondo vive sanza guerra,
Ed eo pace non posso aver neiente.

O Deo, come faraggio?

O Deo, come sostenemi la terra?

E' par ch' eo viva in noia della gente:

Ogn' uomo m' è selvaggio:

Non paiono li fiori

Per me com' già soleano,

E gli augei per amori

Dolci versi faceano agli albóri.

Ciascuno crederà di leggieri che negli scrittori d'altre provincie la rozzezza di quell' età mostrasi ancora

maggiore. Ma deve dirsi altresì che non tutti gli scrittori del secolo decimoterzo, son preferibili a questo senese; per modo che anche in questo secolo è scarso il numero delle opere degne del nome di letterarie. E questo possiamo far manifesto adducendo qualche saggio di lacopo da Lentino detto anche il Notaio, di Fra Guittone d'Arezzo e di Fra Iacopone da Todi tenuti generalmente tra i migliori di quell' età. Ecco dunque la prima strofa di una canzone di Iacopo da Lentino:

Madonna, dir vi voglio

Come l'Amor m' ha priso.

Inver lo grande orgoglio

Che voi, bella, mostrate, e' non m'aita.
Ahi lasso lo meo core

In tante pene è miso,

Che vive quando muore

Per bene amare, e teneselo a vita.

Dunque morira' eo?

No: ma lo core meo
More più spesso e forte
Che non faria di morte
Per voi, donna, cui ama,
Più che sè stesso brama,
E voi pur lo sdegnate:
Donque vostr' amistate

naturale

vide male.1

Ed ecco il commiato o la fine di un' altra canzone, nella quale il poeta si paragona a un pittore che vagheggia il ritratto della sua amante dipinto da lui medesimo: Mia Canzonetta fina,

Va', canta nuova cosa;
Moviti lo mattino

Davanti alla più fina,

Fiore d'ogni amorosa,

Bionda più ch' áuro fino

Lo vostro amor, ch'è caro
Donatelo al Notaro,

Che nato è da Lentino.

Ed ecco finalmente un sonetto :

Chi non avesse mai veduto foco,

Non crederia che cocere potesse,

1 Vide male. Con suo danno.

Anzi li sembreria sollazzo e gioco
Lo suo splendore, quando lo vedesse.
Ma s'ello lo toccasse in alcun loco,
Ben li sembrara1 che forte cocesse;
Quello d'Amore m' ha toccato un poco,
Molto mi coce: Deo, che s' apprendesse !
Che s'apprendesse in voi, o donna mia,
Che mi mostrate dar sollazzo amando,
E voi mi date pur pena e tormento.
E certo l'Amor fa gran villania,

Che non distrigne te, che vai gabbando;
A me che servo, non dà sbaldimento.2

Al contrario di questo Iacopo, sembra che Fra Guittone fosse, miglior poeta nei sonetti che nelle canzoni, se veramente appartengono a lui le poesie che gli sono attribuite. Certamente, per quell' età dovrebbe giudicarsi assai bello il seguente sonetto:

Donna del cielo, glorïosa madre

Del buon Gesù, la cui sacrata morte,
Per liberarci dalle infernal porte,
Tolse l'error del primo nostro padre;
Risguarda, Amor con saette aspre e quadre
A che strazio n' adduce ed a qual sorte:
Madre pietosa, a noi cara consorte,
Ritra'ne dal seguir sue turbe e squadre.
Infondi in me di quel divino amore

Che tira l'alma nostra al primo loco,
Si ch'io disciolga l'amoroso nodo.
Cotal rimedio ha questo aspro furore,

Tal acqua suole spegner questo fuoco,
Come d'asse si trae chiodo con chiodo.

Di un altro sonetto dove il poeta ragiona della morte a cui lo conduce anzi tempo la durezza della donna da lui amata, trascriverò soltanto le terzine:

Ben forse alcun verrà dopo qualch' anno,
Il qual leggendo i miei sospiri in rima
Si dolerà della mia dura sorte.

E chi sa che colei ch' or non m' estima,

Visto con il mio mal giunto il suo danno,
Non deggia lagrimar della mia morte!

Sembrara. Sembraria, sembreria.

2 Sbaldimento. S' interpreta: Letizia, allegrezza.

Nelle Canzoni, come già dissi, riuscì minor poeta che nei Sonetti; tanto minore, che duriamo fatica a credere che quelli e queste uscissero d'un medesimo ingegno. E benchè sia possibile ripescare anche da queste canzoni qua e là qualche gruppo di versi abbastanza felice, generalmente ridondano di bisticci, di frasi contorte e di ⚫rime sforzate. Perciò non si addirebbe allo scopo di questo libro, nè alcuno potrebbe ragionevolmente desiderare che io ne trascrivessi qui più che una qualche strofa per saggio:

Tantosto, donna mia,

Com' eo voi vidi, fui d'amor sorpriso;
Nè giammai lo meo avviso

Altra cosa che ciò non divisoe,

E si m'è bon ch' eo sia

Fedele a voi, che in me non trovo cosa

Per ciò contrarïosa,

Chè l'alma e lo saver deletta cioe.

Perchè tutto me doe

Voi, cui più che meo soe.

Meo non son già; chè a far vostro piacere

Volontero isfarei me in persona

Per far cosa di mene

Che più vi stesse bene;

Chè già non m' osa unqu' altro essere a voglia

Che ubbidir vostra voglia.

E s'io di voi disio cosa altra alcona,

Credo che savvi bona,

E che valor v' accresce in allegranza

Di vostra innamoranza.

Non piaccia a Deo che mai possa movère.

Meno lontano dalla pulita maniera del secolo XIV mostrasi non di rado Fra Iacopone da Todi. Così, per esempio, nella canzone a Maria Vergine:

Porgi soccorso, o Vergine gentile,

A quest' alma tapina,

E non guardar ch' io sia terreno e vile,

E tu del ciel reina;

O stella mattutina,

O tramontana del mondan viaggio,

Porgi il tuo santo raggio

Alla mia errante e debil navicella...

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